Da dramma psicologico a mistery, arrivato alla terza stagione The Affair riparte dalla fine di ogni certezza.
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con NOW TV.
Mi pare esista una costante: le serie tv che sono riuscite a mantenere un’attenzione ininterrotta negli anni sono quelle che hanno saputo rovesciare il proprio genere o presupposto. The Americans era una serie di spionaggio, poteva esserlo di fantapolitica, e invece è diventata una serie sull’amore coniugale. Di House of Cards s’è ampiamente detto proprio per un’analoga trasformazione. Game of Thrones viene paragonato a praticamente qualsiasi grande romanzo perché accoglie letture molto oltre il proprio genere. The Affair era un dramma psicologico, è diventato un mistery, e nella terza stagione cambia ancora, confondendo i due piani precedenti e portandoci su un altro.
La prima, inaspettata modifica è la scomparsa dei punti di vista nella costruzione della puntata. La grande novità cui The Affair ci aveva finora abituati, e cioè che la verità non esiste – che due persone, della stessa vicenda, anche decisiva rispetto alla propria vita, possano avere un ricordo diverso e descriverlo in maniera completamente differente – sembra scomparire. Niente più Noah che ricorda una Alison procace e in minigonna, mentre lei si pensa castigata, in vestiti da lavoro, e senza intenzione di sedurre i clienti. La terza stagione rivoluziona questo schema. O, almeno, prova a ingannarci. Per un po’, infatti, ci illudiamo che una verità esista, e che questa sia la verità processuale. Col processo – anzi, con la sentenza –, per qualche episodio le letture dei fatti diventano marginali. Anche se i protagonisti sanno che la verità è un’altra, quella verità non conta più. Conterà per loro, ma come trascorso: ormai è un punto definito. La vita può solo ripartire da essa. A importare, ora, sono i fatti. Eppure è solo un’illusione. I protagonisti provano a opporsi al proprio tragico destino, ma sembra impossibile: non si può fuggire alla vendetta, né al tradimento, né, ancora, alla cronaca nera.
I protagonisti cercano un vero e proprio reboot. Alcuni nella maniera più scontata possibile, come Alison, tornando semplicemente “a casa”, a Montauk, dove tutti “la conoscono per nome”. Altri costruendosi una nuova famiglia, come Cole e, per tanti versi e controvoglia, persino Helen, sui cocci della precedente. Eppure quello delle “nuove famiglie” che nascono è un momento che perde forza rispetto alle stagioni precedenti. Se finora lo sfascio delle vite degli esclusi aveva, quantomeno, lasciato l’impressione che la passione lo meritasse, che la sofferenza di qualcuno messa sul piatto della bilancia fosse più leggera della gioia degli innamorati, adesso le nuove famiglie non sembrano rappresentare altro che la corruzione delle famiglie precedenti.
The Affair era un dramma psicologico, è diventato un mistery, e nella terza stagione cambia ancora, confondendo i due piani precedenti e portandoci su un altro.
Vivere con la propria sorella e suo marito, condividere un’abitazione con degli studenti, vivere con la figlia del proprio compagno o con i figli della propria compagna, vivere da soli: si tratta semplicemente di scegliere un modo nuovo e più contemporaneo di vivere, o del fallimento di un modello aspirazionale, crollato sotto il peso di un egoismo sempre più accentuato?
Un personaggio secondario suggerisce che la famiglia non sia altro che una struttura sociale volta a tutelare la proprietà privata: potrebbe anche essere vero, ma quella frase – pronunciata con la protervia di un ventenne – si scontra con la vita quotidiana dei protagonisti, che di questa consapevolezza non se ne fanno nulla. È una frase esatta, ma è solo speculazione, e una volta riconosciuta l’esattezza dell’affermazione si torna alla vita nella sua concretezza, al bambino col mal di pancia, a quella che s’è scelta un fidanzato cretino di vent’anni più grande solo perché ha problemi col padre. Insomma, non cambia nulla. Non cambia nulla nemmeno per Noah, il più consapevole – a volte addirittura l’unico – dello svolgimento dei fatti e della loro interpretazione. Eppure Noah, e non è un caso, sarà l’unico a rimanere incapace a dirigere le proprie azioni, e a trovare una nuova strada.
I fatti adesso si accavallano molto più rapidamente di prima. Uno dopo l’altro. Come se tutte le storie, concluse col verdetto, avessero trovato nuovo slancio. Ma allo stesso tempo è come se l’energia stesse scemando, e però più disordinatamente di quanto potessero tutti prevedere. Esauritasi la passione, adesso è l’ansia di controllo a muovere l’azione. Ma la passione dava a tutte le decisioni, per quanto repentine e illogiche, il carattere della necessità. Senza passione, invece, Alison e gli altri si muovono mossi da bisogni forse più condivisi, eppure così poco sentiti, innanzitutto da loro stessi, da risultare continuamente vittime di decisioni altrui. Così ci passano davanti agli occhi abbandoni che non si rivelano tali, addii che sono chiaramente poco più di un arrivederci. Coppie che vanno a vivere assieme perché ci si stanca perfino di opporsi. Tutti talmente sfiduciati da fidarsi di chiunque. Se ha deciso che dobbiamo stare assieme, forse ha ragione lui: stiamoci.
Smorzatosi ogni entusiasmo, ora che tutto è reazione, i personaggi più che relazionarsi agli altri pensano a se stessi. Stavolta, però, non in senso egoistico o di autoaffermazione, ma riflessivo. Al posto delle diverse letture dello stesso episodio, gli autori si sono concentrati sull’autoanalisi dei personaggi. Non esiste più il primo bacio visto da Alison e il primo bacio visto da Noah. Adesso ci sono due Alison, e Alison che decide, sempre in bilico nella scelta, quale delle due voglia essere. Ci sono due (forse anche di più) Noah che si scontrano. Lo scrittore, il padre, l’amante, la vittima, il professore carnefice. Noah che riflette continuamente – ne ha, di tempo – sui traumi del passato familiare, matrimoniale, persino carcerario, e cerca una volta di recidere il filo che lo lega a essi e il minuto dopo di riannodare la parte che gli interessa. Allo stesso modo Alison. Ricomincia da capo in un modo, poi resta dell’idea di ricominciare da capo, ma in tutt’altro modo.
E in effetti il vero motore dell’azione – come gli riconoscerà a un certo punto Cole, in un dialogo che sintetizza bene l’intera trama – è ancora e sempre lei, Alison: “I don’t give a shit about Noah Solloway. It’s this shit! This drama that comes with you. I don’t need it in my life!”.
L’amore è scomparso. Perfino la passione, per quanto qualcuno ancora ridicolmente la cerchi nella gioventù o nelle sue parodie, è giusto una simulazione, un ricordo.
Alison porta con sé la tragedia da ben prima di incontrare Noah. L’incontro con lui le offre solo l’occasione di aggiungere dramma alla dramma: Noah potrebbe benissimo costituire solo una parentesi, mentre lei continuerà a interpretare un personaggio tragico in altre storie, forse con la figlia, forse di nuovo con Cole o – come avrebbe detto il Sassaroli di Amici Miei – “bella com’è, un altro bischero lo ritrova subito”. Ci fosse una quarta stagione sarebbe così.
E come in ogni bella tragedia che si rispetti, è giunto il momento della punizione. Ciò che ci terrà incollati fino alla fine è scoprire come (o se) saranno “puniti”. Se la Descent (come si intitola il libro che ha dato il successo a Noah) sia conclusa, se Noah abbia toccato davvero il fondo in galera, o se invece ci sia ancora da scavare. Se Helen possa essere al riparo dalla tragedia perché Noah s’è accollato la sua parte, oppure il senso di colpa trascinerà anche lei. Se Noah abbia pagato abbastanza o non ancora.
In tutto questo, l’amore è scomparso. Perfino la passione, per quanto qualcuno ancora ridicolmente la cerchi nella gioventù o nelle sue parodie, è giusto una simulazione, un ricordo. E il gran parlare che si fa di amore e passione, stavolta anche esplicitamente, è pura speculazione intellettuale (Oltretutto per quanto sia divertente parlare di amor cortese nel 2016, le affinità tra l’amor cortese e The Affair sono molte meno di quelle che sperano i protagonisti. L’amor cortese prevedeva molta meno pena di quanto si creda e la “descent” all’Inferno era una purificazione, non un’esaltazione dei sensi).
Strettamente intrecciato al tema della punizione dei dissolutori dell’armonia familiare, c’è l’ultima grande novità di questa terza stagione: il cattivo, un classicissimo villain. La sua disturbante presenza spinge lo spettatore a mettere in dubbio il saldo principio morale per cui vorrebbe veder punito Noah. Una volta ho letto una bizzarra interpretazione de Gli uccelli di Hitchcock secondo cui la ribellione dei volatili sarebbe provocata dalla protagonista del film, Melania Daniels, in virtù del suo tentativo di intaccare il matrimonio dei coniugi Brenner (il tizio con cui ha una schermaglia nelle prime scene del film e a cui, ironicamente, regala una coppia di inseparabili). Dico bizzarra perché mi sembra, in ogni caso, sproporzionata. Nonostante tutto, mi auguro che la sproporzione non valga anche per Noah.
Se ti è piaciuto questo articolo guarda The Affair su NOW TV.
(1979) Ha pubblicato un paio di libri per Fandango. E, ogni tanto, scrive per qualche rivista. Ma vive e ha due bambini grazie al fatto che il suo nome scorre nei titoli di un programma tv.