Sentivamo davvero il bisogno delle Facebook Reactions? No. Ma è una questione che trascende gli utenti del social network e inaugura un nuovo modo di monetizzare l'economia delle emozioni.
Quando una piattaforma social come Facebook introduce una novità, ci sono due modi per analizzarla: ragionare come l’azienda, o ragionare come l’utente, e capirne cosa entrambi ne possono ricavare. Ho provato a considerare il lancio delle Facebook reaction da questi due semplici punti di vista, cercandone le cause e provando ad immaginarne le conseguenze.
Le domande che sorgono sono diverse, e possono rivelare molto sul rapporto tra il medium e i suoi user. In quale contesto sono state concepite? Perché sono state lanciate? Cosa cambia davvero per noi utenti? Qual è l’obiettivo dell’azienda? Possiamo provare a immaginarne le conseguenze?
Tu chiamale, se vuoi, emoji
Secondo uno studio condotto dall’Oxford University Press e Swiftkey, 😂 è stata la parola dell’anno 2015. Non so se sia corretto chiamarla parola, ma se l’ha fatto l’Oxford Dictionary probabilmente una ragione c’è. Infatti, l’emoji “Face with Tear of Joy” (o appunto 😂), è stata scelta perché meglio di ogni altra riflette sensazioni, preoccupazioni ed ethos dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle un paio di mesi fa. L’etimo del termine emoji ne descrive in modo efficace la sua natura: deriva dal giapponese 絵文字, nato dalla composizione di – e – “immagine” e – moji – “carattere, lettera”. 😂 è stata la più usata tra le emoji, sfiorando quota 8.000 miliardi di utilizzi lo scorso aprile. In fin dei conti, è l’uso che ne fa la gente a determinare che espressioni sono destinate ad entrare nel dizionario. L’ha spiegato anche l’Accademia della Crusca nella lettera mandata a Matteo, “l’inventore” della parola petaloso: non sono i dizionari a diffondere l’utilizzo di nuovi termini, semplicemente questi prendono atto del loro utilizzo, e successivamente le fanno diventare parte di una lingua. Così, visto che 😂 era inserita nel testo nel blog post che riportava i risultati dello studio, ho pensato che andasse trattata come una parola vera e propria. E l’ho googlata.
Le parole emoji ed emoticon non sono sinonimi: mentre le prime sono pittogrammi sviluppati in Giappone alla fine degli anni 90, le emoticon sono una versione stilizzata delle stesse – fatta di soli caratteri tipografici – apparsa la prima volta nel XIX secolo.
Le emoji non sono quindi un fenomeno nuovo, sono state inventate agli albori di internet, hanno preso piede grazie alle tecnologie digitali e hanno raggiunto il loro momento di massimo utilizzo negli ultimi due anni. Anche la parola dell’anno 2014 infatti, secondo uno studio del Global Language Monitor, era un’emoji: ♥ (Heavy Black Heart) o anche ❤️. Commentando i risultati della ricerca, il presidente di GLM Paul JJ Payack riassumeva la portata del fenomeno in atto: “la lingua inglese sta attraversando un periodo di sostanziale trasformazione che non ha eguali nei suoi 1.400 anni di storia”. E considerato che l’inglese è la lingua della tecnologia e della cultura dominante, questo non può che avere un impatto anche a livello globale.
Forse un domani le emoji verranno insegnate a scuola, come l’alfabeto. In qualche modo possono essere considerate come un alfabeto non verbale, un codice di segni proliferanti. Molte emoji sono di facile interpretazione, ma sono diventate così numerose che è facile imbattersi in pittogrammi dal significato misterioso. Per chi non avesse molta familiarità con il mondo delle emoji, il New York Times ha pubblicato un emoji test, ed esiste anche un’enciclopedia delle emoji, Emojipedia. Per chi riceve messaggi composti di sole emoji, potrebbe essere l’occasione di capire che significano.
Mi piace pensare alle emoji come a una semiotica delle emozioni capace di cambiare la semantica di una lingua, aggiungendo sfumature di significato a un testo tradizionale o rimpiazzandolo. In quest’ultimo caso, la loro capacità di creare un significato può andare oltre le possibilità di qualsiasi parola. Un pittogramma infatti è un simbolo, qualcosa di più simile a un disegno, che diventa difficile trasformare in una parola. Se dovessi scrivere 😃 usando le lettere della mia tastiera QWERTY, forse scriverei “haha”, espressione che si può trovare nell’Oxford Dictionary, scritta con lo spazio tra il primo e il secondo “ha”. Ma come potrei tradurre 🙈?
Facebook Reactions
L’influenza del digitale sull’avvento delle emoji è stata determinante: sono un prodotto culturale e linguistico legato a un fenomeno tecnologico. Lo standard unicode ne ha reso possibile l’utilizzo da diversi supporti digitali (telefoni cellulari, computer, tablet) e su diverse piattaforme, e la gente ha iniziato a usarle trovandole divertenti, utili, immediate. L’immediatezza è probabilmente la loro caratteristica principale: richiedono una sola pressione del dito e comunicano con un simbolo quello che sarebbe difficile dire usando diverse parole. Utilizzate soprattutto in chat e messaggi, e come metodo di rating da parte degli utenti, la vera età dell’oro delle emoji è iniziata con la diffusione dei social media. Facebook ne è l’esempio più chiaro. È proprio da Menlo Park, infatti, che arriva una delle novità più importanti in questo senso: le Facebook Reactions.
Nonostante se ne sia parlato molto, le cinque nuove faccine introdotte da Facebook accanto al tasto “like”, non sono in realtà così nuove. Tuttavia rappresentano un cambiamento rilevante nella politica della piattaforma di Mark Zuckerberg. Erano state introdotte nel social media lo scorso ottobre, con un progetto pilota circoscritto a Spagna e Irlanda, dopo che per un po’ si era parlato dell’introduzione del tasto “dislike”. Sebbene la possibilità di esprimere un parere negativo non sia limitata a quel tasto, le richieste di diversi utenti avevano costretto a ripensare uno dei punti cardine del business model di Facebook: limitare la negatività ai commenti e mantenere così un tono positivo per gli altri livelli di user engagement, “like” e “share”. Più che per problematiche legate al bullismo, secondo alcuni la scelta è legata a una volontà di tutelare i brand da campagne di odio o pessimi rating da parte degli utenti. A Menlo Park però, la storia viene raccontata diversamente: agli utenti il tasto “like” non bastava.
Studiando le emoji più usate sulla sua piattaforma, Facebook ha deciso di spostare le più diffuse su un altro livello, quello delle Facebook Reactions. I pittogrammi usati non sono nuovi, lo sono il loro posizionamento e la loro categoria: da simboli inseriti nei commenti e negli status, ora “valgono quanto un like”. La sola cosa che cambia per gli utenti, è che le emoji sono messe in rilievo, e quando le si vuole usare, questo permette di risparmiare un paio di click. Sammi Krug, la product manager, l’ha definito un “big change”. Poi, sempre il 24 febbraio, in un altro post apparso sulla Facebook Newsroom, la stessa Krug spiega che il cambiamento non sarà tanto per gli utenti, ma piuttosto per i gestori delle pagine. “La vediamo – dice Krug – come un’opportunità per business e publisher di capire meglio il modo in cui le persone rispondono ai loro contenuti su Facebook. I gestori delle pagine saranno in grado di vedere le reazioni a tutti i loro post negli insight della pagina. Le reaction avranno lo stesso impatto sulla distribuzione della pubblicità che hanno i like”.
Le Facebook Reactions renderanno l’algoritmo che regola la newsfeed più preciso nel mostrarci i contenuti più importanti. Ma più di ogni altra cosa, saranno incorporate nei Page Insights – gli analytics di Facebook. Questo significa che brand e publisher potranno avere una sorta di emoji based sentiment analysis automatizzata, rimanendo all’interno della piattaforma. In un periodo in cui molti publisher stanno cercando nuovi modi di monetizzare, le Reactions forniscono nuovi strumenti per capire le reazioni degli utenti a diversi tipi di contenuti e il loro livello di empatia. E garantiscono allo stesso Facebook una maggior precisione nella comprensione degli utenti, che significa maggiori incassi a livello pubblicitario.
Con l’applicazione Apply Magic Sauce, dei ricercatori della Cambridge University avevano dimostrato come la piattaforma sia in grado di costruire un profilo abbastanza preciso degli utenti semplicemente tracciando l’uso del tasto “like” sulle pagine pubbliche. In altre parole, senza usare le generalità degli user, grazie ad un algoritmo è molto facile determinare età, sesso, caratteristiche psicologiche e posizioni politiche degli utenti. Con l’introduzione delle Facebook Reactions, questo modello di user profiling non potrà che diventare più preciso.
Le Facebook Reaction non vanno guardate solo dalla prospettiva economica. Sono anche un cambiamento culturale: si intravede un futuro fatto di emoji e pochi ragionamenti strutturati.
Like economy
Il tasti “like” e “share” hanno rappresentato per Facebook alcune delle novità più importanti nella sua storia, come i social button sono state una delle novità più influenti nella storia recente del web. Una ricerca sul tema pubblicata da MIT Press e intitolata “The like economy: Social buttons and the data-intensive web” lo spiega in maniera efficace. I social button (i tasti che permettono di condividere contenuti esterni ai social con un click), oltre funzionare come strumenti di online tracking anche per gli utenti al di fuori della piattaforma, hanno trasformato l’engagement in qualcosa di facilmente quantificabile, ed economicamente remunerativo. Così facendo, Facebook è stato capace di creare un legame tra l’aspetto economico e sociale della piattaforma, non a caso il “like button” viene definito web currency dagli autori. Una reazione spontanea come un “mi piace” è diventata un’informazione dal rilevante valore economico: maggiore è l’engagement con il contenuto, maggiore è il guadagno che un publisher può ottenere dalla pubblicità. Ogni “mi piace”, ha un valore economico, perché l’informazione che trasmette dice qualcosa sul contenuto (se ha destato attenzione oppure no) e qualcosa sull’utente (che tipo di contenuti preferisce).
Gli autori lo definiscono un passaggio fondamentale nella transizione dall’informational web al social web. Il cambiamento è epocale: il passaggio dal web 1.0 al web 2.0 ha ridisegnato il tessuto stesso della rete, e l’introduzione dei “social button” ha permesso a Facebook di fagocitare il web stesso. Si potrebbe dire che Facebook è riuscito a centralizzare il web, concentrando sempre più servizi sulla piattaforma e rendendo praticamente impossibile rimanerne fuori. Cliccare su “mi piace” o “condividi” ha esteso azioni circoscritte alla piattaforma all’intero web, permettendo ai proprietari dei siti di ricavare denaro facendone buon uso. I social button non sono una prerogativa di Facebook, ma certamente a Menlo Park ne hanno fatto l’uso migliore. Infatti, il continuo flusso di dati tra i siti e la piattaforma social, e la possibilità di generare profitto da questo processo, vengono definite “like economy“.

Un modello economico simile può fornire nuovi orizzonti soprattutto nel campo del publishing, per il quale Facebook è diventato condizione necessaria al successo. In questo senso, sì, un “like” non era abbastanza: perché limitare i tipi di engagement a commenti, “mi piace” e “condividi” quando puoi fornire anche altre reazioni. Questa basilare grammatica delle reazioni possibili ha il potenziale di estendere il tracking a una gamma più vasta di emozioni, e quindi di aumentarne il valore economico. In un momento storico in cui ci si è resi conto che gli analytics tradizionali non funzionano così bene in ambito editoriale, e in una fase in cui gli ad blocker hanno raggiunto una diffusione senza precedenti, le Facebook Reactions rappresentano uno strumento in più per interpretare i gusti dei lettori. In altre parole, sono un’evoluzione della like economy che assomiglia a una specie di “tracking emozionale”. Il perché di tutto questo è piuttosto semplice, ed è legato alle emozioni che si è scelto di rappresentare. Secondo Harvard Business Review, le campagne virali sui social provocano generalmente cinque tipi di reazioni: curiosità, sorpresa, interesse, stupore e incertezza. Contrariamente a quanto si possa pensare, anche nel XXI secolo l’uomo prende decisioni basandosi sulle emozioni, non solo quando compra. Dal punto di vista dell’informazione giornalistica, dove l’utente che “compra” è quello che consuma i contenuti, un effetto potrebbe essere la pubblicazione di contenuti coinvolgenti a scapito di strutturate analisi dei fatti. Come se la società e le sue dinamiche si stessero facendo più complesse e allo stesso tempo la lingua vi si adattasse per antitesi, assumendo forme tranchant, immediate, semplici.
Visual web
Le ragioni dell’introduzione delle Facebook Reaction non vanno cercate solo guardando alla novità da una prospettiva economica. Si tratta di un cambiamento epocale anche a livello culturale, espressivo e sociale. Mark Zuckerberg lo ha detto molto chiaramente durante un recente Q&A tenuto all’Indian Institute of Technology di Delhi. A una domanda su come la virtual reality sarà implementata in un social media e come i developer potranno farne uso, Zuckerberg risponde mettendo sul tavolo una delle question fondamentali: il visual web.
“Uno dei grandi trend su FB, e più in general nel web, è che man man che il tempo passa, le persone hanno un medium sempre più ricco per condividere quello che è importante per loro. Se andiamo indietro di 10-15 anni, la maggior parte dei contenuti che condividevamo nella rete era [in forma di, ndr] testo. Negli ultimi 5-10 anni, ora, sono foto, visual, graphical content. Nei prossimi anni entreremo in quella che sarà la “golden age of internet video”. Il principale modo di condividere […] e consumare le le esperienze degli altri utenti, e altre idee online, sarà attraverso i video. […] Ma non penso che i video saranno the end of the line.”
Il visual web è cresciuto assieme all’uso da mobile, e questa è anche una delle ragioni per le quali le reaction sono sei: di più sarebbero difficilmente rappresentabili sulle schermo di un cellulare. L’uso di Facebook da mobile è un altro dei fattori che ha portato al web di oggi: ha spinto alla condivisione di foto e video creati con gli stessi dispositivi, radicalizzando l’immediatezza di condivisioni e reazioni. Il boom di Instagram, dove la rappresentazione visiva del self ha portato a fenomeni planetari come il selfie, è stato solo il primo passaggio verso il visual web. I video e la loro capacità di coinvolgere emozionalmente gli utenti sono il presente. La diffusione su larga scala della virtual reality ne sarà la consacrazione, ma non certo la fine del processo. Infatti, se da un lato Facebook segue i trend della rete, da un altro ne determina la traiettoria. E un buon modo per vedere cosa ci riserva il futuro, è dare un’occhiata alla pagina dedicata da Facebook alla ricerca: AI, Machine Learning, Computational Photography e Data Science.
In un momento storico in cui Facebook aveva visto calare l’utilizzo attivo della piattaforma, ma crescere esponenzialmente l’uso da mobile, Zuckerberg decide di dare una possibilità di interagire con i contenuti in maniera immediata: le Reactions. Tuttavia, un tipo di reazione simile tende a far prevalere un approccio non razionale né strutturato. Se un testo scritto richiede capacità di rielaborazione e sintesi, mi chiedo come si possa traslare questo nel campo delle emoji. Una discussione su temi complessi richiede anche un’accettazione della complessità, e una ricerca che porti a una comprensione profonda del problema. E molto spesso la ricerca ha una sua componente dialogica, cosa che le Reactions non sembrano incoraggiare. Lo scenario che si intravede è un futuro fatto di emoji e pochi ragionamenti strutturati. Se le emoji colmano un gap comunicativo, tendono a rendere le persone ancora meno capaci di esprimersi con le sole parole.
So what?
Alla domanda se come utente di Facebook sentissi il bisogno delle Facebook Reactions, mi sono già risposto di no. Anzi, mi sono risposto che il loro inserimento contribuisce a creare il bisogno di utilizzarle. Sarà interessante vedere come verrano interpretate: in fin dei conti un “like” o una faccina arrabbiata potrebbe non significare letteralmente “mi piace” o “sono incazzato”, ma piuttosto “sto empatizzando con te”. Su Slate, Amanda Hess dice di trovarle strane e costrittive, e si domanda: dal momento che gli scienziati hanno individuato almeno 20 emozioni di base, perché si può scegliere solo fra quelle sei? E conclude che in fondo le Reactions dicono solo che “qualcuno ci ha notati”, facendo tornare alla mente quanto Facebook possa influenzare il nostro umore. Nel 2014 Facebook ha condotto un esperimento sul contagio emozionale sulla piattaforma, dimostrando di non chiedere il permesso prima di usare i suoi utenti come cavie. Mi chiedo se Facebook stia esplorando l’eventualità di entrare nel well-being: l’intelligenza artificiale potrebbe fare buon uso dei nostri database emozionali. Come se il suo algoritmo ci facesse vedere solo quello che è “meglio per noi” in ogni dato momento, basandosi sulle emozioni che continuamente esprimiamo.
Faticavo a trovare aspetti positivi nella questione delle Facebook Reactions. Poi ho parlato con Laura Fontanari, psicologa, dottore di ricerca in neuroscience e fondatrice di Coachademy. Dalla sua prospettiva, c’è dell’altro: “Da un punto di vista umano, la possibilità di scegliere di esprimere non solo approvazione/piacevolezza (quanti significati ha il “like”?) ma anche e soprattutto differenziare “emotivamente” la reazione al contenuto è molto interessante. Abbiamo un binario, scelto per noi, attraverso il quale possiamo interrogarci e valutare, emotivamente, cosa esperiamo. E per fare questo, ci dobbiamo pensare (o almeno, è quello che spero accada, avendo una prospettiva positiva del potenziale umano) e dare un’etichetta (visiva). E il vantaggio sta nella facilità di accesso alle emoji, che va incontro alla nostra naturale indole pigra. Per chi vede la formalizzazione visuale attraverso simboli preconfezionati una sterilizzazione del contenuto veicolato, pensi a quanti vantaggi per un’alfabetizzazione emotiva.”
Guardando alla cosa da italiano, e accostandola a un fenomeno come l’analfabetismo digitale, mi chiedo che tipo di impatto questo approccio ai contenuti (e quindi alla conoscenza) possa avere sul piano politico e sociale. Facebook sembra dire ai suoi utenti di usare contenuti visual che coinvolgano emotivamente, implicitamente penalizzando quelli che fanno sorgere interrogativi più complessi. Può darsi che, paradossalmente, le Facebook Reactions ci renderanno più consapevoli, e quindi anche meno manipolabili. Ma potrebbero anche renderci meno abituati al pensiero che porta alla creazione di un testo, spingendoci a privilegiare fruizioni più passive dei contenuti, come appunto la VR, e poche reazioni immediate a portata di click. Quello che è certo, è che avremmo bisogno di chiavi di lettura per capire il senso della mole di dati creati, e di tempo per capire le conseguenze.
Da piccolo sognava di guidare una ruspa, poi qualcosa è andato storto. Vive ad Amsterdam, dove ricerca, scrive e sviluppa idee su nuovi media e cultura digitale.