Perché gli uomini credono di poter spiegare tutto alle donne? Le conseguenze del mansplaining nella società, il femminismo e l'industria culturale italiana.
A luglio ero alle Pause, un locale striminzito incastrato in una perpendicolare di corso Buenos Aires a Milano, dove fanno il gin tonic con zenzero, cetriolo e una spolverata di pepe e dove vado sempre con il mio amico L. C’ero arrivata dopo un giorno di prove sotto al sole, per una performance in un giardino abbandonato, dopo aver scavalcato tre cancelli e aver perso una piccolissima chiave in uno spiazzo di erbe infestanti. Mi ero sfilata il costume sudato davanti a tutti e avevo indossato i vestiti che mi ero portata dietro in una tote bag. Mi ero cambiata le scarpe in metro perché il primo tratto di strada, dalle Colonne al Duomo, l’avevo fatto correndo. I miei genitori non sapevano neanche in che città fossi.
Ripensando a tutto questo, mentre bevevo finalmente il mio gin tonic come un colonialista inglese spaventato dalla malaria, ho realizzato di aver ricevuto un’educazione profondamente liberale, un’educazione che non faceva differenze tra maschio e femmina. Ed è stato in quel momento—più o meno a due terzi del bicchiere Ikea col fondo spesso—che mi sono resa conto di non aver ricevuto affatto un’educazione. Improvvisamente avevo bisogno di condividere questa scoperta. Gli uomini e le donne non sono uguali. Stupore. L’ho scoperto a venticinque anni. Meglio tardi che mai, direte. Ragazze, non credetegli, non credete ai liberali. Ho scritto, ho cancellato, ho sbrodolato, mi sono arrabbiata, mi sono stancata, ho riscritto tutto. Ho raccolto alcune lettere maiuscole. Non tutte appaiono in questo pezzo.
Perché allora mi ero fatta zittire? Perché avevo dubitato di una cosa che sapevo? Mi chiesi anche perché nessuno mi avesse difesa, e perché T mi avesse deliberatamente attaccata senza sapere ciò di cui stava parlando.
T suona in orchestre italiane e internazionali, ha lavorato tanti anni con Claudio Abbado. A una cena è scoppiato a ridere quando ho citato “Je suis l’Empire à la fin de la décadence”. “Perché ridi?”gli ho chiesto. “Perché è sbagliato”. Avevo vent’anni, forse meno. Tutti hanno riso, nessuno ha fatto domande. Eppure non mi sembrava di aver sbagliato. Al liceo era una delle mie citazioni preferite, ma magari avevo bevuto troppo. Ho abbozzato un sorriso e non ho più aperto bocca. Appena sono arrivata a casa (allora non c’erano gli smartphone) ho controllato. Era giusto. Perché allora mi ero fatta zittire? Perché avevo dubitato di una cosa che sapevo? Mi chiesi anche perché nessuno mi avesse difesa, e perché T mi avesse deliberatamente attaccata senza sapere ciò di cui stava parlando. Così glielo chiesi, e la risposta fu: “Mi suonava strano, non pensavo che Rimbaud potesse aver detto qualcosa del genere”. Infatti non lo ha detto: la frase è di Verlaine.
Questa pratica del “lascia che te lo spieghi io” è così diffusa sul globo da essersi guadagnata un nome: mansplaining. Urban Dictionary lo definisce così: “Originally, this term was used to describe boorish men who felt the need to ‘correct’ what a woman said, even on topics that the man didn’t know anything about. However, the term quickly degenerated into a get-out-of-jail-free card used by angry women when a man dares to point out even the most blatant error”.
Rebecca Solnit lo descrive come un atteggiamento che nasce da overconfidence e cluelessness, eccessiva sicurezza di sé e mancanza d’immaginazione, previsione, dubbio, sospetto. E proprio nel saggio Men Explain Things to Me—che ha ispirato la nascita del termine—racconta un episodio molto simile a questo successo a me, ma di cui qualsiasi donna ha un’ampia raccolta a disposizione.
A friend spotted this in Texas: #Mansplaining The Statue. pic.twitter.com/87RkAkuLcI
— Cathy de la Cruz (@SadDiego) 22 Maggio 2015
Tutti gli amici a cui ho accennato dell’idea di questo articolo hanno commentato: “Ah, ma è un articolo brucia-reggiseni”. E io ho risposto: “No, sarà al massimo un misero falò di cazzetti”. Le amiche, invece, erano prevedibilmente entusiaste. Per la maggior parte degli uomini (ma ci sono anche esempi positivi, come quello di Giorgio Fontana che ha scritto questo bell’articolo) il problema non esiste, è una cosa da ridere—non come le loro angosce cosmiche, la morte, le nevrosi—roba per femmine incazzate, femmine che non scopano e che comunque fanno fatica a tenersi un uomo vicino. Rompicoglioni, insomma.
Come ha scritto qualche tempo fa Dayna Evans qui, è facile che una donna si senta dire: “Dai, dimmi qualcosa di interessante”. Oppure, come fosse un complimento: “Sai che non hai mai detto niente che mi annoiasse?”. Grazie, davvero. Chi direbbe a un uomo messo alle strette in una discussione “Hai bisogno di un chilo di zucchero?”. Nessuno dopo uno scontro dialettico sulla libertà di espressione se ne uscirebbe con un “Ma tanto tu hai il cazzo moscio”, mentre una donna sarà automaticamente frigida. Questo succederà più e più volte nel corso della sua esistenza e avrà delle ricadute pesanti sulla sua autostima e sulla percezione che ha di sé, sui limiti che si pone e sulle certezze che ha, e per quanto una reagisca, si armi di senso dell’umorismo e delle sue disperate risorse culturali, dopo un po’ diventerà un’angry young woman. O più facilmente: queste infinite situazioni finiranno per farla diventare una donna debole.
Quest’inverno ho regalato un libro a G. L’ho comprato al volo in una libreria di Torino che si chiama Giunti al punto (ah ah) mentre andavo a prendere il treno a Porta Susa. G lavora in ambito editoriale, parla fluentemente tre lingue ed è stato in almeno quattro continenti. Mentre lo scartava decise di indovinare chi fosse l’autore del libro. Scrittori tedeschi, francesi, americani, contemporanei o di inizio novecento che fossero non disse nemmeno il nome di una scrittrice. Neanche dopo averlo aiutato dicendogli che era canadese e aveva vinto il Nobel.
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“Hai visto la mappa?” mi chiedevano tutti a Ferragosto. Apparso prima su Linus e poi su minima&moralia, l’articolo “Un casino immenso” a cura di Valerio Mattioli e Raffaele Alberto Ventura ha risuonato, com’era da aspettarsi, quasi esclusivamente nel piccolo mondo antico dell’editoria. La cosa più interessante di questa mappa degli arcipelaghi del capitale simbolico è che in realtà non c’è un solo nome di donna, come è stato fatto notare. Ogni interpretazione sarà di per sé una selezione, sì, ma com’è possibile che nemmeno Soft Revolution o Abbiamo le prove siano stati citati? O, per citarne due tra le tante, Martina Testa e Chiara Valerio?
Queste omissioni non sono sempre capziose: poiché la quasi totalità delle esperienze cartacee e web inserite ha a capo uno—o due—uomini, è chiaro che le intellettuali possono comparire solo in qualità di collaboratrici, e se non vengono citate per una questione di attinenza con la realtà, è pur vero che ne sono in parte responsabili. Molte autrici sono cresciute facendoci l’abitudine. D’altronde com’è possibile sistemare questa disparità? La soluzione non è data certo dalle quote rosa, che per molte risultano quasi offensive.
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A quanto pare, uno scrittore ha più possibilità di pubblicare o almeno di ricevere una risposta dagli editori rispetto a una scrittrice. Lo dimostra un esperimento di Catherine Nichols. In Italia la maggior parte degli scrittori (emergenti e non) sono uomini. Mentre i lettori, o sarebbe meglio dire le lettrici, sono per la stragrande maggioranza donne. E non credo sia perché le donne preferiscono ascoltare storie piuttosto che narrarle.
La questione è chiara: gli uomini detengono oggettivamente il potere intellettuale e di conseguenza sono loro che scelgono di cosa parlare.
Nella redazione di Nuovi Argomenti ci sono 16 uomini e 5 donne (ma evidentemente il sito non è aggiornato dato che io di donne ne ho contate 8 e nell’elenco c’è ancora Francesco Pacifico). minima&moralia tra i suoi collaboratori conta 83 uomini e 19 donne, mentre Studio 149 contro 67. La proporzione a Prismo è di 52 a 18 (19 contando me) e hanno fatto parte di Nazione Indiana, dagli albori a oggi, 45 uomini e 19 donne. La redazione di Doppiozero invece sembra più bilanciata: 5 uomini e 6 donne. Nell’antologia di minimum fax L’età della febbre il numero di scrittori e scrittrici è ragionato (6 donne e 5 uomini) e contribuisce ad avere uno specchio forse un po’ meno distorto del contemporaneo. Ma nell’antologia precedente (La qualità dell’aria, 2004) si contavano 16 uomini a fronte di 4 donne. La questione è chiara: gli uomini detengono oggettivamente il potere intellettuale e di conseguenza sono loro che scelgono di cosa parlare.
Nel 2011 nasce Soft Revolution, “una rivista femminista per ragazze (ma anche per il resto dell’umanità)”, perché gli uomini sono pur sempre alleati fondamentali. Le donne, però, hanno impostato la discussione altrove, creando uno spazio tutto per sé, un’enclave che può far venire il sospetto che questo sia il modo più semplice, o meno violento—anche dal punto di vista dei compromessi in gioco—di esprimersi. Vale qualcosa di simile per Abbiamo le prove. Sembra che le donne abbiano un certo bisogno di aree protette, anche quelle che dovrebbero darsi una calmata, prime fra tutte quelle.
C’è un po’ di stanchezza nel sentir parlare di scrittura femminile. Le scrittrici tendono a identificarsi prima nella categoria scrittori e solo in un secondo momento in quella di donne.
Una mia amica usciva con un ragazzo. Al secondo appuntamento lui le disse: “Però io non so se voglio una storia seria, devo pensare a scrivere il mio romanzo”. Scrivevano entrambi, stavano lavorando entrambi a un nuovo libro. Perché lui aveva dato per scontato che lei volesse una storia? E se fosse stata lei a dirgli che l’arte veniva prima dell’amore? Jenny Offill in Sembrava una felicità scrive: “Il mio piano era non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli”. La sindrome del Come Vera Nabokov, a quanto pare, è più diffusa del previsto.
Il punto è che a parte Deborah Dirani—che sull’Huffington Post si definisce “Donna, prima. Giornalista, poi”—c’è un po’ di stanchezza nel sentir parlare di scrittura femminile. Le scrittrici tendono a identificarsi prima nella categoria “scrittori” e solo in un secondo momento in quella di “donne”, così come i biologi o i baristi eccetera eccetera. Io sono la prima a non pormi il problema di genere quando leggo un libro o un articolo, eppure evidentemente c’è, se le donne continuano a essere considerate come una sorta di paradiso fiscale nel globo posticcio del potere culturale. Come scrive Costanza Jesurum qui: “C’è un problema che il femminismo alle volte esaspera piuttosto che risolvere e che ha a che fare con la coniugazione della sessualità con il resto dell’identità”, ma direi che ormai sia un’esasperazione comune.
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Spesso non è tanto una questione di genere, quanto di potere. M, avvocato, ha provato a giustificarla così. Al capo (sia esso maschio o femmina) interessa soprattutto mantenere il controllo. Il maschio servirà nel migliore dei modi il sistema sperando di ottenerne qualcosa in cambio. La femmina, invece, servirà nel migliore dei modi il sistema fino a raggiungere una posizione che le permetta di metterlo in discussione e sostituirne il capo. Per questo anche le donne, una volta raggiunto un ruolo di comando, si circondano prevalentemente di maschi, perché i maschi creano sistemi più stabili. Così le donne sono paradossalmente discriminate sia dagli uomini che dalle donne stesse. Questa storia, però, non sembra trovare nessun fondamento biologico. Quel che sappiamo è che in natura, prima tra tutte, vige la legge del do ut des: chi è in posizione di debolezza, perché ha bisogno di ottenere qualcosa (sia maschio o femmina), serve il sistema. Vi sembrerà strano, ma le mestruazioni non c’entrano.
Qualche anno fa, consultandomi con un compagno di corso a proposito di un problema strutturale abbastanza complesso del progetto a cui stavamo lavorando, mi fu chiarissima questa attitudine. Il mio amico fissò per qualche minuto la pianta e gli alzati, poi disse: “Sta su”. “Ma come? Puoi spiegarmi perché?” gli chiesi, pensando che mi fosse sfuggito qualcosa. “Sta su perché lo dico io. E dovresti dirlo anche tu”. Evidentemente la retorica funziona anche in campo scientifico. Ma per fortuna, pensai, non sono gli architetti ma gli ingegneri a firmare le analisi strutturali e a prendersi la responsabilità di carichi e crolli—e spero siano ingegneri donna.
È più facile che una donna inizi un discorso mettendo sul tavolo la possibilità del dubbio, la parzialità della sua esperienza, e quindi la relatività del suo intervento. Peccato che i sociologi abbiano dimostrato che gli esseri umani adorino le certezze, anche se sono spesso controproducenti. The zero-risk bias. In genere un uomo farà di tutto per dimostrare l’assolutezza della sua posizione, per quanto momentanea. L’uomo parla per imporsi, per sbarazzarsi degli eventuali avversari e schiacciare le loro obiezioni. L’uomo cresce con l’obbligo di dimostrare fin dall’inizio il suo ruolo di maschio alfa. L’uomo parla e vuole avere ragione, e si convince di averla, perché è l’unico modo per convincere gli altri, l’uomo non parla per comunicare, ma per imporre agli altri la sua visione del mondo, e questo—per rimanere in tema di generalizzazioni biologiche—accade perché il fallo è impenetrabile. Wow, l’ho scritto davvero. Come si dice in Effetto notte: “Un regista è uno a cui vengono fatte in continuazione domande. Domande su qualsiasi cosa. A volte lui sa la risposta, a volte no”. Quando non la sa la inventa. Diremo che siamo tutti potenzialmente registi, ma statisticamente agli uomini viene meglio. Anzi, viene di più.
Per arginare questo problema di auto-sabotaggio linguistico le donne da qualche giorno possono avvalersi di Just Not Sorry, un plug-in per Gmail creato da Tami Reiss, CEO di Cyrus Innovation (che vanta di essere la compagnia di sviluppo software preferita dalle imprenditrici). Una volta scaricato, Just Not Sorry segnerà in rosso parole come “scusa”, “credo che”, “non sono un’esperta” e “non vorrei sbagliarmi”. L’estensione a quanto pare si ispira ai precetti esposti nell’ultimo libro di Tara Mohr: Playing Big, che a una prima occhiata sembra uno di quei libri tristi di self-help che si trovano nei cestoni di Mediaworld a Natale, ma a quanto pare c’è bisogno anche—soprattutto—di questo.
Non bisognerebbe parlare di femminismo, quanto di anti-femminismo. Le donne crescono leggendo uomini, studiando quello che hanno fatto gli uomini, prendendo come modello gli uomini, e tutto per una questione storica e percentuale. In realtà alle donne piacciono tanto gli uomini, così tanto da identificarsi con essi creando una strana idea di parità distorta. Infatti quando ci riescono vengono punite, o si rendono conto di aver perso qualcosa nello sforzo dell’impresa.
F, il mio amico giornalista, dice che l’argomento di questo pezzo non gli interessa. “Come mai?” gli chiedo. “Perché non è possibile trattarlo senza fare generalizzazioni”. D’accordo. Ma allora è meglio non parlarne? Come dice Solnit, è un problema di mancanza di immaginazione, visto che neanche gli uomini con un alto capitale incorporato—dotati di schemi cognitivi sofisticati— hanno l’energia e la voglia necessaria non solo per immaginare un modo diverso di comportarsi, ma anche solo per riconoscere l’esistenza di questo problema. Nessuno parla di una minoranza a cui non appartiene, nessuno lotta per una minoranza a cui non appartiene: per questo le donne parlano di donne. Solo che le donne non sono una minoranza.
Nata a Modena nel 1989, si occupa di editoria, comunicazione e arti visive. Ha studiato architettura a Ferrara, Porto e Berlino. Ha scritto per Artribune, Flash Art Italia e Filmidee ed è autrice del reportage Exit (Hacca, 2015). I suoi racconti sono stati pubblicati su Abbiamo le prove, Cadillac e Inutile. Vive soprattutto a Milano.