Le polemiche sulle dichiarazioni sessiste di Sun Kil Moon sono solo l'ultimo caso del controverso rapporto tra scena indie e critica. Ma nel giornalismo musicale italiano, la questione è ignorata.
La prima volta che mi sono ritrovata in questa situazione stavo cercando di spiegare perché, secondo me, era corretto che i Baltimore Ravens avessero deciso di licenziare Ray Rice. Il running back della squadra di football americano, aveva fatto perdere i sensi alla fidanzata con un pugno per poi trascinarla per un braccio, esanime, fuori da un’ascensore. La domanda era: «È però giusto giudicare un professionista per un fatto estremamente grave, ma extralavorativo?».
Nelle ultime settimane, una questione molto simile è al centro del dibattito nell’ambiente musicale, alla luce di alcuni episodi accaduti nel giro di pochissimi giorni. Senza arrivare alla violenza vera e propria, sono tutti episodi che riguardano atteggiamenti, comportamenti e dichiarazioni di stampo chiaramente sessista, omofobo e razzista da parte di alcuni nomi noti del panorama indipendente americano ed europeo.
Il primo in ordine di tempo riguarda Mark Kozelek, cantautore americano già leader dei Red House Painters negli anni Novanta e ora attivo come Sun Kil Moon. Universal Themes, uscito per la personale etichetta Caldo Verde Records, è il suo nuovo, recentissimo album. Il precedente Benji è stato uno dei titoli più acclamati del 2014: disco dell’anno per Fact (e per il mensile italiano Rumore), ha collezionato recensioni entusiaste un po’ ovunque, da Pitchfork all’Observer passando per NME.
Famoso per il suo carattere particolarmente ruvido e per i suoi attacchi pubblici, Kozelek ha indirizzato la sua ultima invettiva contro la giornalista musicale Laura Snapes, rea di avergli chiesto un’intervista di persona (invece che via mail, come di solito impone il cantautore) e di essersi messa in contatto con gli altri collaboratori del gruppo (cosa da lui proibita) per un profilo da pubblicare sul Guardian.
Lo scorso primo giugno, dal palco del Barbican di Londra e davanti a 1900 persone, Kozelek ha intonato quanto segue: «Laura Snapes totally wants to fuck me/get in line, bitch… Laura Snapes totally wants to have my babies». L’esternazione riprendeva una risposta precedentemente data alla giornalista via mail: «You think you’re the only person who wants to get a face-to-face interview with me? Get in line. I’m the best person you never met and one day, if you ever meet me, you’ll probably want to have my baby». La Snapes, che non era presente alla performance e nel frattempo aveva già consegnato l’articolo, è riuscita ad aggiungere la cronaca dell’avvenimento al pezzo poi pubblicato, grazie al supporto dell’editor del quotidiano britannico.
Nel frattempo: la settimana scorsa, il producer lituano Ten Walls, dopo aver postato sulla sua pagina Facebook alcuni commenti fortemente omofobi (poi rimossi), si è visto scaricare dapprima dal collega Fort Romeau (che avrebbe dovuto aprire il suo concerto di Londra in autunno), poi dai più importanti festival nei quali era prevista la sua presenza, e infine dal suo booking agent. La faccenda si è conclusa con un messaggio di scuse e la cancellazione dell’intero tour da parte dell’artista.
Ancora più recente e per certi versi simile è il caso di GFOTY del collettivo PC Music, che ha recensito l’ultimo Field Day Festival via iMessage per Noisey. Negli screenshot pubblicati sul sito (e ora oscurati) erano leggibili messaggi chiaramente razzisti rivolti ai musicisti maliani Toumani & Sidiki Diabaté. PC Music ha immediatamente pubblicato uno status in cui le dichiarazioni di GFOTY vengono definite contrarie allo spirito del collettivo. Il particolare non ha impedito al producer afroamericano (ma residente a Berlino) Lotic, di commentare l’episodio con un durissimo intervento su Facebook nel quale definisce PC Music un «insulso art project ad opera di un branco di ragazzini ricchi (perlopiù maschi ma con avatar femminili)». Vale la pena ricordare che le controversie di genere sollevate dalle scelte di immagine di PC Music, erano già state al centro di un altro lungo articolo pubblicato da Steph Kretowicz su The Fader.
Storicamente, il mondo dell’elettronica ha sempre dimostrato una certa sensibilità nei confronti di determinati atteggiamenti, anche in Italia: vedi a tal proposito l’editoriale di Damir Ivic sul caso Ten Walls uscito per Soundwall. Ma se prendiamo il mondo della musica indie e in generale dell’alternative rock, non sembra di poter dire lo stesso. Almeno stando al caso Sun Kil Moon.
«È giusto giudicare l’artista non solo dalla sua arte, ma anche dai suoi comportamenti?», si chiedeva. A giudicare dai commenti all’affaire Kozelek, la risposta più accreditata sarebbe un bel no. Persino ciò che accade su un palco diventa questione extra-professionale: il compito del songwriter è fare dischi, ed è solo la sua musica a dover essere presa in considerazione quando si parla di lui.
Certo, il cantautore dell’Ohio non è sicuramente il primo a tenere atteggiamenti sessisti e misogini: senza addentrarsi nella complessità della cultura hip hop, Ariel Pink, genio della retromania musicale losangelina, ha recentemente dichiarato in un’intervista di essere stato «aggredito con lo spray urticante da una femminista» con cui aveva passato la notte perché pensava non volesse offrirle il pranzo; Father John Misty, altro guru del folk indipendente, non ha esitato a paragonare la moglie a una bambola gonfiabile nei testi del suo ultimo disco. Alle infelici uscite del primo hanno fatto eco numerosi articoli di critica che non hanno però toccato la sfera musicale, rimanendo nell’ambito della persona; mentre tra le innumerevoli recensioni di grande apprezzamento per il disco del secondo, solo poche (e per lo più firmate da donne, come quella di Jennifer Jonson su The 405) hanno posto l’attenzione sulla questione sessista.
Perché allora tanto clamore per Kozelek? Forse perché rivolgendosi pubblicamente a una giornalista che stava semplicemente facendo il suo mestiere come a una groupie, il cantautore si è spinto oltre l’aneddoto personale e la “licenza poetica” – già abbastanza sgradevole – andando a toccare la dignità professionale individuale.
Il mondo del giornalismo musicale (nonché della musica in generale) è ancora fortemente maschilista, e nel mondo anglosassone comincia a essere un tema sentito. In Italia al contrario, la questione di genere viene totalmente ignorata.
Che il mondo del giornalismo musicale (nonché della musica in generale) sia ancora fortemente maschilista non è un segreto, e nel mondo anglosassone comincia a essere un tema sentito: se il britannico The Quietus, una delle webzine più influenti del panorama internazionale, ha lanciato lo scorso dicembre la ricerca di nuove collaboratrici femminili per bilanciare la forte presenza di firme maschili nelle recensioni, The First Collection of Criticism by a Living Female Rock Critic, la prima antologia di articoli firmati da una giornalista donna vivente (Jessica Hopper, attualmente editor-in-chief della Pitchfork Review), ha visto la luce solo lo scorso 12 maggio. E come prevedibile, la pubblicazione della raccolta ha subito innescato la miccia del dibattito, iniziato da una recensione di Anwen Crawford sul New Yorker, che sostiene che il mondo abbia bisogno di più voci femminili nell’ambito della critica musicale, a cui ha risposto Emilie Friedlander dalle pagine di the Fader, facendo notare che le donne che scrivono di musica sono già numerose: basterebbe solo che qualcuno se ne accorgesse.
In Italia al contrario, la questione di genere è ancora totalmente ignorata: basta guardare le pagine staff delle principali testate e webzine di settore. Tra le riviste cartacee solo il Mucchio conta una presenza di donne nel colophon superiore a quella maschile – cosa che aveva attirato non poche ironie da parte di alcuni vecchi redattori, dopo l’arrivo di Daniela Federico alla direzione – mentre tra quelle digitali è Rockit, sito dedicato esclusivamente alla musica italiana, a registrare la collaborazione femminile più numerosa (comprese una direttrice e una caporedattrice). E poi c’è la versione italiana di Noisey.
Altrove, la disparità è evidente e resa ancora più manifesta dall’incapacità di vederla da parte degli stessi addetti ai lavori. In un post pubblicato lo scorso gennaio sul suo blog Bastonate, Francesco Farabegoli, commentando un articolo in cui si faceva notare l’assenza di firme femminili in un’antologia di saggi sulla musica degli anni Novanta, pur riconoscendo a posteriori l’errore, scriveva: «Non sono convinto che, parlando di indierock, ci sia una vera e propria discriminazione all’ingresso, e soprattutto non credo riguardi il mondo del giornalismo musicale (il quale comunque sta morendo o evolvendosi e per altri tre anni non avrà davvero importanza chi ci sta dentro e chi no)».
In un certo senso è vero: non è difficile, per una donna, arrivare a pubblicare dei contenuti su un sito di musica. È però difficile riuscire a farsi prendere sul serio, soprattutto dai “colleghi”, senza essere trattate con condiscendenza, sorbirsi lezioni o strizzatine d’occhio – nei casi peggiori, senza essere insultate. È difficile avere la forza di iniziare o continuare a scrivere nonostante queste cose, ed è pressoché impossibile diventare parte del gruppo. A colpire è anche la gender-blindness che serpeggia in Italia nella sua accezione più deleteria: la negazione che questa differenza (sia di numeri, sia di trattamento) esista e sia importante.
Tornando al caso Sun Kil Moon: nel mondo della critica musicale anglofona, la sparata di Kozelek ha subito scatenato le prime prese di posizione. Alex Wisgard, sul britannico the Line of Best Fit, ha liquidato Universal Themes (e il suo autore) come un egomaniaco e poco sincero diario personale, valutandolo con un sonante 3.5/10. Pitchfork, di cui Laura Snapes è contributing editor, con una madornale gaffe su Twitter ha svelato di aver sostituito la prima recensione del disco, firmata da Ian Cohen e prevista per il giorno di uscita dell’album, con una assai meno lusinghiera scritta da Mark Richardson e messa online 9 giorni dopo. Infine The Quietus, da sempre estremamente attento a certi temi (è stato anche il primo a chiedere su Twitter la rimozione dei messaggi razzisti di GFOTY dalla recensione su Noisey) ha scelto direttamente di non occuparsi del disco.
«Dov’è la deontologia professionale di questi boicottaggi?», hanno chiesto in coro tutti quelli che, in Italia, difendono il cantante misogino invece della giornalista offesa, arrivando anche a parlare di “censura” nel caso di The Quietus.
Per i fan e gli addetti ai lavori di casa nostra, quelli di Kozelek sono atteggiamenti magari da biasimare, ma comunque giustificabili e in ogni caso non afferenti alla sfera artistica del personaggio. A un mio post su Facebook in cui mi dicevo orgogliosa della scelta di The Quietus (visto che è una webzine con cui collaboro), i commenti prevalenti sono stati di questo tenore: «Kozelek è fatto così, è tutto e il contrario di tutto»; «Ha una sensibilità particolare, che è il suo punto di forza»; «È il suo personaggio, lo sanno tutti, qual è lo scandalo?»; ma anche «La giornalista era furba e cercava lo scoop», o persino «chissà cos’ha fatto lei per fargli dire quelle cose, probabilmente se lo meritava». Quasi tutti i commenti erano firmati da uomini. Qualcuno ha definito quello del cantautore “umorismo”; qualcun altro si è addirittura spinto a chiedermi se io conoscessi personalmente il musicista, per poter prendere posizioni simili.
Ebbene no, non lo conosco e non ho mai avuto a che fare con lui personalmente. Ma il mio compito di giornalista musicale non è quello di esserne amica, quanto quello di ascoltare i suoi dischi e scrivere di ciò che fa in quanto songwriter e musicista, quindi anche mentre è su un palco, davanti a un pubblico che ha pagato per assistere a una sua performance.
Essere considerate delle groupie è una delle offese più comuni nei confronti delle donne che scrivono di musica.
Non importa se, come alcuni sostengono, sia un uomo con una personalità difficile e dei problemi, che quindi va capito. Allo stesso modo non importa se, come sostengono altri, questa sua irascibilità e inadeguatezza sono una sovrastruttura montata ad arte per creare un personaggio capace di attirare l’attenzione su di sé.
Ancora una volta, nessuna di queste cose può giustificare l’atteggiamento tenuto in occasione del concerto al Barbican. Minimizzare quanto è accaduto con la Snapes, vorrebbe dire ignorare non solo che al posto della giornalista di Pitchfork avrei potuto esserci io, ma anche che l’essere considerate delle groupie è una delle offese più comuni nei confronti delle donne che scrivono di musica. Separare l’artista dalla persona diventa anche molto complicato quando l’aneddoto e la polemica prendono il sopravvento sull’opera: nel caso dello stesso Kozelek, vale la pena ricordare che lo scorso autunno pubblicò un brano intitolato War on Drugs: Suck My Cock in cui il cantautore si riferisce a Allison Hussey del settimanale Indy Week (autrice di un report non lusinghiero della partecipazione di Sun Kil Moon all’Hopscotch Festival) come a «some spoiled bitch rich kid blogger brat».
Nella discussione seguita al mio post su Facebook, si è fatta molta confusione sulla differenza che corre tra “censura” e “linea editoriale”: prendere una posizione, scegliere quali contenuti siano adatti o benvenuti sul proprio sito, avere una linea coerente di pubblicazione e dimostrare solidarietà nei confronti di una collega dovrebbero corrispondere alla seconda definizione, più che alla prima; soprattutto quando è coinvolto un personaggio come Kozelek, che probabilmente si sente legittimato a tenere comportamenti scorretti data la risonanza da questi ottenuta.
Ma al di là delle discussioni da social network, in Italia le principali testate di settore tacciono. Come è stato per le dichiarazioni di Ariel Pink o i messaggi di GFOTY, anche dell’exploit di Kozelek le tracce sono poche. L’esempio già citato di Soundwall che pubblica un editoriale sul caso Ten Walls, non è stato finora seguito dalle riviste di area genericamente “indie”: le uniche ad accennare alla questione Snapes sono Sentireascoltare e Rumore, prendendo spunto dalla sostituzione della recensione su Pitchfork. Altrove, negli articoli a Sun Kil Moon dedicati e nei report dei recenti live italiani, solo parole, perlopiù di grande plauso, sulla poesia del grande cantautore americano. Che non sia questa, forse, una forma di censura?
Milanese, ha studiato all’Accademia di Brera e per un po’ ha fatto la curatrice d’arte contemporanea. Collabora principalmente con Ondarock, The Rumpus e The Quietus, ma la si può trovare anche altrove, perfino su carta.