I giochi di ruolo come contro-epica collettiva e controcultura: la resistenza dei bulli e degli ultimi nel romanzo La Stanza Profonda di Vanni Santoni.
Se hai avuto la sfortuna di essere pre-adolescente tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Zero, prima di Internet, prima degli mp3, in una terra di mezzo di utopia digitale futurista e tradizione analogica resistente, il tuo mondo – che sia provincia o città – era diviso tra chi mangiava e chi veniva mangiato. Ognuno si salvava come meglio poteva da quel reame culturogeno fatto di over-esposizione ormonale, tentativi posticci di approcciarsi alle ragazze e alle sigarette (non sempre in quest’ordine), bullismo di grana grossa – sia fisico che psicologico – e rifiuto spasmodico del concetto di “infanzia”. Quella giungla darwiniana in cui osservi gli amici di ieri diventare i nemici di oggi e tutto quello che credevi potesse proteggerti diventare la base del tuo peggiore incubo (alla fine, se It di Stephen King è ancora considerato uno dei più grandi e efficaci romanzi sulla crescita, sulla paura “ancestrale” e sulla necessità di fronteggiare i luoghi oscuri di ogni nostra più recondita comfort zone, un motivo ci sarà). Se siamo qui, è perché in un modo o nell’altro ci siamo salvati, ce l’abbiamo fatta: affrontando, scappando, evitando, cambiando. Non importa come, l’importante è sapere che quei ricordi di un’estate ci hanno reso quello che siamo. Resta da capire quanto abbiamo lasciato andare di quello che eravamo e quanto questo ci dispiaccia.
Uno dei modi per salvarsi era l’escapismo. Cercare un mondo che poteva stare da qualche altra parte e, soprattutto, sul quale si potesse avere il controllo totale: maneggiare le regole, gestire i rapporti di forza, sapere dove posizionare il bene e dove il male. Era un nascondiglio, non una fuga. Una nicchia in cui tutte le relazioni che ti portavano a temere per davvero l’intervallo e tutte le dinamiche che non sei mai riuscito a spiegarti (perché i tuoi amici hanno iniziato a odiarti?) erano azzerate e si accettava un patto reciproco: ci sono delle regole, e queste regole vanno rispettate. Ecco perché molti di noi, durante la pre-adolescenza, oltre a riempirsi gli occhi di cinema, film, cartoni animati e consumare le sere davanti ai videogiochi superando le reticenze dei genitori che ai tempi ancora li consideravano “diseducativi”, hanno trovato una salvezza nei giochi di ruolo. Ed è per questo che Vanni Santoni, con La stanza profonda (Laterza 2017), ha davvero colto nel segno raccontando un sommerso italiano che è soprattutto una provincia fisica, metafora di quella provincia “mentale” di un paese sospeso in alcuni passaggi fondamentali ma ancora incerto su come e cosa fare.
I giochi di ruolo sono stati per molti non solo un semplice antidoto contro la solitudine o un tentativo di scappare dal bullismo abbassando i rapporti di forza, ma una vera e propria ‘controcultura’.
Ne La stanza profonda Vanni Santoni spiega una realtà molto semplice. I giochi di ruolo sono stati per molti di noi non solo un semplice antidoto contro la solitudine, non solo un tentativo di scappare dal bullismo abbassando – se non ribaltando – i rapporti di forza (perché in un mondo senza regole, sono le regole che riesci a far accettare a salvarti), ma una vera e propria “controcultura”. È un’affermazione molto forte, ma non è tanto lontana dalla realtà. Siamo abituati a vedere negli esponenti della “controcultura” degli esempi da imitare, i ragazzi più fighi, quelli che ‘dettavano la linea’, che trasgredivano. Film, libri e canzoni ci hanno regalato eroi controculturali, dal Capitan America di Easy Rider a Neo di Matrix (l’hacker come versione alpha del super-nerd): modelli da imitare, il cui coraggio diventa centrale per superare una condizione dell’esistente che potevi o sconfiggere, o affrontare da protagonista agente, e non vittima. Qui, invece, abbiamo a che fare con gli ultimi. Quelli troppo sfigati per essere presi ad esempio, ma solo da menare o vessare. La stanza profonda non è però un romanzo sul bullismo, anche se la dimensione salvifica dei giochi di ruolo è centrale, ma sul rifugio in cui “organizzare la resistenza” o, quantomeno, la riscossa. Ognuno di noi (se in quel momento storico si trovava dal lato sbagliato dello schiaffo) ha avuto il suo personalissimo Club dei Perdenti.
Sono stato un giocatore di Dungeons & Dragons molto sporadico e molto pigro. Da un lato perché ho affrontato gli stessi problemi affrontati e raccontati da Santoni (la logistica, l’organizzazione, la difficoltà a trovare persone ugualmente dedicate è un po’ un problema che ti accompagnerà per tutta la vita, come quando vuoi trovare un batterista per la tua band); dall’altro perché la mia voglia di nuovi mondi da esplorare mi portava via una quantità di tempo allucinante in cinema e cartoni animati, nel cercare di superare i livelli sempre più complessi del videogioco di Blade Runner, ad ascoltare musica cercando altre strade di riscossa personale, ad affinare tecniche e a conoscere a fondo le dinamiche di quello che è stato il mio personalissimo talismano: le carte di Magic. Certo, nel libro Vanni descrive l’impatto delle carte come una scorciatoia facile dentro la realtà dei giochi di ruolo, ed effettivamente anche da me c’è stato un momento in cui sono diventate, semplicemente, mainstream. Ma in quel mainstream quelli come me hanno avuto la possibilità di muoversi con un vantaggio che i nostri compagni di classe (che dominavano il caos con la forza bruta) non avevano: conoscere le regole. Quando entravi nella tua personale “stanza profonda”, le dinamiche esterne non esistevano più. Esistevi solo tu, il tuo mazzo, e il mazzo degli altri. Venti punti vita a testa, e lo stesso terreno di sfida: senza scorciatoie. Prendi la tua copia di It, apri le prime pagine. Ti ricordi quella citazione di Springsteen? “Born down in a dead man’s town / The first kick I took was when I hit the ground”. Ognuno si salva come può.
Questa controcultura, cioè quell’insieme di valori che si oppongono a un sistema retorico tradizionale ritenuto l’unico valido e accettabile (e dagli anni Ottanta in avanti questo ostentato individualismo, questa prova di forza costante, questa giungla del tutti contro tutti era l’unico modo possibile per affrontare la faccenda), trova terreno fertile nell’angoscia e nella paura di chi ha bisogno di trovare non tanto protezione, quanto una causa, un obiettivo, qualcosa di possibile oltre la piattezza di un quotidiano che sembra risolversi in se stesso. Ed è su questa linea che Vanni Santoni sta svolgendo una ricerca molto interessante sull’oggetto narrativo. Così come è stato Muro di casse, (in cui l’analisi si concentrava sulla cultura rave – sempre Laterza, 2015) anche La stanza profonda continua questo percorso in quello che Wu Ming 1, in New Italian Epic, chiama l’oggetto narrativo non identificato (e che lui stesso sta portando avanti nella casa editrice Alegre con libri come, ad esempio, Settantadue di Simone Pieranni).
Questo oggetto narrativo non identificato sembra un memoir, ma è finzione; è un saggio con delle stille di reportage, ma ha una lingua che ibrida il parlato con il letterario; ha un’ironia pungente e momenti di risate sconclusionate.
Un testo che allarga i confini, ibrida, incuriosisce, mescola e si permette di andare oltre il gioco postmoderno della mise en abîme o la facile testualità espansa alla Henry Jenkins. Questo “UNO” (unidentified narrative object) sembra un memoir, ma mette le mani avanti dicendo che è tutto frutto di finzione; racconta un esistente e un trascorso, ma lo narrativizza dentro un romanzo che non ha connotazione di genere; è un saggio con delle stille di reportage, ma ha una lingua viva che ibrida il parlato con il letterario; ha un’ironia pungente e momenti di risate sconclusionate (questo, forse, perché ci ho rivisto molto dei miei dodici anni ed è un problema mio), ma anche squarci aperti su un dramma generazionale totale perché sullo sfondo di una apocalissi culturale che solo la “resistenza” dei minuscoli Club dei Perdenti sparsi in giro per le stanze profonde (il titolo è relativo al luogo in cui i nostri eroi si trovavano ogni martedì per giocare a interminabili missioni di D&D, cui Santoni dedica una formazione costante per anni in attesa di trovare la squadra giusta) può tentare di superare… anche se poi non succede. Combattere la guerra è molto più divertente che vincerla.
Ed è questo l’aspetto per cui La stanza profonda convince così a fondo. Perché partendo da un particolare riesce a diventare una contro-epica collettiva che riesce a non [s]cadere nell’effetto nostalgia. Usa il passato, i frammenti di una storia condivisa, i riferimenti culturali che hanno formato il nostro immaginario collettivo in possibilità, per superare l’onda d’urto dell’adolescenza e arrivare in quell’altra valle di lacrime che è l’età adulta senza le zavorre dell’inadeguatezza (casomai col disagio dello spostato che vive nella condizione perdurante della malinconia, ma questo è veramente un altro discorso). O senza la cristallizzazione e la magnificazione dei bei tempi andati, del come si stava meglio quando si stava peggio: l’effetto “seppia” da fotografia sbiadita.
Non gioco una partita di Magic da almeno otto anni, forse addirittura di più. Sono tornato a informarmi: le espansioni sono tantissime, il gioco si è evoluto, è andato avanti, non lo maneggio più. Le regole sono cambiate, le caratteristiche mutuate. Ho visto Stranger Things con l’avidità di tutti i miei amici che si sono ritrovati nelle storie di quei ragazzini che usavano le missioni di D&D per sconfiggere i propri demoni personali (in attesa di affrontarli nella “vita vera” ma con la posizione e il vantaggio di chi sa che le missioni bisogna vincerle e il coraggio assume tante forme); e so benissimo che il mio mazzo tutto rosso, segno di una indole nervosa ma non priva di una certa coerenza narrativa e volontà strategica, è ancora lì, con le sue bustine protettive e il ricordo di quello che ha rappresentato.
Abita a Torino da trent'anni. Ha un dottorato. Si occupa di comunicazione politica. Collabora con vari siti e riviste ma lo trovate principalmente su Rolling Stone.