In Captain America: Civil War c'è anche lui, Pantera Nera. Dalle origini del periodo Lee & Kirby alla recente svolta targata Ta-Nehisi Coates, ripercorriamo senso e vicende di una delle figure più affascinanti dell'universo Marvel.
Con l’arrivo nelle sale di Captain America: Civil War l’esordiente cinematografico Pantera Nera godrà della sua prima, autentica esposizione al pubblico mainstream. Dopo la diffusione tra i college progressisti a metà anni ’60 e il culto da fumetteria dei decenni seguenti, finalmente è arrivato il momento di presentarsi alla massa generalista: una responsabilità non da poco, considerata l’ansia da politicamente corretto che pare imperversare in questi anni di sdegno compulsivo.
Tutte le volte che nel cast di qualche megaproduzione viene – o non viene – introdotto un personaggio non riconducibile alla tipologia bianco-maschio-eterosessuale, un’onda di risentimento è pronta a gonfiarsi su ogni social network disponibile, e il caso dell’imminente remake di Ghostbusters ne è un esempio da manuale. Alla visione delle prime foto, con la presentazione del cast completamente femminile, si è urlato allo scandalo per il presunto eccesso di political correctness: tutte donne, nessuna avvenente nel senso hollywoodiano del termine – quella misteriosa regola per cui se nel cast una ragazza lavora in officina allora deve essere Megan Fox e aggiustare le moto standogli a cavalcioni – e tutte riconducibili a categorie di alterità ben precise (tra cui ricordiamo la grassottella, l’afroamericana e la sfigata). Una volta uscito il trailer invece, il film – precedentemente tacciato come fin-troppo-corretto – è stato accusato di razzismo: su quattro protagoniste infatti tre paiono essere dei luminari nei loro campi scientifici, mentre all’unica non caucasica tocca accontentarsi di un umile impiego nella metropolitana cittadina. “Conosco New York” è la principale voce del suo curriculum al momento dell’assunzione, andando a vestire alla perfezione il cliché del badass nigga tutto concretezza, linguaggio scurrile ed educazione da quartiere degradato.
Ma all’interno del sempre più vasto Universo Marvel le cose sembrano invece destinate a cambiare. Così, dopo Samuel L. Jackson nel ruolo di Samuel L. Jackson e gli incolori comprimari James “War Machine” Rodhes/Falcon, i Marvel Studios paiono pronti a introdurre la loro prima, significativa quota black. E non potevano farlo nel modo migliore se non sfruttando un personaggio che più atipico non si può: cioè proprio Pantera Nera.
Per spiegare il motivo di tanto entusiasmo per il suo arrivo al cinema, basta citare un estratto da qualche storia che lo vede protagonista. Esempio: nel sesto numero della magnifica run scritta da Christopher Priest, il Presidente degli Stati Uniti organizza in suo onore un lussuoso ricevimento nella sala ricevimenti di un Hilton a New York. Le intenzioni sono buone, lo svolgimento decisamente meno: diciamo che mettere in piedi un evento dedicato alla comunità nera senza invitarne nessun rappresentante non è certo il migliore dei biglietti da visita. Il risultato è un disastro, con centinaia di persone fuori dallo stabile a protestare. A questo punto si deve evitare in ogni modo che scoppi un nuovo caso Rodney King e il Nostro, da saggio eroe qual è, cerca di risolvere la spinosa situazione cercando il dialogo. La risposta che riceve dalla folla è esemplare: “Eri con loro… i Vendicatori, i Fantastici Quattro. A loro non importa di noi. Non sono i nostri eroi, sono i loro” urla un giovane rabbioso. Inutile dire che un simile responso, così spietato e del tutto impermeabile a ogni forma di replica, lascerebbe chiunque senza parole. Soprattutto in virtù del fatto che non potrebbe essere più fondato.
Perché Pantera Nera non è un supereroe alla Luke Cage, l’indistruttibile protettore di Harlem. Non nasce nei ’70 della blaxploitation, non è andato alla scuola della strada, non è il rude amico di tutte le simpatiche canaglie del quartiere, non è figlio della working class. T’Challa, vero nome del vigilante mascherato, è il sovrano dello stato africano di Wakanda. All’interno dell’universo Marvel, la minuscola nazione è descritta come la più tecnologicamente avanzata del pianeta, ricca oltre ogni limite grazie agli unici giacimenti di vibranio – il metallo con cui è realizzato lo scudo di Capitan America – noti al mondo. Una società illuminata, votata al progresso, con gli stessi discendenti reali che vengono avviati a esclusivi studi all’estero per tutta lo loro giovane età (vedi il nostro protagonista laureatosi in fisica a Oxford) ma anche orgogliosa delle proprie antiche tradizioni tanto da risultare vagamente xenofoba. Lo stesso costume di Pantera Nera è un abito cerimoniale guadagnato dopo aver superato terribili prove e aver finalmente dimostrato di poter guidare il proprio popolo in maniera degna. In questo contesto T’Challa si dimostra un leader risoluto e di poche parole, dotato di eccezionali capacità deduttive e strategiche, oltre che di un supporto economico e tecnologico tale da far sembrare il Bruce Wayne di turno come un povero sprovveduto. Niente male per un personaggio creato nel 1966, in un periodo non proprio tranquillissimo per l’integrazione. A scanso di equivoci va detto che lo scontato richiamo al movimento politico delle Pantere Nere è sempre stato un grosso malinteso, tanto che i due autori – i soliti Stan Lee e Jack Kirby – pensarono più volte di cambiarne il nome in Leopardo.
Nonostante tutta l’empatia che un personaggio del genere è in grado di suscitare nel pubblico afroamericano, la realtà dei fatti è quindi un’altra: T’Challa non è uno di loro, ma un nobile di un altro continente che corre in aiuto di una nazione estera (per una volta sono gli Stati Uniti a dover dipendere da qualcun altro, lasciando per un attimo in disparte il ruolo di difensori della Terra). Non è insomma un erede della diaspora africana ritrovatosi a lottare per il suo spicchio di luce in un mondo quasi totalmente caucasico: è uno straniero, proveniente da territori ancora troppo stigmatizzati, che tra l’altro trascura i propri doveri in favore di un popolo a cui non dovrebbe nulla. Non è voglia di rivalsa quello che lo spinge: siamo più dalle parti di un autentico e martirizzante senso del dovere.
In questo senso il suo comportamento ne rispecchia perfettamente il ruolo, visto che Pantera Nera dà sempre l’impressione di muoversi per gli affari propri rispetto alle aspettative del pubblico. Nei fumetti di supereroi, esistono diversi modi di creare empatia con un personaggio: la costruzione di una certa streed-cred in grado di generare vicinanza, i super problemi del primo Peter Parker, il perseguimento di un percorso di formazione in cui riconoscersi… T’Challa non ha bisogno di nessuna di queste cose, ritrovandosi così a dover rispondere solo delle sue esigenze. Arriva negli Stati Uniti portandosi due guardie del corpo minorenni definite a più riprese come “mogli in prova”, non rinuncia a nulla del suo retaggio tribale, parla poco e spesso tiene noi stessi – suoi affezionati lettori – all’oscuro delle sue intenzioni. “Vivere, morire, regnare ancora… la pantera deve camminare sola” lo sentiamo pronunciare dopo aver causato un bel subbuglio tra le linee dei Vendicatori, nella conclusione del nono numero della stessa run di cui sopra. È quindi perfetta e assolutamente funzionale la scelta dello sceneggiatore Christopher Priest di introdurci alle sue vicende non come testimoni diretti, ma attraverso i racconti del povero funzionario di stato Ross Everett: un espediente con cui veniamo privati della capacità di leggere i pensieri del protagonista (come invece accadrebbe grazie all’uso delle consuete didascalie in un fumetto tradizionale) limitandoci a cercare di capire cosa stia succedendo ricollegando fra loro le varie testimonianze. Pantera Nera è la spalla su cui sai di poter fare affidamento ma a cui non è il caso di fare troppe pressioni: meglio lasciarlo lavorare in autonomia alla luce delle sue infinite virtù.
T'Challa, vero nome del vigilante mascherato, è il sovrano dello stato africano di Wakanda. All’interno dell’universo Marvel, la minuscola nazione è descritta come la più tecnologicamente avanzata del pianeta, ricca oltre ogni limite.
Eppure, per quanto si possa trattare di una persona talentuosa, l’ubiquità non potrà mai essere una sua dote. Non è infatti un caso se uno dei punti cardine su cui molti dei suoi autori paiono tornare più di sovente sia la difficile gestione contemporanea di due attività come l’amministrazione di un regno nel cuore dell’Africa da una parte, e il salvare in continuazione gli Stati Uniti da chissà quale minaccia dall’altra. Già dal suo primo ciclo di storie davvero importante, T’Challa deve affrontare prima di tutto il problema della sua lontananza dai suoi natali. In Jungle Action #6 (1974) si scopre come “molti membri della sua corte regale si erano sentiti abbandonati a causa della sua lunga assenza all’estero. Monica (sua moglie), inoltre, si ritrova invisa alle altre donne, troppo diversa nelle abitudini e costumi sociali ‘occidentali’”. La stessa cosa succede durante un ciclo di storie sceneggiato dal cineasta e produttore Reginald Hudlin dove, per evitare una guerra civile provocata dall’ennesima assenza del monarca, la sorella minore del protagonista decide di intraprendere in versione accelerata il “percorso di formazione” per poterne così prendere il posto e riuscire a salvare la situazione.
Lo strano rapporto di Pantera Nera col suo paese rappresenta il motore perfetto per ognuna delle grandi svolte narrative della sua carriera: possiamo farlo tornare a casa in una saga fortemente Wakanda-centrica come Chi è Pantera Nera? oppure allontanarlo del tutto come in Pantera Nera l’uomo senza paura, dove decide di prendere le veci dell’amico Daredevil e diventare il difensore di Hell’s Kitchen (una saga da recuperare anche solo per le straordinarie tavole di Francesco Francavilla, forse il miglior disegnatore al mondo nell’interpretare certe atmosfere pulp). Quella del tira-e-molla tra i doveri dell’eroe senza frontiere e l’amore per il suolo natio è una regola non scritta alla base anche della più recente incarnazione del Nostro, alle cui sceneggiature troviamo non il suo primo autore afroamericano ma forse quello più schierato e militante: parliamo ovviamente di Ta-Nehisi Coates, colui che dovrà approfittare dell’effetto volano di Captain America: Civil War per lanciare il personaggio nel gotha dei grandi. Una missione non particolarmente difficile considerate le previsioni di incasso del blockbuster, e che in più potrebbe regalarci frutti del tutto inaspettati. Per rendersene conto basta prendersi la briga di scoprire qualcosa di più proprio sullo sceneggiatore, recentemente inserito da Time tra le “100 Most Influential People” del 2016.
Ta-Nehisi Coates nasce nel 1975 a Baltimora venendo immediatamente a contatto con un ambiente antagonista: il padre infatti prima milita nelle Pantere Nere e poi fonda la Black Classic Press, casa editrice indipendente specializzata in autori di discendenza africana. Crescendo in un simile humus culturale, Ta-Nehisi trova terreno fertile per coltivare la sua vocazione alla scrittura: poco dopo l’università comincia a lavorare, tra gli altri, per The Atlantic, il New York Times Magazine, il Washington Post, il Village Voice, Time, vestendo puntualmente il ruolo di esperto in questioni afroamericane. Nel 2008 pubblica il memoir The Beautiful Struggle: A Father, Two Sons, and an Unlikely Road to Manhood per poi arrivare alla consacrazione definitiva nel 2015 con Between the World and Me, un’amara riflessione sul ruolo della comunità nera negli Stati Uniti che gli garantisce un plauso pressoché universale e la vittoria del National Book Award for Nonfiction.
Per quanto cappe e mantelli abbiano conosciuto un costante sdoganamento nel corso degli ultimi trent’anni, non era scontato che uno scrittore così affermato decidesse di mettersi a sceneggiare un supereroe, se non altro perché di supereroi non aveva mai scritto prima. Ma almeno sul fatto che ne abbia letti davvero molti, non ci sono invece dubbi: nell’articolo The Broad, Inclusive Canvas of Comics, Ta-Nehisi Coates spiega in maniera piuttosto convincente come il cosiddetto “fumetto d’evasione” rimanga un mezzo espressivo tendenzialmente più libero di tanti altri, al punto che al suo interno “c’è ancora spazio per una diversità trasgressiva”. Il punto su cui si basano le sue osservazioni è proprio la sostanziale diversità tra i personaggi sulle pagine degli albi e le loro trasposizioni cinematografiche: se nel mondo della Marvel cartacea Ororo Munroe – nota anche come Tempesta – è la figlia di una principessa kenyota, in quello dei blockbuster da multisala non ha praticamente nessuna possibilità di essere interpretata dalla Lupita Nyong’o’ di turno. E se la regola del “Black features are beautiful. Black women are not” pare ancora essere accetta senza troppi problemi dal mainstream USA, meglio allora tornare alle origini: a quei giornaletti di poche pagine dove è nato tutto. Un mondo spesso – molto spesso a dire il vero – ancora tanto ingenuo da concedersi scivoloni ingenerosi ma che ci permette anche di leggere perle come la magnifica Ms. Marvel di G. Willow Wilson.
Ta-Nehisi Coates sembra aver intrapreso una strada dagli intenti molto chiari. I primi dodici numeri della nuova serie di Pantera Nera dovrebbero essere basati sul saggio A Nation Under Our Feet di Steven Hahn sui mutamenti del potere politico afroamericano.
Kamala Khan/Ms. Marvel è la prima supereroina musulmana scritta da una musulmana, solo che di questo aspetto – ecco il vero punto della questione – a nessuno frega nulla. Perché si tratta prima di tutto di un grande fumetto su cosa significa essere adolescenti negli anni 2000, iperconnessi sì ma costretti a crescere in una famiglia attaccata a un passato di cui non si riesce a capire il significato. Oppure, seppur in misura minore, si potrebbe citare il nuovo “totally awesome” Hulk. Il colosso verde di casa Marvel ora si chiama Amadeus Cho ed è un personaggio di origini asiatiche la cui nuova serie regolare è per altro scritta e disegnata da due artisti entrambi di origine coreana; si tratta per inciso di due nomi di primissimo piano come lo specialista in fumetti muscolari Greg Pak e il sempre più bombastico Frank Cho. È lo stesso disegnatore a spiegare ai microfoni di Comic Book Resources perché la scelta che sta dietro al nuovo Hulk sia più importante di quello che sembri: “Gli asiatici sono la maggioranza silenziosa. Non ci lamentiamo, né ci facciamo sentire o cerchiamo di rompere gli equilibri. È stata davvero una lunga attesa quella per avere un protagonista asiatico in un grosso titolo. Una lunga attesa”.
Dal canto suo, è una scelta consapevole, impegnativa anche per il più smaliziato degli sceneggiatori, e di certo non scontata: cercare di mantenerne lo spirito all’interno di quello che deve pur sempre restare un fumetto d’evasione è una scommessa di cui solo tra qualche mese scopriremo gli esiti. Per adesso, viste le oltre 300.000 copie vendute del primo numero e l’incredibile copertura mediatica venutasi a creare, è indubbio che sia stato un ottimo investimento. Alla faccia di come il mainstream più tradizionale continua a trattare il personaggio, vedi la disastrosa cover di Entertainment Weekly in grado di dimostrare in maniera indiscutibile quanto Coates avesse ragione a dubitare del mondo di celluloide. Capiremo presto se i Marvel Studios avranno la forza di ribaltare questo paradigma.
Nasce nell'anno della morte e resurrezione dei videogame, fa il designer, legge fumetti, e su Fumettologica.it cura la rubrica Powerpop firmandosi Evil Monkey.