A forza di cercare la straordinarietà, i videogiochi spesso finiscono con l’essere noiosi. L’avventura grafica di Dontnod ha invece il coraggio di essere banale, e proprio per questo è la “serie” migliore del 2015.
Sono abbastanza sicuro che ogni prodotto della creatività umana si sviluppi attorno al fine ultimo di raccontare una storia: se si vuole tradurre in un’opera un determinato pensiero, la volontà ultima è quella di comunicare, anche solamente a se stessi, quel pensiero. Ciò detto, di tutti i media contemporanei, i videogiochi sono uno dei migliori per raccontare una storia; alcuni addirittura sostengono che lo storytelling digitale rappresenti il futuro della narrativa e titoli come Life is Strange, un’avventura grafica interattiva composta da cinque episodi e pubblicata nel corso del 2015 da Square Enix, tendono a convalidare una simile affermazione. Proprio oggi esce l’ultimo capitolo della stagione, quello che altrove si definisce season finale, e prima di dedicarmici è il caso di rivedere i motivi per cui questa serie è stata così apprezzata.
Chimere poligonali
Lo sviluppo di videogiochi è una disciplina che dispone di strumenti sempre più sofisticati e al tempo stesso semplici da utilizzare. Nonostante ciò, se per raccontare una pessima storia per iscritto l’unico “ostacolo” da superare è l’analfabetismo, creare un pessimo videogioco è – paradossalmente – un processo decisamente più lungo e complicato, che richiede una serie di concetti tecnici basilari imprescindibli. Se fare un brutto videogioco richiede impegno, quindi, figuriamoci farne uno bello. Noi, come utenti, siamo istintivamente consapevoli di queste difficoltà e, proprio per questo motivo, a lungo ci siamo accontentati e ritenuti soddisfatti quando in un videogioco sono stati portati agli estremi i limiti tecnici, glissando invece su quelli contenutistici.
Tuttavia, nel lungo periodo la crescente disparità di rapporti tra sofisticatezza tecnologica e grossolanità narrativa ha portato alcuni sviluppatori a cercare un nuovo equilibrio tra questi elementi. Nel farlo si è scoperto che stabilire un collegamento tra il destinatario della narrazione e i suoi protagonisti è più difficile che in passato: l’ostacolo maggiore consiste nel fatto che, per quanto le tecnologie rendano l’involucro di questi personaggi sempre più verosimile e convincente, spesso e volentieri ciò che vediamo muoversi sui nostri schermi è una sorta di chimera realizzata allo stato dell’arte dell’eugenetica poligonale: incredibilmente bella, sì, ma mossa da un’esistenza priva di anima e carattere. Per quanto possiamo restare affascinati dal contrarsi dei loro muscoli sintetici e dalla moltitudine di capelli che si snoda dalle loro teste, noi giocatori facciamo sempre più fatica a relazionarci con loro e a sviluppare empatia. Ma allora qual è la sottile linea che separa un freddo render in 3D da un “vero” compagno di avventure?
Stabilire un legame
Si tratta di una sorta di epifania, di un momento ben preciso in cui si deve decidere come rendere vivi dei modelli in computer grafica fino a quell’istante stipati in complicati database. Lo definirei teorema dell’empatia: una nuvolosa equazione composta da centinaia di fattori espliciti e impliciti che riesce, spesso grazie a colpi di fortuna, a restituire un risultato credibile che convince il fruitore dell’opera a calarsi in una volontaria sospensione dell’incredulità.
Attenzione, però: raccontare una storia non significa necessariamente dare una personalità ai suoi personaggi: per esempio, The Legend of Zelda, una delle saghe epiche più famose della storia dei videogiochi, ha risolto il problema alla radice privando il suo protagonista Link della parola, permettendo così al giocatore di potervisi immedesimare e lasciando al resto del gioco il compito di raccontare le sue gesta. Analogamente, Braid (un platform dalle sfumature oniriche) lascia che siano il suo stile grafico e i tratti delle illustrazioni a raccontare gli umori e gli intrecci della sua storia. E se Shadow of the Colossus, una delle punte di diamante del roster di Fumito Ueda, fa del rapporto visivo tra il protagonista e i colossi che incontra il principale mezzo per raccontare la sua storia, la saga di Left 4 Dead, un FPS pensato per il multiplayer, fornisce ai giocatori un impianto narrativo predefinito, ma affida alle abilità dei giocatori stessi il compito di raccontare la storia: non è infatti quest’ultima a decidere chi sopravvive o meno, bensì l’attitudine di chi controlla i personaggi.
Il teorema dell’empatia riesce, spesso grazie a colpi di fortuna, a convincere il fruitore dell’opera a calarsi in una volontaria sospensione dell’incredulità.
Al contrario, la saga di S.T.A.L.K.E.R., di GSC Game World, ha scelto di affidare la narrativa all’ecosistema di eventi che si sviluppa attorno al protagonista, dando la possibilità al giocatore di vivere la Zona liberamente, senza farsi limitare da eventuali compromessi stabiliti dal design del gioco.
Benché questi giochi appartengano a categorie molto diverse tra loro, essi sono accomunati da una cosa: tutti raccontano storie enormemente distanti dalla nostra realtà; una scorciatoia abbastanza banale per costringere il giocatore a non porsi domande sulla credibilità del mondo che gli sviluppatori creano. D’altronde quanti di noi si sono fatti un giro a Chernobyl con in braccio un fucile?
Il teorema dell’empatia
Life Is Strange è un’avventura grafica interattiva – simile alla rosa di titoli di Telltale Games – sviluppata da Dontnod Entertainment e pubblicata da Square Enix che, a differenza di tutti gli esempi precedentemente citati, racconta una storia piuttosto normale: Maxine Caulfield è una ragazza diciottenne che, dopo aver passato alcuni anni della sua adolescenza a Seattle, torna nella sua città natale, Arcadia Bay, per frequentare un prestigioso istituto privato, la Blackwell Academy. Al giocatore viene chiesto di guidare Max in una vita in apparenza prevedibile: l’intreccio infatti si compone di giornate scolastiche, bullismo, disparità sociali, storie di crescita personale e qualche dramma da cronaca di provincia. Nulla di particolare, se non fosse che nei primissimi minuti di gioco Chloe Price, un’amica di infanzia di Max persa di vista dopo il trasferimento a Seattle, viene minacciata (e in un primo momento ferita) con una pistola da Nathan Prescott, uno degli studenti più benestanti dell’istituto: è qui che Max scopre casualmente di poter riavvolgere il tempo, permettendole così di alterare gli eventi e di salvare Chloe.
Ciò che colpisce di Life is Strange è che si tratta di un videogioco assolutamente credibile, con dialoghi spesso non impeccabili ma che reggono la prova della solita volontaria sospensione dell’incredulità: com’è possibile? Come può una narrativa ambientata nella patria dei propri giocatori – gli ambienti scolastici – risultare così riuscita da convincere anche gli adolescenti, notoriamente i critici di videogiochi più spietati? Senza contare il fatto che la componente principale del gameplay, ovvero la capacità di riavvolgere il tempo, non aiuta nell’impresa: modificare il passato per ripetere dialoghi e riformulare decisioni rivelatesi particolarmente importanti potrebbe, alla lunga, “rompere” il gioco e far apparire delle falle logiche nella trama. Peggio ancora, basterebbe non far combaciare fluidamente le varie parti dei dialoghi per far crollare la verosimiglianza della produzione. Eppure, nonostante queste premesse e i rischi che ne derivano, ritengo che Life is Strange sia una delle opere narrative più riuscite degli ultimi tempi: è un videogioco capace di stabilire una connessione incredibilmente forte tra i personaggi della storia e il giocatore.
Il fattore Tumblr
Nel 2014 esce nei cinema di tutto il mondo Colpa delle Stelle, film tratto dall’omonimo romanzo di John Green. Due adolescenti malati di cancro si incontrano e si innamorano, affrontano mille peripezie pur di viaggiare insieme ed esaudire i loro desideri, finché, sul più bello, uno dei due muore. Terribile, in tutti i sensi: una produzione terribile e una vicenda terribile, tanto da farmi uscire dalla visione del film con gli occhi gonfi e lo stomaco accartocciato dal disgusto che provavo verso me stesso. Ci ero cascato: Colpa delle Stelle è un minestrone di riferimenti, occhiolini e simboli appartenenti alla mia generazione, che io, forse inconsciamente, avevo colto dal primo all’ultimo.
Ora: molti definiscono Life is Strange “il videogioco di Tumblr”. Si riferiscono a una piattaforma di blogging che ha prima alimentato e poi raccolto attorno a sé le frattaglie del fenomeno sociale hipster, incamerandolo infine in quella grossa Guantanamo chiamata internet; il risultato, a un primo impatto, è un’accozzaglia di aforismi, filtri Instagram, materiale tipicamente “indie”, sfoghi adolescenziali e comunità di supporto amatoriali per giovani affetti da disturbi di vario tipo. Che è un po’ la lista degli ingredienti di Colpa delle Stelle, e che in parte si ritrova anche in Life is Strange, ma, nonostante la premessa indichi l’opposto, ciò è ben lontano dall’essere un male. La verità è che il “fattore Tumblr” fa bene alla narrativa. La rende diplomatica, permettendole di interfacciarsi con il fruitore attraverso artefatti retorici che questi già conosce, e che lo toccano nel profondo perché già assimilati. Il “fattore Tumblr” non è tuttavia un’avanguardia e, anzi, sa di vecchio; un ‘vecchio’ famigliare e accogliente però, che, non dovendo essere a tutti i costi originale, riesce a sopravvivere senza eccessi. Difatti, quando nelle prime scene di gioco si rompe la Polaroid di Max quasi ci si spezza il cuore, anche se qualche anno fa il filtro Polaroid ci sembrava solo l’anticamera dello Stige.
È quindi chiaro che Dontnod ha in qualche modo applicato con successo questo benedetto teorema dell’empatia: lo testimonia il sottoscritto (che non si era più fatto prendere al cuore da un videogioco dai tempi di Papers, Please), i circa 13,000 iscritti alla subreddit dedicata al gioco, il milione di vendite sfondato a metà luglio e, infine, la titanica mole di contenuti relativi al gioco che vengono generati ogni giorno su Tumblr. Potrebbe quindi essere interessante cercare di analizzare alcuni dei fattori noti dell’equazione. Come riesce Life is Strange a raccontare così bene la sua storia?
L’ambientazione scolastica e la questione provinciale
Ho cominciato a giocare a Life is Strange di punto in bianco. Sentivo parlare del gioco da mesi, ma non mi ero mai spinto oltre quella manciata di artwork sparsi in rete; per questo, quando ho scoperto che la protagonista è una diciottenne complessata, accompagnata da altrettanti diciottenni complessati, tutti sbattuti all’interno di un istituto privato mandato avanti da personaggi oltremodo complessati, sono rimasto piuttosto stranito.
I Dontnod si erano appena ficcati in un guaio gigantesco: dovevano far passare per credibile a un (ai tempi) diciannovenne, la normalissima vita di un gruppo di diciottenni. In teoria non si può fare: l’ipotesi che si trasformi tutto in una disarmante pagliacciata stereotipata e autoreferenziale è talmente ovvia che sembra quasi ridicolo pensare che ci abbiano davvero provato. Bisognava trovare un modo per superare l’ostacolo dello stereotipo, perché chiunque, date le premesse, si sarebbe aspettato di interagire con un ambiente scolastico non credibile, come quello descritto da decenni e decenni di cinema, musica, libri e videogiochi troppo insicuri per permettersi di non esagerare. Il miracolo è che Life is Strange è un videogioco sviluppato in maniera consapevole, popolato da personaggi e idee nate avendo bene in mente chi avrebbe dovuto averci a che fare. Per fare ciò i Dontnod hanno portato le aspettative del giocatore agli estremi e le hanno soddisfatte. Forse non mi aspettavo una protagonista come Maxine Caulfield, nata il 21 settembre 1995 ad Arcadia Bay, Oregon: caschetto, lentiggini, timidezza e Polaroid. Un minestrone di banalità e cose già viste, ma proprio per questo spaventosamente reale.
È così che Life is Strange dribbla gli spigoli della nostra impetuosa volontà critica: ogni volta che ci aspettiamo che i Dontnod commettano un errore loro lo fanno, e nel farlo si intrufolano sempre un po’ più dentro di noi per riproporci quelle stesse scene, personaggi e dialoghi che negli anni abbiamo sempre accuratamente evitato, giudicandoli non credibili e lontanissimi da noi. Il mondo di Life is Strange è fatto di campanelle, classi, lezioni, bidelli, professori, presidi, gruppi rivali di amici, feste, dormitori, storie strappalacrime; è tutto così banale e poco originale da risultare convincente. O volete forse dirmi che i vostri anni al liceo sono invece stati davvero così singolari e incredibili?
Non si tratta di un assurdo colpo di culo, perché in Life is Strange la vita nella scuola si affianca a quella di Arcadia Bay: una versione riveduta e corretta di quella provincia americana che ci hanno venduto nei film, e che buona parte dei giocatori non ha di fatto mai vissuto. È qui che i Dontnod palleggiano con il loro fragile gioco di equilibri, ed è nella minuscola cittadina che sembra sollevarsi la foschia di irrealtà e magia che permetterà all’intreccio di svilupparsi.
In Life is Strange sono due gli universi che collidono: quello della Blackwell Academy, la scuola che riesce ad essere assolutamente verosimile grazie alla sua banale irrealtà, e la provincia di Arcadia Bay, viva, squisitamente americana e talmente reale da essere il teatro di tutti gli avvenimenti sovrannaturali del gioco. È questo binomio a permettere ai modelli in 3D che costruiscono il mondo di Life is Strange di sopravvivere all’innato scetticismo di noi giocatori e a convincerci a osservarli attraverso il filtro di una volontaria sospensione dell’incredulità.
Le tematiche
Ovviamente non basta un bel mondo di gioco per rendere Life is Strange quello che è, perché al netto degli equilibri mostrati dai Dontnod si tratta di un videogioco, e non di un render 3D da esplorare. Il teorema dell’empatia si concretizza grazie all’inanellamento di una serie di dettagli e di inezie tanto trascurabili singolarmente quanto fondamentali nell’insieme per far mantenere al giocatore la solita sospensione dell’incredulità. Per esempio, una componente chiave della narrativa di Life is Strange sono i messaggi che i vari personaggi si scambiano per telefono: gli SMS – o whatsappate, o telegrammate, o snapchattate o chiamateli un po’ come vi pare – sono un aspetto del mondo degli adolescenti che sembra essere molto distante da qualunque autore che superi i ventun’anni di età. È qui che il gioco ripropone ancora una volta i suoi equilibrismi: gli stereotipi portati all’estremo (dai miliardi di “xoxoxo” in coda a ogni messaggio, fino all’inglese storpiato di bruv, luv, mane e agli pseudonimi affettuosi come MAD MAX) riescono a superare lo scetticismo e a farci immergere completamente nelle storie che vengono raccontate sui cellulari dei protagonisti, fino ad aggirarci e, prendendoci alle spalle, farci ammettere che quel vocabolario è lo stesso che, di fatto, utilizziamo anche noi. È solo un po’ più variopinto, quel tanto che basta per non farci credere davvero che non fosse intenzionale.
Il coraggio di non esagerare
Resta da chiedersi dove, al netto di tutti questi stratagemmi, si trovi il contenuto. Gran parte della narrativa di Life is Strange dipende unicamente dallo svilupparsi delle peripezie dei protagonisti e, proprio in questo senso, le tematiche trattate non diventano motore della narrazione ma una guarnizione: necessaria ma, da sola, insufficiente. La maturità della produzione è rappresentata piuttosto dalla forma, dall’assenza del bisogno di strillare in faccia al giocatore che SÌ STIAMO PROPRIO PARLANDO DI DROGA E SESSUALITÀ. Benché entrambe siano tematiche centrali per la caratterizzazione dei protagonisti, né l’una, né l’altra vengono mai portate a inutili estremi. Nel primo caso, per la prima volta – a memoria – nella storia dei videogiochi, le sostanze stupefacenti sono trattate in maniera finalmente normale.
Non sono uno spauracchio, sfruttato nell’economia dell’intreccio per macchiare la reputazione di chi ne fa uso, ma una parte integrante e (in)cosciente della vita di una generazione di adolescenti ormai fuori dall’era della bigotteria novecentesca. Life is Strange sa bene che non può trattare tutte le sostanze allo stesso modo, e se da un lato le canne diventano una trascurabile nota di colore, dall’altra si dà dignità al restante universo delle droghe e si trova il coraggio di definire decine di sostanze con il loro nome reale, senza nascondersi dietro generalizzazioni nocive non solo al tema stesso, ma alla stessa sospensione dell’incredulità. È precisamente per questo motivo che in Life is Strange la marijuana continua ad essere un tabù per i personaggi adulti ma risulta del tutto indifferente ai giovani: tra gli adolescenti, nella realtà di tutti i giorni, il sensazionalismo per le sostanze le sostanze stupefacenti non esiste più; sono diventate parte integrante di un tessuto sociale specifico e i Dontnod lo sanno. Lo stesso trattamento è riservato anche alla sessualità di molti personaggi: per tutta la durata dei primi quattro episodi il rapporto tra etero, omo e bisessualità è costantemente instabile. Proprio come nella vita reale la sessualità viene vista come un aspetto effimero dell’individuo e che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, se non quando esplicitamente richieste.
Non si tratta di casualità. Gli espedienti narrativi forniti da due tematiche come l’omosessualità e la droga sono infiniti, ma la scelta è stata quella di non sfruttarli esplicitamente, il tutto a vantaggio di una maggiore credibilità complessiva dei personaggi. Il teorema dell’empatia passa anche da qui, e tanto maggiori sono le occasioni in cui il giocatore non ha bisogno di interrogarsi sull’effettiva verosomiglianza della messinscena, quanto più grande è il legame che si stabilisce tra ciò che c’è dentro e fuori lo schermo. Non vi è necessità di creare sospensione dell’incredulità, insomma, perché la linea che separa il videogioco dalla realtà consiste solamente dei poligoni che compongono ciò che è virtuale.
Il (non) effetto farfalla
Ora resta solo da chiedersi come se la cavi Life is Strange quando si tratta di essere giocato. Come spiegato, il titolo è un’avventura grafica interattiva che vive di una struttura di dialoghi ad albero; ogni momento chiave è potenzialmente ripetibile all’infinito grazie all’abilità di Maxine e, proprio per questo, ogni “snodo” dei dialoghi corrisponde a un differente intreccio narrativo. Ciò detto, come evitare che questa scelta di design appesantisca troppo l’esperienza di gioco? La soluzione adottata dai Dontnod è stata di virare su scelte di metagaming. Infatti, sappiamo tutti come funzionano questo tipo di videogiochi: proprio come nei test a crocette ci sono scelte completamente bianche, altre completamente nere e altre ancora colorate di una sfumatura tra i due colori. In Life is Strange, però, spesso gli snodi narrativi più importanti si confondono tra le centinaia di scelte in apparenza decisive, impedendo così al giocatore di conoscere in tempo reale quale sia la portata effettiva della propria decisione. A differenza di molti altri giochi dello stesso tipo, quindi, Life is Strange non concede suggerimenti, ma permette di ripetere le scelte.
Nonostante ciò, sommersi dalla valanga di possibilità offerte in ogni istante dal gioco, spesso l’abilità sovrannaturale di Maxine perde di importanza. Il cavalcare serrato dei dialoghi – non sempre troppo convincenti, unica nota negativa da riscontrare, ma è un compromesso che si supera senza particolari problemi – suggerisce al giocatore di non dare troppa importanza alla possibilità di ripetere le scelte, e l’immedesimazione prodotta da tutti gli elementi che abbiamo affrontato in precedenza permette di calarsi nella parte e di effettuare decisioni narrative credibili non solo all’interno dell’economia del gioco, ma anche a livello personale. “Cosa faresti se una tua compagna di classe stesse tentando il suicidio? Come proveresti a convincerla a non gettare la spugna in quel modo?”: questo è solo un esempio dell’eredità che il titolo Dontnod lascia al giocatore al termine di uno dei suoi episodi. Con ogni probabilità, Life is Strange lo segnerà in maniera talmente profonda che forse, per rispetto della narrazione stessa, non oserà tornare sui suoi passi per fare quella che nell’ottica videoludica sarebbe “la scelta giusta.”
Non so cosa sarà della storia di Maxine e Chloe, non so se i Dontnod riusciranno a soddisfare le aspettative di un milione di giocatori. Cosa so per certo è che, comunque vada, Life is Strange è uno degli esempi di narrativa digitale più riusciti degli ultimi anni, e lo è grazie ad un salto nel buio, un azzardo che molti sviluppatori non hanno il coraggio di fare: è un videogioco che ha osato essere intrinsecamente banale. Così banale da risultare spaventosamente reale.
Classe 1995, nato a Torino, in mano solo un diploma classico. Ora vive a Milano per scrivere cose per Motherboard e VICE Italia. Molti anni fa ha fondato The Shelter e ha una newsletter settimanale chiamata NEWSLEGGER. È un tipo tutto sommato ok.