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James Gunn, Peyton Reed, i fratelli Russo. Perché Marvel sta pescando i suoi registi dal cinema indipendente?

Me l’avessero detto otto anni fa, avrei sorriso.

Ti ricordi quel regista neozelandese che ha diretto, per il costo di una Hyundai usata, un dramma intimista sul bambino maori che ama Michael Jackson? Oh, intendi quello che ha diretto una rom-com con Jemaine dei Flight of the Conchords e i torsoli di mela in stop motion? Esatto. Lui! Gli hanno appena offerto un blockbuster da 170 milioni di dollari.

“Grazie della battuta, 2008,” avrei commentato. “L’umorismo surreale, però, sta per passare di moda.”

A quasi un decennio di distanza, non è difficile immaginare quanto il panorama si sia fatto sempre più sofisticato e complesso. Oggi, per esempio, il bacino di registi più ambito dalle imprese multimiliardarie di Hollywood è davvero quello del cinema indie: gente tra i trentacinque e i quarantacinque anni, che ha alle spalle un paio di lungometraggi da poche migliaia di dollari, e che sul passaporto ha un nome non ancora legato a doppio filo al concetto di “rispettato autore internazionale di cinema”.

È una tendenza sorprendentemente comune alla maggior parte dei blockbuster odierni, specie se ci rivolgiamo all’esempio più seriale di cinema ad alto budget di cui disponiamo, ovvero i “film di supereroi”: la Disney-Marvel, con il suo piano quinquennale e i suoi continui annunci dell’inclusione di “nuove voci del cinema”, è emblematica di questo orientamento.

Sembrerebbe un’anomalia. Soprattutto adesso che ha fatturato quasi dieci miliardi di dollari, Marvel potrebbe permettersi registi affermati. Eppure il suo calendario, fino al 2019, brulica di nomi giovani, semiconosciuti. Perché? Capiamo chi sono le nuove voci dietro ai film in uscita dell’Universo Cinematografico Marvel.

Chi?
James Gunn oggi è noto come “James Gunn!”, mentre fino a poco tempo fa era “James Gunn?”. Prima del 2014, non si sarebbe aspettato di realizzare il terzo campione di incassi del mercato cinematografico globale. Oggi, grazie a I guardiani della galassia, è la stella di punta della terza ondata Marvel, nonché l’unico regista che sia anche sceneggiatore dei film che realizza per la compagnia. Gunn è un quarantacinquenne del Missouri che si è formato alla scuola della Troma, la casa di produzione ultraindipendente che ha plasmato carriere e gusti di attori e cineasti (J.J. Abrams! Samuel L. Jackson! I creatori di South Park!) con i suoi capolavori splatter di serie Z. Gunn ha sempre avuto un interesse particolare per il genere fantascientifico e per gli affari interni dei supereroi. Mentre gravitava ancora in casa Troma, aveva diretto The Specials, un film comico a basso costo sul giorno libero di un gruppo di supereroi. Il suo ultimo film da regista prima di passare a Marvel è del 2010 e si intitola Super: una commedia nera umana, troppo umana, su un tale che si infila un costumino e si convince di poter combattere l’ingiustizia a colpi di chiave inglese. Era costato due milioni e mezzo. Il primo capitolo di Guardians of the Galaxy è costato letteralmente ottanta volte il budget di Super.

Supereroi – almeno secondo il Sundance.

Peyton Reed è capitato in casa Marvel quasi per caso, nel 2014. Edgar Wright aveva appena abbandonato Ant-Man – un progetto a cui lavorava dal 2003 – motivando il suo abbandono con un diplomatico “vedute discordanti” con il committente. Il rimpiazzo di cui Marvel aveva bisogno doveva essere versato nel cinema comico, abile nel comprendere la sceneggiatura e lo stile brillante di Wright. Entra in scena Peyton Reed, che non viene prettamente dal cinema indie: le sue commedie precedenti fanno parte di uno dei soli generi che, a oggi, può ancora permettersi budget “di mezzo”, ovvero non bassissimi (il cinema indie) e non altissimi (i tentpole di Hollywood), senza comportare un investimento troppo rischioso: sui 50 milioni di dollari, diciamo. Il suo universo registico era composto di commedie musicali, Jennifer Aniston che si lasciano col fidanzato, Jim Carrey che si innamorano. Da quelli al franchise di Ant-Man, il passo è più breve di quanto sembri.

In Pulp Fiction, c’è una scena in cui Mia Wallace descrive una serie tv per cui ha recitato, intitolata “Volpi Forza 5”, nella quale ognuna delle agenti protagoniste ha un’abilità speciale: la giapponese è esperta di kung fu, Mia Wallace è un asso dei coltelli, la francese è una seduttrice, e via discorrendo. Ecco, Scott Derrickson è la tipa coi coltelli della Fase Tre dell’Universo Cinematografico Marvel: Doctor Strange, il film che ha appena finito di girare, era stato annunciato dalla compagnia come “il portale verso l’altro lato dell’universo Marvel, quello soprannaturale.” Per attuarlo, c’era bisogno di uno specialista. Insieme a Peyton Reed, Scott Derrickson è il regista più di successo del gruppo. Come Reed, fa parte delle maestranze di genere, quelle figure note più per il tipo di film che per la loro impronta autoriale. La storia ci insegna che, in campo horror, una realizzazione semplice, quasi casalinga, può portare risultati estremamente efficaci. Con i film da lui scritti e diretti (Liberaci dal male, L’esorcismo di Emily Rose, Sinister), Derrickson, specializzato in film dell’orrore a basso o medio budget, ha dimostrato di riuscire a incassare, tre, sette, venticinque volte il costo di un suo film.

Il primo lungo di Jon Watts, un laureato della NYU, è nato come uno scherzo: un finto trailer messo su YouTube con la scritta “diretto da Eli Roth”. Il giorno dopo, Eli Roth gli telefonava e gli proponeva un accordo per dirigere Clown. Oggi, fresco di due thriller/horror obliqui e a bassissimo costo, Watts si accinge a dirigere il nuovo reboot di Spider-Man, il terzo in quindici anni, e il primo che segna il ritorno del personaggio (parzialmente) in casa Marvel.

Ryan Coogler è il regista più giovane del gruppo Marvel. Riverito da Cannes e dal Sundance, il suo lungometraggio d’esordio è Fruitvale Station, un resoconto – basato su eventi reali – dell’ultimo giorno di vita di Oscar Grant, assassinato dalla polizia di Oakland nella stazione che dà titolo al film. Il suo secondo, e più recente (Creed), è il settimo episodio della serie di Rocky.

Per Black Panther di Marvel, Coogler è stata la seconda scelta. La prima era Ava DuVernay, la regista di Selma che, come prima di lei Edgar Wright, ha parlato di “divergenze creative” e ha abbandonato il progetto.

Adesso che ha fatturato quasi dieci miliardi di dollari, Marvel potrebbe permettersi registi affermati. Eppure il suo calendario, fino al 2019, brulica di nomi giovani, semiconosciuti. Perché?

(Ava DuVernay, nella nostra storia di giovani registi squattrinati e teletrasportati in un mondo di major, ci interessa per una ragione curiosa: nel 2012, DuVernay vinceva al Sundance come migliore regista: era la prima donna di colore a ricevere il premio. Lo stesso anno, a quello stesso festival, Colin Trevorrow presentava un film realizzato con due soldi e un fratello Duplass, Safety Not Guaranteed. A quell’edizione del Sundance, nonostante la vittoria, DuVernay non ricevette future offerte di lavoro. Trevorrow, al contrario, venne assunto dalla Disney, se ne cominciò a parlare come del futuro regista dell’Episodio VII di Guerre Stellari, e alla fine gli fu offerto di girare Jurassic World.)

Taika Waititi, o Taika Cohen, è il neozelandese del primo paragrafo, quello di cui mi sarei stupita nel 2008. Il suo penultimo film, che è stato distribuito con successo negli Stati Uniti, è un finto documentario su quattro amici vampiri e i problemi di coinquilinaggio tra non-morti. Il suo incarico per il terzo Thor non è del tutto casuale, e non gli deriva dall’aver diretto qualche episodio di Flight of the Conchords. Data la sua nazionalità, e dato il suo successo in patria, Waititi era stato chiamato a collaborare alla stesura del prossimo film di Natale della Disney (ambientato in Oceania) dando inizio, così, a un rapporto con la multinazionale.

Detto questo, c’è chi è stato ingaggiato proprio per aver diretto qualche episodio di una serie tv.

E arriviamo ai fiori all’occhiello, a coloro che porteranno al completamento la Infinity War di Marvel nel 2019 e, più nello specifico, ai due fratelli che hanno un film in uscita domani: Anthony e Joe Russo.

Kevin Feige, presidente dei Marvel Studios, sostiene che le migliori collaborazioni vengono dall’essere fan di qualcosa. “Inizi a pensare ‘Che bell’episodio. Chi è che ha girato quella puntata di Arrested Development? Oh, questi tali, Joe e Anthony Russo. Interessante.’ E dopo anni, sei seduto a guardare un’altra serie, s’intitola Community, e pensi ‘Questa sit-com è molto meglio di tutte le altre. Chi ha diretto questo episodio? Joe e Anthony Russo. Chi sono questi tipi?’”

Grazie al loro lavoro televisivo, quei due diavoli, Joe e Anthony, si erano guadagnati un incontro con Feige, il Thanos della Marvel. Per quanto riguarda il cinema, i due venivano da poche esperienze a medio budget: una commedia à la Peyton Reed (Tu, io e Dupree) e un inspiegabile remake de I Soliti Ignoti. Appassionati di film d’azione, si sono ritrovati nel genere comico quasi involontariamente. I loro film hanno uno stile più televisivo e istituzionale (campi lunghi su divani, piani americani, mostrare tutto a tutti i costi) di quanto non lo siano i loro show. Per la Marvel, hanno un contratto da quattro film, due dei quali (Il soldato d’inverno e Civil War) sono già stati realizzati.

Il quadro della situazione è piuttosto variegato, ma tutti i registi citati hanno una particolarità in comune, a parte essere quasi esclusivamente maschi bianchi: vengono tutti da un mercato di film di genere, a medio o bassissimo costo. Fino a pochissimo tempo fa, avevano alle spalle due, tre lungometraggi da registi.

È facile immaginare un'allegoria con la multinazionale corrotta che strappa l'autore vergine dal suo pascolo creativo e lo contamina con una vagonata di soldi, ma ragioniamoci: chi non vorrebbe dirigere un film di supereroi, se glielo chiedessero?

La loro scalata a budget stratosferici è stata tutt’altro che graduale. Alle spalle c’è una decisione attiva di Marvel di rivolgersi a professionisti con questo tipo di esperienza.

Non è un’esclusiva Marvel: come si diceva, i prodotti multimilionari degli studios odierni vengono spesso affidati a giovani esordienti. Dove, però, Neill Blomkamp e Gareth Edwards (che hanno in mano, rispettivamente, il nuovo Alien e Rogue One/Godzilla) vengono da un passato negli effetti speciali e nel cinema d’azione, i registi Marvel si sono in gran parte formati su generi estranei a quelli che si accingono a dirigere. In breve, sembra che più Marvel si addentra nelle sue tre fasi, più sceglie nomi “piccoli”.

È facile immaginare un’allegoria con la multinazionale corrotta che strappa l’autore vergine dal suo pascolo creativo e lo contamina con una vagonata di soldi, ma non abbiamo più quattordici anni, quindi ragioniamoci: chi non vorrebbe dirigere un film di supereroi, se glielo chiedessero? Molti dei registi sopracitati sono cresciuti respirando fumetti e supereroi; la possibilità di aggiungere del proprio – reverenzialmente – a un mondo nel quale ci si è formati è una possibilità che nessun cineasta vorrebbe lasciarsi sfuggire. Jon Watts ha un tatuaggio dell’Uomo Ragno sul torace; James Gunn, in uno dei suoi lunghi post su Facebook, ha dichiarato: “Ovunque ci sono persone che fanno film per quattro soldi, unicamente per la propria vanità. E poi c’è chi fa film perché ama raccontare storie, perché ama il cinema, e si sente in dovere di aggiungere a quel mondo la stessa magia che i lavori di altre persone gli hanno trasmesso. In tutta onestà, credo che la percentuale di persone senza integrità sia la stessa a qualsiasi livello di cinema.” (A proposito: sono d’accordo; quando, però, Gunn ha dovuto introdurre Thanos a forza ne i Guardiani della Galassia, si è trovato anche lui in difficoltà).

Cosa può comportare a livello estetico? Affidare un film di supereroi a qualcuno che non è un mestierante d’azione può essere un errore? Certo che no. Non dimentichiamoci che George Miller ha affidato a sua moglie, montatrice di Happy Feet, l’assemblaggio del suo ultimo film proprio perché non aveva mai lavorato a un film d’azione. Ne è uscito Mad Max: Fury Road. Che serva da esempio definitivo per qualsiasi cosa, anche le diatribe di coppia.

Perché?
Taciuti i dubbi sulla genuinità degli autori, permane il dubbio sugli interessi di Marvel. Ovvio, Kevin Feige è un superfan di certi show e di un certo modo di fare cinema, ma un uomo che vale 50 milioni di dollari non si limita a essere un superfan.

Come il deus ex machina alla fine di Age of Ultron, mentre ero alla ricerca di risposte imbastendo questo articolo, il 18 aprile Vulture ha fatto piovere la manna di un profilo sui fratelli Russo, un profilo che include le dichiarazioni dello stesso Feige sulla sua passione per i registi indie. Niente che non avesse detto in precedenza (“Abbiamo raggiunto risultati eccezionali ingaggiando persone che hanno fatto cose brillanti e straordinarie tramite altri media,” sosteneva nel 2014. “Non dev’essere per forza un blockbuster. Se hanno voglia di lavorare con noi e collaborare con noi, spesso le cose funzionano.”) ma, all’interno del pezzo, il presidente Marvel definisce i due fratelli “visionari e pragmatisti”.

Per via del loro passato nella tv, i due registi sono abituati a lavorare con poco, in tempi serratissimi, improvvisando decisioni cruciali sul momento. Per via della loro recentissima notorietà, la capacità di negoziazione di cui dispongono è limitata. Parafrasando, si potrebbe dire che fanno risparmiare gli studios.

Vista dal punto di vista di Marvel, questa tattica non ha soltanto motivazioni finanziarie, ma anche estetiche.

Cominciamo dalle prime. Qualsiasi budget cinematografico è diviso in due voci principali: above the line e below the line. Above the line è il “talento”: ciò che spetta a registi, sceneggiatori, attori; sotto la linea c’è il resto della troupe, quella che è considerata la “manovalanza” (lo so, lo so, è classista e stupido): attrezzisti, effetti speciali, catering, gente pagata per giorno, il cui stipendio totale varia se viene aggiunta o tolta una scena dal film, e quindi se viene aggiunto o tolto un giorno di lavoro (Scarlett Johansson prenderà lo stesso cachet indipendentemente da questi fattori).

La tv è un mezzo che, attualmente, rimane autoriale in virtù del suo ideatore e si guadagna un pubblico in virtù dei suoi protagonisti, non necessariamente dei suoi registi. Lo stesso accade con Marvel.

Per loro natura, i film Marvel sono costretti a investire un enorme patrimonio nella post-produzione: gli specialisti di effetti speciali lavorano per mesi, senza posa, a perfezionare i risultati visivi di ogni film.

Sopra la linea, la corda è altrettanto tesa: con un Robert Downey Jr. che ha potuto contrattare 40 milioni (più una percentuale sugli introiti) soltanto per Civil War, è chiaro che gli equilibri pendono tutti a favore del cast, ed eccole fare capolino, le voci sacrificabili del budget: i registi.

Questo perché i registi sono rimpiazzabili, gli attori no.

È un altro indice di ciò di cui parlava Cesare Alemanni mesi fa su queste pagine, ovvero lo slittamento del cinema verso la televisione. La tv è un mezzo che, attualmente, rimane autoriale in virtù del suo ideatore e si guadagna un pubblico in virtù dei suoi protagonisti, non necessariamente dei suoi registi. Lo stesso accade con Marvel.

L’articolo di Vulture chiarisce una verità ancora più fondamentale. Non essendo, i registi della Fase Tre, autori noti al grande pubblico, l’identificabilità con Marvel è ancora più completa. Non si va a vedere il nuovo Thor perché è il nuovo “film di Scorsese”, lo si va a vedere perché è il nuovo Thor. C’è troppo poco, nel nuovo Thor, che sia “distintamente identificabile con il suo creatore”, e questo è un bene per la compagnia.

Le nuove voci sono benvenute, a patto di non distogliere lo spettatore dall’idea che si stia guardando un film Marvel. La vicenda di Edgar Wright ce lo esemplifica chiaramente, e qui possiamo di nuovo rimbalzare sull’articolo di Prismo: “L’eccessiva personalizzazione che Wright voleva conferire al film era diventata un rischio per la coerenza estetica del suddetto Universo [Marvel] e quindi un problema”.

La speculazione che si può fare è che un tale modus operandi rischi di bloccare, alla nascita, voci individuali del nuovo cinema. Tuttavia, la verità è che il rapporto tra supereroi e indie non è, storicamente, una novità.

Quando?
I film di supereroi sono nati come prodotti di nicchia, indipendenti: film tv, esperimenti di pubblico, straight-to-video. Che il successo del genere sia relativamente recente è risaputo. Nei loro primi test, gli studios erano riluttanti a investire in questo tipo di film almeno quanto il pubblico era riluttante ad accettarli. Il Batman con Adam West, un film relativamente costoso per l’epoca (era il 1966), recuperò giusto il suo budget e qualcosa in più.

Nel tempo, il modello è variato e si è arricchito di esempi. Gli anni Ottanta si sono rivelati essere una terra fertile di stranezze improbabili, un Far West di sperimentatori folli: da una parte c’era l’enorme flop di George Lucas (Howard e il destino del mondo), da un’altra c’era Lloyd Kaufman, l’eterno ispiratore di James Gunn e fondatore della Troma, con la sua scanzonata presa in giro del genere (The Toxic Avenger), da un’altra ancora c’era Richard Lester, regista culto dei “film dei Beatles”, che girava tutti i Superman. Marvel e DC cercavano di conquistarsi una fetta di mercato, e molto spesso non ce la facevano. Si può dire che a istituzionalizzare l’autorialità dei film di supereroi sia stato per primo Tim Burton. Ma è un ragionamento a posteriori: Tim Burton, al tempo, era un semi-esordiente con due lungometraggi di successo nonostante il loro budget ridotto. È stato Batman a trasformare “Tim Burton?” in “Tim Burton!” e a espandere le risorse finanziare destinate ai film di genere sui supereroi, trasformando l’interesse del grande pubblico. Così, gli studios cominciavano a chiamare registi “con un profilo” per prendere in mano progetti che adesso avevano un profilo. E così, via di Joel Schumacher, e una serie di nomi di relativo successo in vari generi.

I film di supereroi sono nati come prodotti di nicchia, indipendenti: film tv, esperimenti di pubblico, straight-to-video. Che il successo del genere sia relativamente recente è risaputo.

Ma, per ogni Bryan Singer di X-Men, Sam Raimi di Spider-Man e Ang Lee di Hulk (never forget), nasceva un Christopher Nolan: lui stesso, prima di unirsi a Christian Bale in quella partnership di voci roche che è la trilogia del Cavaliere Oscuro, veniva dalla landa semisconosciuta dei film a bassissimo (Following), basso (Memento) e medio (Insomnia) budget.

Con lui, nasceva anche una squadra di cineasti pronti a rigirare il tema supereroico in senso ironico, intimo, indie – il James Gunn di Super, il Peter Stebbings di Defendor – entrambe commedie a tema supereroi che parlano della finitezza umana, più che dell’illimitatezza superumana.

Nella scelta dei suoi autori, Marvel non si è mai contraddetta, già a partire dalla Fase Uno. Ha cominciato circondandosi di piccole figure di culto ancora fresche di esordio registico (Jon Favreau, Joss Whedon), tanto che, all’interno del gruppo, il regista più “famoso” come tale era Kenneth Branagh. Considerando che quest’ultimo è un nordirlandese togato che ha sempre diretto Shakespeare, si può capire che la fama di per sé non era uno dei criteri di ricerca della compagnia.

In sostanza, il modello non è cambiato: è sempre stato instabile. Marvel non si è svegliata una mattina e ha deciso di dare lavoro a degli sconosciuti. All’interno dei superhero movies, non è mai esistita la figura di un regista prettamente di genere. Ciò che è cambiato è il numero di film che vengono realizzati, e il loro successo di pubblico. Con i tentpole che stanno risucchiando la terra di mezzo degli “autori”, polarizzando il mercato in due direzioni opposte (zero budget o 200+ milioni), il bacino cui attingere rimane quasi unicamente quello delle giovani promesse. Se, come dice Kevin Feige, sono in grado di “collaborare”, ancora meglio.

Laura Spini
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.

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