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La politica e i social network vogliono risolvere il problema dell'odio in rete eliminando l'anonimato. Ma davvero la nostra identità digitale è identica a quella reale?

Internet Warriors è una delle cose più belle viste online negli ultimi mesi. Il documentario prodotto dal Guardian è un approfondimento semplice ma inedito sul “vero volto” di quelli che online, spesso erroneamente, vengono definiti troll. Anche se leggiamo ogni giorno una quantità infinita di commenti urlati, volgari, rabbiosi o xenofobi ci resta comunque difficile immaginare la vita, gli spazi e la socialità di quanti continuano a riversare la loro rabbia dentro un status Facebook. Il lavoro del documentarista norvegese Kyrre Liean colma questo vuoto d’immaginazione provando a riallineare la nostra prospettiva digitale con quella reale e rivelando come molti dei più xenofobi tra i protagonisti siano sposati proprio con immigrati. “Credo che per odiare qualcosa devi prima averlo amato” dice ad un certo punto uno dei protagonisti del documentario racchiudendo in una frase gran parte delle possibili riflessioni sul tema. “Molte di queste persone si sentono sole” dice Liean a proposito del suo lavoro “si sentono dimenticate dalla società, molte di loro sono state vittima di bullismo in passato. In tanti pensano che internet li renda automaticamente inidentificabili”.

Verificare è semplice: basta cliccare sul profilo di uno qualunque tra gli hater online e fare un giro nella sua bacheca Facebook. Tra un “Buongiornissimo” e un “Kaffè” l’immagine che ci viene restituita è quella fornita da Kyrre: utenti con una scarsa alfebetizzazione digitale che non si pongono neppure il problema della propria immagine online. Prima di andare oltre è necessario però fare un po’ d’ordine. Hater, troll, bullismo: spesso si fa di tutta l’erba un fascio quando invece le categorie in questione sono differenti tra loro. Il troll autentico è quello che con piena consapevolezza si diverte a minare la riuscita di una discussione online bombardandola con la violenza delle proprie parole. L’hater ha un profilo più sfumato e spesso descrive chi semplicemente usa tono incivili, provocatori ed esagerati per esprimere le proprie opinioni. Sia gli uni che gli altri contribuiscono al problema dell’incitamento all’odio, hatespeech lo chiamano gli anglosassoni, una questione che diventa tanto più fastidiosa quanto più i social network sono indispensabili alle nostre relazioni.

Il problema è globale ma in Italia è avvertito in modo particolarmente grave e in tanti tra politici, opinionisti e autorità nazionali sembrano avere le idee chiare su come risolverlo. Solo qualche settimana fa un rappresentante della polizia postale invitato ad un convegno sul tema ha proposto di eliminare totalmente l’anonimato online, Roberto Saviano non si fa problemi nel paragonare gli hater alla merda e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tirato in ballo l’odio in rete persino durante il suo discorso d’inaugurazione degli ultimi David di Donatello infilando la questione nello stesso calderone dell’omicidio di Alatri e paragonando quindi qualche vaffanculo su Twitter alle decine di sprangate di una manica di balordi strafatti che hanno ucciso un ragazzo innocente.

Hater, troll, bullismo: spesso si fa di tutta l'erba un fascio quando invece le categorie in questione sono differenti tra loro. Tutti contribuiscono al problema dell'incitamento all'odio.

Tra tutti però la più impegnata sul fronte della lotta all’odio online è la presidente Della Camera dei Deputati Laura Boldrini. Tra lettere indirizzate direttamente a Mark Zuckerberg e “proposte di natura tecnica” per migliorare il funzionamento dei social network (ma che davero?) i suoi sforzi sembrano il frutto di un’ingenua buona volontà più che una possibile soluzione reale al problema. Come scrive giustamente Massimo Mantellini: “La natura pre-digitale di questo Paese e della sua componente politica in primis è ben rappresentata dall’assoluta libertà con cui Boldrini invade il campo della rappresentanza intestandosi le tematiche digitali dei cittadini. Senza che le passi nemmeno lontanamente per la testa che le sue “battaglie di civiltà” potrebbero non essere quelle di tutti e che quelle che a lei paiono semplici questioni di buonsenso sono invece complicati temi di politica delle reti: dalla neutralità del network alla libertà di espressione nei contesti digitali”. Insomma nel cuore dei nostri politici internet è e sarà sempre “un gioco da ragazzini” che si può sistemare agitando il pugno in aria e minacciando un paio di sculacciate.

La questione è invece molto complessa sia dal punto di vista tecnologico che sociale che soprattutto esistenziale. Il ragionamento che i legislatori stanno portando avanti è quello secondo cui i reati online vanno puniti con lo stesso metro che si utilizza per gli stessi fuori dalla rete. Un’equiparazione che ad una prima occhiata pare evoluta ma che merita invece un’ulteriore riflessione. Da tempo si è smesso di pensare ad internet e alla sfera social come ad una bolla separata dal resto dell’esistenza. Persino le parole che usiamo per descrivere la nostra posizione nello spazio fisico e digitale hanno cambiato il loro senso originario. L’acronimo IRL, In Real Life, ha perso parte del suo valore perché la rete è reale tanto quanto la stanza da cui stiamo digitanto e così lo sono le conseguenze delle azioni che portiamo quando siamo connessi. Pensateci: vi sentite di conoscere meglio la persona che incontrate un paio di volte l’anno e con cui scambiate soltanto dei veloci saluti oppure l’amico d’infanzia che non vedete in carne ed ossa da 20 anni ma che compare regolarmente nella vostra timeline di Facebook? A volte il digitale è più tangibile e presente della realtà. Alla stessa maniera è superato dagli eventi anche l’acronimo utilizzato per descrivere la nostra posizione quando siamo lontani da un computer (e quindi l’incapacità a rispondere ad un messaggio in chat): AFK, Away From The Keyboard. Ma di quale tastiera stiamo parlando? Sicuramente non quella del nostro computer fisso visto che lo schermo principale da cui ci connettiamo è ormai quello del cellulare che portiamo sempre in tasca e da cui non ci separiamo per nulla al mondo.

Boldrini, Saviano, Mattarella e tutta l’allegra carovana non ha però completamente torto. La rete ha davvero assunto un aspetto preoccupante. Una recente ricerca del Pew Internet Research Center ha chiesto a 1537 tra esperti, accademici e politici se pensano che la conversazione online sarà sempre più influenzata dalla presenza di guastatori e hater. Il 39% ha detto di essere sicuro che la situazione non potrà che peggiorare. I troll dominano la rete non solo con il caps lock dei loro ragionamenti da bava alla bocca ma influenzando le mosse e le strategie di chi come i politici dovrebbe arginarne l’attività. La polemica e le urla creano “engagement”, lo ha capito bene Matteo Salvini che si comporta da vero troll sia nei suoi status online che nell’intenzione di andare in visita a Napoli solo per il gusto di accendere gli animi.

La piattaforma che è stata più danneggiata dall'hatespeech è Twitter: parte delle difficoltà che l'azienda sta affrontando negli ultimi tempi sono proprio dovute al deterioramento delle conversazioni.

La piattaforma che è stata più danneggiata dall’hatespeech è sicuramente Twitter. Parte delle difficoltà che l’azienda americana sta affrontando negli ultimi tempi sono proprio dovute al deterioramento delle conversazioni al suo interno. Le ragioni sono principalmente tecnologiche: su Twitter è infatti molto semplice rimanere anonimi ed entrare in contatto con chiunque senza filtri o barriere. A differenza di Facebook che da tempo ha imposto ai propri utenti l’utilizzo di nomi reali Twitter non si è mai adeguata a questa policy rimanendo il paradiso di alias, identità alternative e nickname di ogni genere. Lo ricorda uno dei suoi co-fondatori Nick Costolo che nel 2011 affermava: “Altri servizi ti obbligano ad usare il tuo vero nome perché così pensano di poter monetizzare la tua presenza e avere più informazioni su di te. Noi non siamo attaccati all’uso degli pseudonimi, quello che ci interessa è che le persone possano usare il nostro servizio come lo ritengono più opportuno”. Questa possibilità di differenziare la propria persona online da quella offline ci riporta quindi alla domanda da cui siamo partiti: ma è proprio vero che la nostra identità in rete è uguale a quella offline?

L’artista e studiosa di tematiche digitali Krystal South ha approfondito la questione già qualche anno fa nel suo saggio “Identify Yourself” dove pur ammettendo la progressiva fusione tra le due dimensioni ricordava le differenze di base che sarebbe assurdo non tenere più in considerazione. È la macchina stessa con cui ci connettiamo, sia questa un computer fisso o un cellulare, il primo grande grado di separazione tra il mondo reale e quello digitale. “L’interfaccia grafica delle macchine con cui oggi interagiamo maschera il proprio funzionamento attraverso delle metafore visive”. Questo stesso diaframma tecnologico, scrive sempre la South, è lo stesso che ci permette di chiedere un appuntamento a persone alle quali dal vivo non oseremmo rivolgere la parola o complimentarci con chi ci intimidirebbe fisicamente in un incontro faccia a faccia. Basta capolvgere l’esempio per verificare la vera natura dell’odio online: i tanti “leoni da tastiera” che ruggiscono davanti lo schermo si rivelano spesso semplici esseri umani impauriti, proprio come raccontato nel documentario di Kyrre Liean di cui abbiamo parlato. Continua la South: “Le nostre identità alternative, o alts, hanno lo scopo di permettere agli utenti di raggiungere obiettivi altrimenti irraggiungibili per le loro vere identità”.

A questo punto sembra che la scelta sia tra un internet più sicuro in cui l’anonimato è quasi scomparso (e in cui la nostra persona online coincide perfettamente con quella offline) e una rete più turbolenta che però ci lascia liberi di esplorare la nostra psiche rilasciando energie e possibilità che altrimenti rimarrebbero imbrigliate. Un’equazione semplicistica che l’artista Amalia Ulman ha messo in discussione con una serie di progetti a metà strada tra il digital marketing e la performance art. Tra aprile e settembre 2014 l’artista argentina si è presentata online come la classica “Instagram Girl” mettendo in scena nel proprio profilo una narrazione costruita a tavolino a partire dalla propria identità reale. La parabola è quella della ragazza di campagna che arriva in città e si fa ingoiare dal lusso e dalle tentazioni (compresa gravidanza e chirurgia plastica) per poi tornare pentita al punto di partenza. Uno storytelling che le ha permesso di accumulare più di 100.000 follower su Instagram. La performance intitolata Excellence&Perfection è stata una gigantesca presa per il culo ai danni degli utenti tesa a dimostrare quello che lei stessa ha definito un “glitch” dei social media, ovvero l’enorme discrepanza tra ciò che siamo e il modo in cui ci presentiamo online. Ogni nostra azione social è infatti irrimediabilmente manipolata e studiata a tavolino, spesso al punto da rendere le nostre attività digitali esplicitamente performative. Quante volte facciamo qualcosa solo perché la potremo raccontare online nel modo più adatto? Più Facebook ci impone di utilizzare il nostro vero nome e più diventa grande la menzogna che racconteremo a chi ci segue.

Ogni nostra azione social è irrimediabilmente manipolata e studiata a tavolino, spesso al punto da rendere le nostre attività digitali esplicitamente performative.

La Ulman ha dichiarato di essersi ispirata alle vicende reali dell’attrice Amanda Bynes, una delle tante celebrity il cui collasso e successivo ricovero sono stati raccontati in diretta sui social media per la felicità di hater e commentatori online. “Non sono state tanto le sue azioni a ispirarmi quanto la reazione delle persone a quel comportamento. È stata un’esperienza di trolling collettivo. Vedere qualcuno piangere ha unito le persone, non è tanto l’oggetto in sé quanto la vicinanza dei troll tra loro. Le tragedie altrui sono una potente connessione per le persone”.

A quanto pare siamo circondati dalla menzogna. Da una parte i buoni: noi utenti “reali” siamo quanto di più artefatto e studiato possa esistere. Dall’altra i cattivi: i troll e gli hater che sublimano online i dispiaceri della loro vita reale. Proprio quando la politica e la tecnologia sono unite nel voler imporre un certo grado di autenticità alla nostra esistenza online il traguardo sembra sempre più impossibile. Un’intuizione che, dispiace dirlo, ha messo correttamente in pratica Selvaggia Lucarelli quando durante la sua trasmissione radio chiama in diretta i suoi hater. Questi sentendosi aggrediti a loro volta in vivavoce fanno la figura degli agnellini incapaci di ripetere al telefono gli epiteti che distribuiscono generosamente online. Forse il peccato originale è nell’occhio di chi guarda: il nostro. Siamo noi a ostinarci a voler applicare una sola dimensione agli hater online appiattendoli nella figura degli ottusi con cui non abbiamo nulla a che fare. Facciamo lo stesso col nostro profilo personale in cui vogliamo apparire sempre e comunque vincenti. Quello di giudicare l’altro esclusivamente in base alle nostre aspettative è un errore umano ben più antico della rete. Dimentichiamo che l’identità è sempre molteplice e imprevedibile e a definirla è solo la relazione tra due o più soggetti.

È ancora Krystal South a spiegare perché sembriamo ostinarci a cercare proprio nella rete la cura ai malanni del nostro spirito e perché quando scegliamo di diventare violenti e aggressivi ciò desideriamo veramente è fuggire dallo spettro della solitudine. “Ho affrontato molte perdite personali chiudendomi in me stessa quando avevo la sensazione di non riuscire a controllare ciò che mi accadeva attorno. E a chi mi rivolgevo allora? Al computer, ad internet, all’informazione dove posso essere sola senza esserlo davvero, circondata da un’attività continua mentre siedo immobile e completamente isolata. Lo stesso istinto che spinge le persone sole a frequentare spazi pubblici ci ha portato a questo. La mia solitudine, evitando l’alienazione, mi conduce nel luogo aperto per antonomasia. Mentre qualcuno dice che la rete non fa altro che aggravare il nostro isolamento è qui che io invece trovo conforto, in questo spazio privo di oggetti ed infinito”.

Andrea Girolami
Giornalista e autore video ha lavorato per MTV e Wired Italia. Per Indiana Editore ha scritto il libro dedicato alla cultura digitale Atlante delle cose nuove. Pensa di essere un ottimo ballerino, ama fare il DJ ai matrimoni.

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