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3%, la serie TV brasiliana recentemente prodotta da Netflix, ha tanti difetti ma almeno un pregio: cercando di emanciparsi dal modello Hunger Games, ipotizza una via plausibile alla “distopia liberista”.

Tentazione forte per ogni scrittore, il genere distopico consente di applicare alla lettera quel detto per cui ogni autore che si rispetti “crea il proprio mondo”. La sfortuna è che questi mondi personali finiscono per somigliarsi un po’ tutti: in particolare, quando si parla di distopie, sembra inaggirabile la presenza di un governo centralizzato sullo stampo dei grandi totalitarismi novecenteschi, di destra o di sinistra. Uno dei pochi a essere riuscito a rovesciare brillantemente il tavolo è stato David Foster Wallace, che con Infinite Jest ha proposto una distopia caratterizzata precisamente dall’assenza di un potere politico forte e dall’egemonia del mercato sopra tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, avvolta da una libertà illimitata e asfissiante. Costruire un credibile incubo liberista in un mondo che ha perso da tempo i suoi grandi nemici totalitari, è la sfida che si impone a ogni artista che voglia portare una critica al presente.

Da questo punto di vista, possiamo senza dubbio affermare che la sfida è stata raccolta anche da 3%, la serie tv brasiliana ideata da Pedro Aguilera, girata da César Charlone e prodotta dalla solita Netflix. Purtroppo l’esperimento riesce solo a metà, producendo un ibrido tra le due idee di società. Vediamo perché.

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Il trailer di 3%.

Dal punto di vista narrativo, 3% si presenta come una variazione sul tema di Hunger Games e Battle Royale, ma le variazioni che ha apportato al modello – un come of age survival che si è imposto nell’intrattenimento contemporaneo con una forza quasi archetipica – sono cruciali. La trama, se non la conoscete, è la seguente: in un futuro più o meno prossimo, il 3% della popolazione mondiale vive su un’isola chiamata “Maralto” (Offshore in inglese), in un benessere straripante che non vediamo mai. Il restante 97%, sguazza nella miseria nell’Entroterra che è una versione appena peggiorata delle favelas di Rio de Janeiro con sporcizia, malattie e criminalità a scandire l’esistenza.

L’accesso al paradiso in terra non è però casuale o ereditario, bensì rigidamente meritocratico. Al compimento del ventesimo anno d’età, i cittadini dell’Entroterra possono partecipare a una competizione chiamata “Processo”, durante la quale, attraverso una serie di prove messe a punto da una commissione del Maralto, saranno giudicati degni o meno di entrare nell’élite della società. Le prove sono principalmente di natura cognitiva e sociale: infatti, escluse le prime fasi individuali, il grosso del Processo si svolge in piccoli gruppi che devono superare sia le insidie esterne architettate dalla giuria, sia quelle interne emergenti dalla loro piccola cellula sociale.

Nella serie seguiremo, da un lato, l’avventura di uno di questi gruppi, la precaria interazione delle differenti personalità che lo formano prese in una guerra tutti contro tutti ma non troppo; dall’altro la difficile situazione di Ezequiel, il direttore del Processo (interpretato da un intenso ma misurato João Miguel), alle prese con un’edizione quantomai problematica che lo vede a sua volta sorvegliato dall’inviata di una fazione del gruppo dirigente di Maralto che mira a farlo fuori.

Altro attore del dramma, immancabile in ogni storia distopica che si rispetti, è la resistenza, qui chiamata “la Causa”: un’organizzazione di cospiratori mascherati con gli stracci che si estende nei sotterranei delle favelas e che ogni anno manda al Processo alcuni suoi militanti, indottrinati sin dall’infanzia, con lo scopo di inoculare il virus oltre le linee nemiche. Ben due di loro sono infiltrati nel gruppo di cui seguiamo le vicissitudini.

Il Processo è un’opportunità che viene volontariamente colta dagli abitanti dell’entroterra nella speranza di una vita migliore; per capirci, se in Hunger Games si dispera chi viene scelto, in 3% a disperarsi sono quelli che non vengono scelti.

Ora, c’è da dire che quasi nessuno tra i personaggi della trama è particolarmente memorabile. Con ancora negli occhi la lezione narratologica di Westworld, coi suoi robot programmati tramite back story traumatiche, risulta evidente la bidimensionalità dei protagonisti di 3%, interamente definiti da una qualche scena madre che ci viene mostrata in noiosi flashback allenta-tensione. Si salva uno dei due infiltrati della Causa, la cui moralità ondivaga lo slega dai plot device che incatenano tutti gli altri.

A conquistare la scena è però il contesto, il susseguirsi di prove che interrogano le reazioni dei protagonisti e degli spettatori: e qui si apre una distanza, in primo luogo narrativa, tra il già citato modello Hunger Games e 3%. Il survival game selvaggio del primo è così ripetitivo che un sito ha messo a punto un simulatore alimentato da quella manciata di situazioni ricorrenti che mandano avanti la storia: un terreno di coltura per deus ex machina nel quale ogni conflitto può essere risolto o annullato dall’intervento di un terzo personaggio, di una malattia, di una disgrazia o, letteralmente, da un regalo divino calato tramite una macchina volante. Dall’altra parte, in 3% la regia del Processo (quasi un’eco dell’idea vincente di Saw) limita le possibilità, crea hype e organizza in modo coerente le fasi della storia.

Le differenze tra i due setting riverberano sul piano politico e mostrano in che modo è stata declinata l’idea di una società oppressiva. Titoli come Hunger Games e Battle Royale sono distopie classiche nel senso che abbiamo detto all’inizio, in cui un governo immancabilmente autoritario dispone a suo piacimento della vita dei suoi cittadini (o di quella dei colonizzati nel caso di HG). Entrambi i governi hanno tratti imperialistici e addirittura premoderni, considerata la loro passione per le articolate esecuzioni pubbliche che sono appunto gli Hunger Games e il “Programma” di Battle Royale. Lo svolgimento dei giochi, però, si configura proprio attraverso un’eclissi del potere inteso sia come ordine costituito sia come presenza dello Stato: non è il boia che, investito dal mandato del re, fa scempio del corpo del suddito, ma le vittime stesse che sono ricondotte a uno stato di natura hobbesiano, costrette a considerarsi lupi vicendevolmente nel contesto di guerra totale.

In 3%, invece, il potere organizza per intero i giochi: è presente prima, durante e dopo di essi. Inoltre lo Stato non preleva con la forza i suoi sudditi per poi ammazzarli praticamente tutti nella cornice di un sacrificio rituale. Il Processo è al contrario un’opportunità che viene volontariamente colta dagli abitanti dell’entroterra nella speranza di una vita migliore; per capirci, se in Hunger Games si dispera chi viene scelto, in 3% a disperarsi sono quelli che non vengono scelti.

Il 97% alla prova.

D’altronde, al netto di qualche “incidente di percorso”, delle ripercussioni psicologiche sui respinti e di un certo cinismo esibito, il Processo ha un gradiente di violenza nemmeno paragonabile al Programma di Battle Royale o ai giochi di Hunger Games; nessun sacrificio umano, quanto semmai test manuali, psicologici, sociali, deduttivi. Sì, c’è pure un corridoio irrorato da droghe allucinogene e un reenactment del Signore delle mosche; ma niente che non possa essere accolto come suggerimento plausibile per il prossimo Concorsone del ministero.

Il dispositivo politico di 3% rinuncia alla brutalità gratuita come mezzo di controllo delle masse, ma allo stesso tempo interviene attivamente nelle loro vite: sorveglia, valuta, giudica e punisce. E non solo nello spazio eccezionale del “Processo” (il classico limbo tra due mondi pensato come banco di prova): anche nell’Entroterra, la vita del 97% della popolazione è sorvegliata 24/7 da una rete di telecamere panoptica, il che messa così ci fa tornare dalle parti del solito Grande Fratello orwelliano.

La volontà di colpire al cuore i miti fondativi del liberismo è in ogni caso manifesta: l’unico Dio del mondo descritto da Aguilera è il merito, e tutti gli sforzi del potere sono tesi a renderlo un sistema di classificazione immanente e perfetto. La stessa iconografia del Grande Fratello subisce delle distorsioni significative. Appena giunti sul luogo, in un’adunata vecchia maniera, i candidati assistono al discorso inaugurale del capo del Processo proiettato su uno schermo gigante. Ma, grazie a impianti di realtà aumentata ormai comunissimi nella sci-fi contemporanea, ciascuno ascolta una versione del discorso che si riferisce proprio a lui, con nome e cognome: al Noi dei grandi leviatani organicistici subentra insomma l’Io dell’individualismo liberale.

Inoltre, anche se non abbiamo molte informazioni circa il regime politico del Maralto, notiamo che le alte cariche (che interagiscono col capo del Processo attraverso uno Skype futuristico), ricordano più il consiglio d’amministrazione di una corporation che una qualche gerarchia verticistica tipica delle dittature. E poi c’è il titolo stesso della serie: uno sfacciato riferimento all’1% attaccato dai movimenti Occupy.

La tanto agognata meritocrazia perfetta può esistere davvero: non ci sono avvantaggiati o corrotti, eppure siamo ancora in un incubo.

Mettendo in ordine i tasselli, possiamo leggere l’operazione 3% non tanto sulla scia di David Foster Wallace, o di suoi colleghi come Houellebecq e De Lillo che affrescano un mondo in cui il Mercato e la Tecnica hanno polverizzato la possibilità stessa di un potere politico; ma come l’esagerazione di quella situazione ibrida del presente che alcuni chiamano governamentalità neoliberale. Il bastone, cioè il monopolio della violenza dello Stato, è sempre presente, ma viene usato con moderazione; la carota, cioè il desiderio diffuso e alimentato di una vita migliore, è il vero strumento fondante della società.

In 3%, l’attacco all’ideologia capitalista è tanto più radicale perché attualizza i suoi presupposti immaginari che oggi fungono come alibi; la tanto agognata meritocrazia perfetta può esistere davvero: non ci sono avvantaggiati o corrotti, eppure siamo ancora in un incubo.

A tal proposito, è interessante l’introduzione di un aspetto della società di Maralto che scopriamo verso la fine, sebbene sia intuibile in più punti durante gli episodi: i cittadini dell’isola dei sogni sono resi sterili attraverso un vaccino. È la ripresa di un’idea antichissima, presente nella prima utopia/distopia politica della storia, la Repubblica di Platone: il filosofo greco strappava i figli alle famiglie per educarli in comune e assegnare a ciascuno il giusto posto nella società, senza favoritismi. La famiglia, coi suoi legami affettivi indissolubili, è il primo anti-Stato con cui deve fare i conti ogni ingegnere sociale, quel nucleo di priorità microsociali che la dialettica hegeliana deve negare dentro la società civile. Platone e 3% ci danno un taglio netto: eliminano la radice stessa del nepotismo, del familismo amorale e dei privilegiati in genere.

Nella seconda stagione di 3%, probabilmente vedremo il funzionamento concreto del mondo perfetto aldilà del mare e le armi, teoriche e pratiche, che i suoi nemici useranno per distruggerla. C’è il rischio che questa coincidenza di antinatalismo e dittatura si rovesci in una resistenza che abbraccia valori vitalistici un po’ ingenui, alla Grande Madre che coi figli nati biologicamente affronta il dominio della tecnica. Ma c’è anche la possibilità che la descrizione della società “perfetta” le faccia perdere le virgolette e intorbidisca la moralità bianco/nero implicita nelle premesse della serie, come alcuni momenti degli episodi finali lasciano intuire. Staremo a vedere.

Alessandro Lolli
Alessandro Lolli nasce a Roma nel 1989. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Polinice, Soft Revolution Zine, Crampi Sportivi e DUDE MAG. È laureato in filosofia. A tempo perso lavora in un centro scommesse sportive.

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