Maurizio Bianchi, Mauthausen Orchestra, Teho Teardo & co: un libro racconta le sotterranee vicende di una delle stagioni musicali più oscure (e influenti) del nostro paese.
È da poco uscito Post-industriale – La scena italiana degli anni ’80, libro di Marcello Ambrosini che racconta storie e protagonisti di una delle avventure musicali che più hanno segnato l’immaginario underground degli ultimi trent’anni: quella scena che per comodità chiameremmo industrial, e che per qualche tempo vide l’Italia protagonista assoluta di quel network transnazionale nato in scia alle imprese dei vari Throbbing Gristle, Current 93, Coil ecc. Tuttora nomi come Maurizio Bianchi/M.B., Mauthausen Orchestra, T.A.C., Ain Soph, Teho Teardo/M.T.T., godono di un prestigio (anche all’estero) raro per dei musicisti italiani, senza dire di quei percorsi – dal cyberpunk al noise, dal recupero “acido” del pensiero radicale ai ragionamenti su tecnologia, neopaganesimo e chi più ne ha più ne metta – che proprio in seno alla sottocultura industriale sono nati. Del libro di Ambrosini pubblichiamo un estratto dall’introduzione, firmata da un nome storico del giornalismo musicale italiano che qui ha deciso di rimanere anonimo e di nascondersi dietro al vecchio multiple name Luther Blissett (altro esito, da tanti punti di vista, dello stesso network di cui sopra). Ringraziamo autore ed editore per la disponibilità.
Immaginate un (o una) giovane, teenager o poco più, nella sua cameretta sul finire degli anni settanta, solo, stufo, annoiato e in guerra con “un mondo non suo sapendo che il proprio non esiste” (come scriveva Lyke Wake con scorato spleen esistenzialista sul retro delle sue audiocassette). Per contrastare il senso di vuoto, alza il volume in cuffia e ad occhi chiusi batte ritmicamente la testa contro un muro invisibile, ad libitum (no air guitar). I sogni della generazione “Peace & Love” sono andati a puttane, i vecchi hippie sono diventati capitani d’industria e con le utopie han fatto zeppe per le gambe delle loro scrivanie da manager. Il punk si è rivelato l’ennesima truffa del r’n’r, subito venduto all’industria per un piatto di lenticchie e un paio di Dr. Martens, Nessun Futuro, neppur per se medesimo. E se chitarre e canzoni di tre soli accordi già puzzavano di prassi stantia e monitorata dal music biz, cosa poteva fare un povero ragazzo di provincia se non studiare i testi proibiti (nazismo, Crowley, De Sade, patologia medica, serial killer, Burroughs, Dick, Mishima) e progettare bombe per assalti di verace audio-terrorismo?
Abbattere il Muro del Suono mainstream per mezzo del Rumore, farli urlare tutti con le mani pressate sulle orecchie (come facevano le ragazzine ai concerti dei Beatles) ma stavolta per un motivo concreto. “Intrattenimento tramite il dolore”. Hackerare il Sistema Rock servendosi di ordigni fai-da-te rappezzati mediante un bricolage di apparecchiature casalinghe, dall’affettatrice alla lavabiancheria. Milano Brucia, ma anche Rezzato, Asparetto e Bertiolo. Uno-Cento-Mille Unabomber a cassetta: “Mi è sembrato di sentire un rumore, rumore… / sarà la paura…”. […]
Operando una blasfema congiunzione astrale di provocazione neo-futur-dada-situazionista, musica contemporanea elettronica tostissima ed eterno spirito ribellista rock (poco importa se di Russolo, Stockhausen e Debord si conoscono poco più che il nome, l’albero genealogico che li connette a noi è chiaro e introiettato!), questo modo altro di “sentire” il suono contemporaneo, elevando il rumore ad arma e feticcio come neppure John Cage o Jacques Attali (vedi i loro classici e speculari saggi Silenzio e Rumori), ha trovato al momento giusto un nume tutelare e un nome di comodo tramite l’opera esemplare dei britannici Throbbing Gristle e della loro etichetta Industrial Records […]. e tutto ciò che è venuto dopo nel segno del “Post-Industrial”, teoricamente legittimato dal seminale manuale ad orologeria Industrial Culture Handbook (1983) innescato a San Francisco da Jon Savage assieme a Vale delle edizioni Re/Search, è in realtà un frastagliatissimo universo che ha saputo poi imboccare strade radicali anche diverse e antitetiche, evolvendosi e rinnovandosi fino ai giorni nostri nelle sue numerose sotto-correnti, con ibridazioni dal (power) noise all’ambient, dal punk alla dark wave gotica, dalla ebm alla trance, dalla techno all’electro-rock, dal metal all’hip-hop, dal folk al neo-classico, eccetera eccetera. […]
La “rete” globale della musica industriale (avrebbe potuto chiamarsi in un qualsiasi altro modo, e si sarebbe certo sviluppata anche se non ci fossero stati i Throbbing Gristle a fare da elemento catalizzatore) si è sviluppata in un’epoca non ancora massicciamente informatizzata. Il Commodore 64, primo paleolitico computer casalingo su cui molti si sono fatti le ossa, è stato commercializzato solo nel 1982, lo stesso anno in cui hanno fatto la loro comparsa i primi compact disc. Per internet e il World Wide Web si è dovuto attendere ancora una decina di anni, qualcuno in meno per le BBS usate in modo rudimentale dalle prime frange della subcultura “cyberpunk”.
Visto il totale disinteresse per suoni tanto alieni dei comuni mass media, non restava dunque all’epoca che un solo modo per cementare i contatti, a complemento di sporadici concerti in garage, gallerie d’arte (come l’ICA di Londra, dove esordirono i TG e gli Einstürzende Neubauten perforarono il palco a colpi di martello pneumatico) o nei luoghi più atipici e impensati: far viaggiare per posta i propri materiali.
Che il panorama postindustriale internazionale (con picchi di attività in UK, USA, Giappone e per l’appunto anche in Italia) costituisse una vera e propria “rete sociale” pre-internet, e non una semplice massa di monadi indipendenti o in competizione tra loro, lo attesta la grande quantità di (audio)riviste e compilation (su cassetta o vinile) che caratterizzano il periodo, realizzate grazie ad un fitto intreccio di contatti e corrispondenze personali. Il tipico processo che portava un cultore di questo tipo di anti-musiche a dar vita ad una nuova tape label e/o fanzine e/o progetto sonoro prendeva le mosse appunto da una metodica attività di acquisto e scambio postale di materiali autoprodotti, pacchettini e buste contenenti soprattutto audiocassette (il supporto preferito, per economicità e versatilità, da cui anche l’appellativo di tape network affibbiato a quest’area espressiva) inviati in ogni angolo del pianeta, intere collezioni formate tramite baratti di suoni d.o.c. a chilometro zero.
Anche i più noti “industrialisti”, dai Throbbing Gristle a Merzbow, hanno iniziato in questo modo, duplicando in casa cassette in edizioni di poche decine di copie. Da un vasto campionario di ascolti, poi ciascuno selezionava i progetti più in sintonia coi propri gusti e di solito avviava l’attività di una nuova etichetta compilando un’antologia su nastro. Raramente un artista declinava la richiesta di un brano per compilation, trattandosi di un’occasione in più per far circolare il proprio nome, ma soprattutto di una maniera per sentirsi solidali ad una causa comune. Per un certo periodo […] si è davvero percepito lo spirito di una Nazione Industriale senza bandiere, leggi o confini, ma col tacito comune obiettivo di svelare il “tessuto di bugie” (per citare i Nocturnal Emissions) di cui si compone lo status quo, nell’industria musicale come nel sistema capitalista avanzato. […]
L’aspetto più appassionante del fenomeno per molti praticanti e fan dell’industrial è stato proprio quello della quotidiana “tessitura” di una rete internazionale di contatti, ampliando progressivamente il raggio d’azione tramite scambi e acquisti. È fondamentale poi comprendere il ruolo e l’importanza degli archivi personali di questi appassionati, ciascuno una diversa combinazione di rare produzioni in edizione limitata, molte in confezioni spettacolarmente elaborate (tra libretti nei più diversi formati e astucci in materiali anomali come legno, vetro, metallo), deposito anche di nastri in copia unica o di lettere manoscritte in grado di gettare luce su motivazioni e eventi di cui si sono smarrite le tracce.
Curiosamente difatti, il postindustrial (e la cassette culture più in generale) è una scena in cui l’estrema artigianalità del prodotto fatto-in-casa – come le copertine con singoli collage originali e titoli scritti a mano – e anche l’amatorialità e la mancanza di tecnica musicale paiono essere non dei disvalori bensì dei pregi. Si tratta del culto condiviso col punk per il non musicista (creativo) visto anche come estremo sberleffo alla patinata e vuota “professionalità” del mainstream, alla prevedibilità omologata dell’industria del rock (ma, attenti, quella del “genio dilettante” è soltanto una faccia di un poliedro dai molti lati, ci sono perfino artisti industrial diplomati al Conservatorio!).
Tra i nuovi valori introdotti dal network non solo postindustriale ci sono tuttavia, per dirla col tape-artist Hal McGee, quelli della triade di principi operativi “Contatto – Comunicazione – Collaborazione”, che ci permettono di leggere il nuovo attivismo di rete anche in chiave di prolungamento e aggiornamento delle istanze controculturali delle generazioni Beat-Hippie, andando magari a riconsiderare anche l’occultato “lato oscuro” dei cinquanta-sessanta in reazione a un ventennio di “buonismo” di facciata (vedi la Family di Charles Manson, spesso citata e rivisitata al pari di altre inquietanti sette para-religiose, da Scientology a The Process).
Le “tattiche dello shock” che caratterizzavano gli albori Industrial, dando vita ad ambiguità politiche a non finire (critica e indagine “per non ripetere gli errori del passato”, o fascinazione ed exploitation di temi morbosi e perversi?), i suoni urticanti e le parossistiche urla in feedback del power electronics, sono una delle tante sembianze di una scena multimediale che si è poi avvalsa di strategie articolate e sofisticate, non solo rumore-e-grida ma anche impeccabile collagismo ed eretica improvvisazione post-lisergica (coi Nurse With Wound come capiscuola), rigorose disamine del linguaggio delle macchine (trovando nuovi e obliqui utilizzi per synth, drum machines, computer e strumenti autocostruiti), un ritorno alle origini rituali e magico-religiose del ritmo, ricerche sulla “musica metabolica” e i poteri segreti del suono, esercizi nel riciclo di suoni catturati nell’ambiente naturale e urbano (seguendo i consigli del manuale burroughsiano The Electronic Revolution più che i maestri della musique concrète), rarefazioni concettuali che si abbeverano alle sorgenti dell’audio art e della performance art, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Quale dunque il lascito artistico e l’effetto a lungo termine (a parte qualche orecchio sacrificato al Dio Acufene) dell’animato e bellicoso industrial “old school” tricolore? Molto rumore per nulla, o sono esistiti (ed esistono) anche in Italia personaggi originali e di spessore, con una loro storia articolata da divulgare? Propenderemmo per la seconda ipotesi, perché come avrete modo di scoprire anche solo scorrendo l’indice di questa guida, non sono pochi gli autori che hanno beneficiato di carriere longeve e dagli sviluppi anche sorprendenti.
Basti pensare al solido culto sotterraneo, certificato da millanta bootleg, uscite ufficiali e ristampe, che ha accompagnato fin dall’inizio l’attività di Maurizio Bianchi/M.B., autore eccessivo in molti sensi – l’iperbolico stile del suo passato da giornalista, l’estrema reclusività, l’iper-produttività, le svolte mistiche – il cui suono rigoroso e inflessibile ci mette di fronte, come un’opera di Piero Manzoni o Lucio Fontana, a interrogativi primari sull’essenza e funzione dell’espressione artistica.
Si pensi altrimenti alla fortuna in ambito di colonne sonore di Mauro Teho Teardo e Ivan Iusco, alle blasonate collaborazioni (a partire da Bill Laswell e Mick Harris) di Eraldo Bernocchi dei Sigillum S, agli exploit di Mauro Guazzotti dei F:A.R. nelle vesti del folle dj-vocalist MGZ, alla crescente maturazione tecnica e compositiva di autori “colti” per background e tattiche come Giancarlo Toniutti e Simon Balestrazzi (T.A.C.). O ancora, alla solida parabola di gruppi come Tasaday e Officine Schwartz (con atipiche prerogative anche nella dimensione concertistica), alle intriganti tradizioni esoteriche dietro al lavoro di formazioni tanto diverse quanto Rosemary’s Baby e Ain Soph, alle oscure profondità cosmico-ambientali sondate da Lyke Wake e Order 1968/Runes Order, al connubio di romanticismo e sperimentazione in artisti come Gerstein e Daniele Ciullini, alle storie poco raccontate di altre personalità veraci come Pierpaolo Zoppo (prematuramente scomparso), Pietro Mazzocchin, Andrea Cernotto, Enrico Piva/Amok (anche interessante scrittore “concettuale” e artista visivo) e Marco Corbelli/Atrax Morgue (capofila della generazione italoindustrial dei novanta), entrambi morti suicidi per malesseri e problematiche esistenziali evidentemente per nulla artefatte, più ancora tanti altri. […]
Scomparsi nell’anonimato o riaffiorati sulle scene dopo lunghi periodi di inattività, molti degli stessi autori di (auto)produzioni ultra-sotterranee hanno difficoltà a ricostruire oggi le proprie intricate “nastrografie” (sulle cassette, tra l’altro, raramente veniva indicato l’anno di stampa). Dove non giunge la testimonianza diretta, per cercare ulteriori indizi non resta quindi che affidarsi ad articoli e recensioni apparse sulle fanzine dell’epoca (se le sature fotocopie in bianco e nero non si sono inesorabilmente appiccicate tra loro!), partendo da quelle più di nicchia come le internazionali Cassette Gazette, Flowmotion, Force Mental, Stick It In Your Ear, Unsound, o in Italia Amen, Discipline, Dopo, Free, Healter Skelter, Idola Tribus, Maelzel, Nemesis, Rattlesnake Arena, Skeletal Work, Snowdonia, Technodude, The Scream, Trance, Tribal Cabaret, Yeah, per citarne solo alcune vicine al credo rumorista, o potrà essere ugualmente utile immergersi nei babelici cataloghi di distributori postali, come quelli esteri di Front De L’Est, RRR, Artware, V2, S.T.I., e da noi ADN, Demos, O.E.C., fonti “secondarie” ma forse più attendibili delle lacunose notizie che affiorano sul web in Discogs e altri portali.
In particolare, le già menzionate e onnipresenti compilation sono un altro formidabile barometro per tastare il polso all’evoluzione di una scena che sfuggiva spesso anche ai radar della stampa specializzata. Vanno citate almeno alcune di queste antologie, che hanno ricoperto in Italia il ruolo seminale svolto ad esempio nel Regno Unito dalla fortunata serie Rising From The Red Sand: c’è la pionieristica prima uscita Italiano Industriale dell’audio-rivista Area Condizionata (con dieci tracce di altrettanti “rumoristi” nostrani, da M.B. a Metadrive), ci sono i tre volumi di Pianeti di Lana (1984-86, con vero gomitolino di lana nel primo) della Technological Feeling di Savona, le cassette Italia 1 e 2 (1986) nella serie Out Of Standard della milanese ADN, Nemesis 1 e 2 (1986-87) approntate dall’omonima fanzine di Pomigliano (Na), la doppia cassetta Buio Ignoto (1988) della friulana Discipline produzioni, Il Pranzo di Trimalchione (Acteon, 1988) addirittura una C60 con una ventina di progetti italiani compilata in Francia da Philippe Blanchard (alias Lieutenant Caramel), o anche più sporadiche produzioni in vinile come Ekhnatòn (Multiple Configuration. 1984) e Carne del Disastro (Minus Habens, 1989), fino alla programmatica Exposing Italian Underground (1993) della bolognese Healter Skelter Org., che all’inizio di un nuovo decennio faceva il punto sullo stato di salute del nostro postindustriale.
Un panorama occultato e irto di insidie attende insomma il potenziale ricercatore, consigliamo quindi di considerare questo elaborato come un test, un primo mattone, un sasso gettato nello stagno per generare onde concentriche sempre più ampie, affinché altri siano spronati a continuare il lavoro, colmare lacune e correggere imprecisioni, o perché magari qualcuno sia invogliato a cimentarsi in un documentario in video come il fenomeno postindustriale meriterebbe, per non dire di un auspicabile progetto editoriale complementare, anch’esso più che doveroso, da incentrare sulle peculiari e cospicue espressioni grafico-artistiche del tempo (copertine di dischi, fanzine, poster e locandine, collage e dipinti, copy art, installazioni, vestiti, tatuaggi, ecc.). […]
In Italia, d’altro canto, gli autori postindustriali sono solitamente e bellamente ignorati dalla storiografia rock-pop come pure dalla bibliografia inerente alla musica elettronica e contemporanea: né carne né pesce, troppo avantgarde per le enciclopedie rock ma anche troppo marginali e popular per gli ambiti accademici, nonostante che il prestigioso Kronos Quartet abbia in repertorio già da tempo pezzi degli Einstürzende mentre l’ensemble berlinese Zeitkratzer interpreta brani di Throbbing Gristle e Whitehouse con lo stesso impegno profuso per Cage e Xenakis. Una meritoria ma forzatamente succinta prima sistemazione storica dell’Italnoise è stata compiuta da Paolo Bandera (Sigillum S, Sshe Retina Stimulants) in appendice all’edizione italiana del classico Manuale di Cultura Industriale di Re/Search (ShaKe edizioni, 1998), e lo stesso Bandera assieme ad altri ha raccontato in dettaglio la storia di quattro formazioni (Ain Soph, Rosemary’s Baby, Sigillum S e Atrax Morgue) nell’utile volume Rumori Sacri (End of Kali-Yuga editions, 2011), ma a parte questo, molto resta ancora da fare.
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