Alle origini dell'accelerazionismo: la storia della CCRU e un'intervista a Nick Land, suo co-fondatore.
Warwick, Inghilterra, anni ’90: Nick Land e la Cybernetic Culture Research Unit
di Valerio Mattioli
Iniziare con gli indovinelli non è mai cosa elegante, ma facciamo un’eccezione e quindi lasciate che vi ponga la seguente domanda: cosa hanno in comune i seguenti personaggi?
– Steve Goodman in arte Kode9, musicista elettronico padrino del dubstep grazie alla sua etichetta Hyperdub.
– Ray Brassier, filosofo nichilista di cui tante volte qui si è parlato, e non solo perché al suo Nihil Unbound si sono ispirati tanto Thomas Ligotti quanto il Nic Pizzolatto di True Detective.
– Luciana Parisi, teorica dei media italiana da tempo alla Goldsmiths University di Londra.
– Hari Kunzru, romanziere autore tra gli altri de L’imitatore, da noi pubblicato da Einaudi.
– Kodwo Eshun, scrittore, artista, teorico a cui si devono alcuni dei più importanti studi sull’estetica e il pensiero afrofuturista.
– Mark Fisher, cultural critic che per primo applicò il concetto di hauntology alla musica pop, e autore di saggi come Capitalist Realism e Ghosts of My Life.
E mi fermo qui anche se la lista potrebbe andare avanti. Comunque. La risposta alla domanda è molto semplice, anche se è probabile che dirà poco ai lettori italiani: tutti loro, negli ormai lontani anni ’90, furono affiliati alla misteriosa CCRU, la Cybernetic Culture Research Unit che semiclandestinamente operava ai margini dell’università di Warwick, Inghilterra. A capitanarli e soprattutto ispirarli, un personaggio su cui torneremo a breve: il visionario, infaticabile, controverso filosofo Nick Land, che trovate pure intervistato in coda a questo articolo nel caso vogliate arrivare subito al punto (ma vi avverto: auguri).
Cos’era dunque, questa CCRU? A seconda delle interpretazioni, potremmo descriverla come un semplice gruppo di studio interdisciplinare, oppure una banda di ricercatori particolarmente intrepidi, oppure una setta, o addirittura una cospirazione. All’epoca venne interpretata come poco più che una nota di colore nel contesto della nascente internet culture anglofona, una specie di negativo avariato del tecno-ottimismo neolib di riviste come Wired; ma a posteriori, si è trattato di una delle esperienze più influenti sull’odierno dibattito politico-filosofico.
È infatti in seno alla banda di Warwick che vennero gettati i semi di almeno due filoni particolarmente fortunati degli anni 2000: da una parte il cosiddetto realismo speculativo di filosofi come, oltre al già citato Ray Brassier, l’altro inglese Iain Hamilton Grant, anche lui a suo tempo allievo di Land. Dall’altra, quella corrente che del realismo speculativo può essere interpretata come il naturale esito politico: il famigerato accelerazionismo di cui tanto si è parlato da almeno un paio d’anni a questa parte (quasi sempre a sproposito, ma un giorno forse ci ritorneremo. Era una nota polemica, avete capito bene).
La CCRU venne fondata a Warwick nel 1995 per iniziativa di Sadie Plant, all’epoca astro nascente del cyberfemminismo inglese e autrice di un testo seminale come Zeros + Ones: Digital Women + The New Technoculture. Quando nel 1997 la Plant lasciò Warwick, il gruppo di ricerca passò sotto la guida del suo ex compagno Nick Land, che a Warwick insegnava da qualche anno e che già godeva di una fama “problematica”. È con Land che la CCRU si trasforma in un inclassificabile esperimento in cui far convivere Gilles Deleuze e musica techno, Lovecraft e teorie del caos, William Gibson e biologia molecolare, esoterismo “nero” e numerologia sotto MDMA. Delle eccentriche trovate di Land e compagni, si dice poco oltre. Per il momento, basti sapere che l’Accademia reagì con proverbiale sbigottimento misto a orrore bello e buono: non solo la Warwick University si affrettò a negare la stessa esistenza, nei suoi corridoi, di una “fantomatica unità di ricerca sulla cultura cibernetica”, ma lo stesso Land fu di fatto obbligato ad abbandonare la sua posizione in seno all’università già nel 1998.
Poteva capitare che Land si stendesse per terra facendo finta di essere un serpente, parlando una lingua che pareva venire da qualche invocazione a Cthulhu; oppure che un banale seminario sulla nuova filosofia francese si trasformasse in un happening sciamanico in cui dagli speaker veniva sparata violentissima drum & bass.
Dov’era lo scandalo? Perché la CCRU e in particolar modo la figura di Land divennero, nel composto ma non ingessato ambiente accademico di fine anni ’90, una presenza “scomoda”? Un primo indizio lo danno le descrizioni degli incontri organizzati da Land e soci all’epoca, non esattamente in linea con le sobrie abitudini di una lecture. Non tanto perché ai banchetti trovavi magliette su cui il logo di Dolce & Gabbana veniva modificato in Deleuze & Guattari (che D&G fosse anche il logo di una pasticca molto in voga ai rave parties, non doveva essere casuale), quanto per gli atteggiamenti degli stessi lecturer sul palco. Per dire: poteva capitare che Land si stendesse per terra facendo finta di essere un serpente, parlando una lingua incomprensibile che pareva venire direttamente da qualche invocazione a Cthulhu; oppure che un banale seminario sulla nuova filosofia francese si trasformasse in un happening sciamanico in cui dagli speaker veniva sparata violentissima drum & bass versante darkside, mentre i relatori blateravano di argomenti incomprensibili tipo “qwertropology” (dalla tastiera QWERTY), “materialismo gotico” e “traumi geocosmici”.
Non che Land in particolare fosse un tipo dai modi particolarmente “maledetti”: ma certo, quando uno comincia a riferirsi a se stesso come a un’entità collettiva di nome – a seconda dei casi – Cur, Vauung o Can Sah, persino le unghie lunghe del suo beniamino Deleuze fanno la figura di un banale vezzo borghese. “Davvero pretendeva di essere tornato in vita dalla morte?”, si domandava ancora qualche tempo fa Robin Mackay, fondatore di Urbanomic e anche lui ex allievo di Land; “davvero pensava di essere un androide spedito dal futuro per mettere fine alla ‘sicurezza umana’ [human security]?”.
Aneddoti del genere rischiano di dipingere Land come un ciarlatano (cosa che, a dire il vero, in molti pensano tuttora) e i suoi seguaci come un branco di studenti beoni più interessati a sballarsi che a qualsivoglia titolo di studio. Ma bisogna ricordare che la CCRU era anche un chiaro sintomo dei tempi: quegli anni ’90 in cui la nuova cultura cyber e la canonizzazione del Deleuze-pensiero sembravano fare da naturale sponda a fenomeni come, oltre al solito binomio techno/rave parties, il cybperpunk e gli ultimi aneliti della apocalypse culture di marca industriale. Per fare un esempio a noi vicino: quanto accadeva dalle parti del dipartimento di filosofia di Warwick, non era poi così distante da quello che, negli stessi anni, succedeva nelle aule della facoltà di sociologia della Sapienza di Roma, da cui non a caso mossero esperienze “estreme” come la rivista Torazine o il pranksterismo acido degli “ufologi radicali” e del Luther Blissett romano (parente ma distinto da quello bolognese: avremo modo di parlarne).
Il vero scandalo però, era che le performance di Land e seguaci non erano banali provocazioni, ma il logico esito di una serie di ragionamenti ad ampissimo raggio forse indigesti, forse pure un pizzico allucinati, ma ugualmente rigorosi e seri. Principale obiettivo della cricca era quello che sempre Land chiamava “human security system”, e cioè quel bagaglio di convenzioni e stratificazioni sociali che imprigionano il pensiero all’interno di una griglia “normalizzante”, tale da inibire la naturale tendenza del pensiero ad andare fuori, superare i propri limiti e in questo modo emanciparsi da un antropocentrismo nefasto. Quello di Land, suggerisce di nuovo Mackay, era “an experiment in Inhumanism”: il tentativo di rimettere in discussione i legami culturali, familiari e in ultima istanza biologici dell’essere umano in quanto tale.
Ecco, nei romanzi cyberpunk di William Gibson, nei ritmi distopici della drum & bass, nell’horror cosmico di Lovecraft, persino nell’arbitrarietà alfanumerica del sistema QWERTY, Nick Land individuava i segnali di un antiumanismo apocalittico e al contempo liberatorio che le rivoluzioni tecnologiche degli anni ’90 stavano improvvisamente accelerando, e al quale opporsi era non tanto inutile, quanto impossibile e finanche deleterio.
Questo perché l’antiumanismo alieno della quarta rivoluzione delle macchine, non era solo un’ipotesi di futuro forse plausibile ma comunque di là da venire: era al contrario il futuro che già operava nel presente. Era come se tutto fosse già successo: in un futuro non troppo lontano, avvertiva Land citando Blade Runner, “i replicanti (…) emergono dal loro camuffamento per rovesciare lo human security system. Orfani letali provenienti da ciò che sta dopo la riproduzione, sono armi intelligenti del desiderio macchinico infiltratosi come un virus nelle fasi finali dell’ordine organico; invasori provenienti da una morte artificiale”.
Il ragionamento è figlio di quella che resta la formulazione teorica più famosa del filosofo inglese: il concetto di iperstizione (hyperstition), descritto da Land come un “elemento di cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo”. L’astrusa definizione indica quei fenomeni culturali immaginari che una volta enunciati riescono a condizionare il corso degli eventi, in questo modo realizzandosi reatroattivamente. Per fare un esempio di quelli cari alla CCRU: quando William Gibson in Neuromante (1984) espone la sua idea di cyberspazio, nulla del genere esisteva in realtà. Ma per dirla con le parole di Land, “l’idea fittizia di cyberspazio contribuì al flusso di investimenti che in breve tempo l’avrebbero trasformato in una realtà tecnosociale”. Come ricordano Ray Brassier e Robin Mackay nell’introduzione alla raccolta Fanged Noumena, il cyberpunk era per Land una “macchina testuale che interveniva sulla realtà intensificando le anticipazioni del suo futuro”.
Per certi versi l’iperstizione è una profezia che si autoavvera, per altri ha molto in comune con l’originaria definizione di meme, per altri ancora è simile a quel fenomeno tutto culturale che chiamiamo hype. Recita un testo CCRU di fine anni ’90: “L’hype fa effettivamente succedere le cose, usando la fede come forza positiva. Solo perché una cosa non è ‘vera’ adesso, non vuol dire che non lo sarà in qualche punto del futuro. E una volta che diventa reale, è come se lo fosse sempre stata”.
L’iperstizione funziona di fatto come un sigillo magico (si spiega così la passione di Land e compagni per la tradizione magico-occulta dei vari Aleister Crowley e Austin Osman Spare): una volta “calata” nella realtà, si attiva in modo da piegare la realtà all’iperstizione stessa. Tecnicamente, è il futuro che interviene sul presente, indirizzandolo ai propri fini. Un altro esempio ancora lo fornisce Mark Fisher commentando le recenti ossessioni sulla “sicurezza” abbondantemente utilizzate dai partiti politici della destra non solo inglese: “La sicurezza è essenzialmente iperstizione: aumenta immediatamente la capacità di agire, la capacità di agire aumenta la sicurezza, e così via, in una specie di (…) spirale virtuosa”.
Tecnologie avanzate evocano antiche entità; la voce umana si disintegra nell'urlo del trauma cosmico; la civiltà sfreccia in direzione della morte artificiale.
Infine, le iperstizioni agiscono come virus e catalizzatori del cambiamento: una volta messe in moto, e una volta che le loro premesse puntualmente si verificano, non solo la loro esistenza viene rinforzata, ma gli stessi cambiamenti prendono a realizzarsi in maniera sempre più rapida, producendo effetti imprevisti. È insomma un tipico meccanismo di feedback positivo, il cui fine ultimo è… be’, l’apocalisse, il caos finale, la singolarità che di umano non prevede più nulla. La traiettoria è già individuata perché nella natura delle cose, al punto che Land ricorre a contorte teorie “geotraumiche” che dai primi batteri apparsi sul pianeta portano diritte a Microsoft: l’ignoto, l’alieno, sono il naturale esito di un processo messo in moto miliardi di anni fa quando forze cosmiche troppo grandi furono costrette in forme organiche e inorganiche che di quell’impatto ancora subiscono il trauma. Questa stordente altalena tra fascinazione per l’evo tecnologico e un certo irrazionalismo primordiale, è tipica di Land. Per dirla sempre con Brassier e Mackay, “tecnologie avanzate evocano antiche entità; la voce umana si disintegra nell’urlo del trauma cosmico; la civiltà sfreccia in direzione della morte artificiale”.
È dunque tenendo presenti queste premesse che va letto il principale oggetto studio di Land, l’iperstizione ultima e definitiva che a ritmi sempre più sostenuti ci porterà alla disintegrazione finale: il capitalismo. Per Land, “il capitalismo incarna la dinamica iperstizionale a un livello di intensità ineguagliabile e senza precedenti, trasformando delle banali ‘speculazioni’ economiche in una forza motrice del mondo”.
Detta in altri termini: la logica espansiva del capitalismo, la sua continua rincorsa alla crescita, la sua economia “del desiderio” e il suo stato di “crisi perenne”, sono tutti ingredienti che spingono in direzione di quel collasso – “meltdown” – che renderà l’essere umano una presenza inutile e obsoleta. E quindi meccanizzazione, automazione, ingegnerizzazione del corpo umano, artificializzazione del pianeta, altro non sono che indizi di quella singolarità che, abbiamo visto, è già accaduta nel futuro, e che nel presente spinge in direzione del suo naturale compimento a passi vieppiù veloci. “Neo China arrives from the future”, recita uno dei passi più noti del suo testo-manifesto del 1997, chiamato giustappunto Meltdown: il gigante cinese che a partire dagli anni ’90 imbocca la strada di un capitalismo selvaggio ultratecnologizzato, catapulta nel presente i destini di un pianeta in cui l’umanità è chiamata all’annichilimento totale.
Il fatto però, è che per Nick Land (o almeno per il Land degli anni ’90) il capitalismo è figlio di un compromesso. Da molti punti di vista, è una forza quintessenzialmente emancipatrice, la cui azione di sintesi ribalta tutti i costrutti culturali che siamo abituati ad associare alla “conservazione”: i nazionalismi franano sotto il peso degli scambi commerciali; i fenomeni migratori, l’internazionalizzazione dei mercati, la deregolamentazione, la crisi del patriarcato, erodono le tradizioni obbligando a ripensare i rapporti di genere, razza e classe. Solo che il capitalismo si attua proprio ribadendo quegli stessi steccati che pure la sua azione tenderebbe a far saltare: stati-nazione, dinamiche di potere, apparati militari, gerarchie sociali, sono gli inamovibili assunti su cui continua a reggere il tecnocapitalismo globale, senza tenere conto delle enormi ingiustizie che storicamente si accompagnano a quello che un tale definì a suo tempo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Come risolvere la contraddizione?
È qui che Land introduce due concetti che da allora restano tra i suoi più controversi: l’idea di intensificare i meccanismi alla base del capitalismo stesso; la spinta ad accelerarne gli effetti al fine di dispiegare in pieno le potenzialità di un sistema che, esattamente come le forme organiche in cui ancora viene conservato il primigenio “trauma geocosmico”, viene inibito dai suoi limiti congeniti.
In realtà, sull’argomento Land ha espresso nel tempo posizioni diverse e in ultima analisi contrastanti, anticipando la spaccatura che in tempi recenti si è venuta a creare tra accelerazionisti “di sinistra” e accelerazionisti “di destra”. Per i primi, i limiti di cui sopra sono il capitalismo: per dispiegare a dovere le forze latenti che muovono in direzione dell’emancipazione totale, bisogna quindi sottrarle al cattivo uso che ne fa il capitalismo in un incredibile spreco di risorse, intelligenze ed energie; per gli accelerazionisti “di destra” invece, questi limiti sono il segno che il capitalismo non si è spinto abbastanza oltre, che in qualche modo ha tradito se stesso. La soluzione diventa allora non meno, ma più capitalismo, finanche nelle sue forme più brute e spietate.
Agli inizi, Land optò abbastanza apertamente per una soluzione “di sinistra”, in particolare individuando nelle donne (e nel femminismo radicale figlio della teoria cyber) l’agente in grado di far esplodere il capitalismo sotto le sue stesse contraddizioni. La cosa ovviamente non servì a placare i dubbi della critica marxista classica, che accusò la CCRU di “thatcherismo deleuziano” e che guardava alle teorizzazioni di Land come a puri e semplici obbrobri. Era chiaro che i temi su cui andava ragionando la banda di Warwick erano un terreno scivoloso; ma più che le aporie insite in un ragionamento così spudoratamente audace, fece il regime teoretico a cui Land da solo si condannò, immolandosi alla causa di un rapido e irrecuperabile inabissamento nei meandri di quell’ignoto da lui tante volte agognato.
Anziché scrivere attorno alle cose, Land proponeva di sprigionare le forze deumanizzanti che venivano mobilitate ricorrendo a nuove pratiche di scrittura, nuovi modi di parlare, nuovi modi di pensare.
Le performance in cui venivano invocati i Grandi Antichi di lovecraftiana memoria, i bislacchi esempi di theory fiction che buttavano all’aria le buone maniere del saggio accademico, i testi composti da null’altro che simboli e codici binari, furono solo l’inizio. Dalle testimonianze dei suoi discepoli alla CCRU, sappiamo che da un certo punto in poi Land prese a lavorare come un ossesso sui temi da lui individuati, trasferendosi a vivere nel suo ufficio ed evitando di dormire alle volte per giorni interi (aiutato in questo da stimolanti di varia natura).
“Nick prendeva le cose sul serio”, ricorda Mark Fisher: la sua lotta contro lo human security system divenne un affare personale; in perfetta continuità con le tesi da lui esposte, spiega Robin Mackay, “anziché scrivere attorno alle cose, Land proponeva di sprigionare le forze deumanizzanti che venivano mobilitate [ricorrendo a] nuove pratiche di scrittura, nuovi modi di parlare, nuovi modi di pensare”. Questo costante lavoro su se stesso, questo imperativo a sperimentare sulla propria pelle i linguaggi e gli effetti delle iperstizioni da lui elaborate, portarono prevedibilmente al crollo finale. Ancora Mackay: “Da qualunque punto di vista si voglia interpretare il termine – normativo, clinico o sociale – Land impazzì”.
Nel periodo eroico della CCRU, Nick Land era stato un oustider malvisto dall’Accademia, ma che comunque era riuscito a radunare un vivacissimo gruppo di giovani, molti dei quali – abbiamo visto – sarebbero partiti da quell’esperienza per affrontare percorsi di una certa importanza nel panorama culturale e artistico contemporaneo; Land aveva indubitabili qualità messianiche, e per non pochi colleghi attorno alla sua figura aveva costruito un vero e proprio culto della personalità. Ma qualunque fosse la sua missione originaria, questa a un certo punto fallì. “Una delle ultime volte che l’ho visto”, ricorda Martyn Amos della Manchester Metropolitan University, “era a un supermercato di Earlsdon. Nel cestino aveva sei confezioni di spaghetti istantanei in scatola, e un cavolfiore (‘perché non voglio prendermi lo scorbuto’)”.
Abbandonata la posizione a Warwick, Land si ritrovò velocemente nella posizione del reietto, del paria di cui era sconveniente anche solo pronunciare il nome. Nonostante l’affetto dei suoi ex discepoli, il filosofo inglese non vide allora altra soluzione che trasferirsi a Shanghai, nel pieno di quella “Neo China” da lui così ostinatamente vagheggiata. Da lì ha continuato a sviluppare i temi che lo tengono occupato sin dai primi anni ’90, fino a conoscere – quasi a sua insaputa, si direbbe – un generalizzato ritorno di interesse alimentato dall’influenza che il suo pensiero ha esercitato su molti protagonisti del dibattito culturale dell’ultimo decennio. Anche se, bisogna dire, il Nick Land degli ultimi anni condivide poco con quello del periodo CCRU.
Da qualche tempo a questa parte infatti, Land è diventato uno dei pensatori di riferimento degli ambienti cosiddetti “neo-reazionari”. Il suo Dark Enlightenment Manifesto è considerato un testo chiave da personaggi ripugnanti come Mencius Moldbug, e se ai tempi di Warwick le sue tesi rimbalzavano tra la fascinazione per il capitale e la sua critica puntuale, oggi Land ha accettato l’inevitabilità di un capitalismo distopico come unica via per i destini dell’umanità (cioè sempre la fine dell’umanità stessa). Per molti versi, tutto torna: di fatto, Land è il campione assoluto dell’accelerazionismo “di destra”, con grande disappunto dei suoi vecchi allievi alcuni dei quali – i soliti Ray Brassier, Mark Fisher, Robin Mackay, ma anche l’iraniano Reza Negarestani, che in gioventù intrattenne una corrispondenza con gli ambienti di Warwick – sono oggi in prima fila nel tentativo di resuscitare lo spirito prometeico di una sinistra ancora troppo spesso ostaggio di malsane nostalgie neokeynesiane.
Nessuno (o quasi) dei vecchi affiliati alla CCRU ha comunque rinnegato gli insegnamenti di Land. Anzi, visti i suoi trascorsi e la sua fama di filosofo eccentrico, in molti hanno pensato che fosse tutto uno scherzo, che era impossibile che un tipo intelligente e originale come lui si fosse messo a flirtare con la destra più bieca. Ma forse ha ragione Robin Mackay quando dice: “Non credo che Land abbia mai preteso di essere di sinistra. È un serio filosofo e un pensatore intelligente, ma al tempo stesso ha sempre amato pungolare la sinistra esibendo con un certo piacere il peggior scenario possibile […] Alla base del pensiero di Nick c’è piuttosto il desiderio incosciente, persino romantico, di esplorare ciò che sta fuori dalla ‘prigione dell’essere umano’, costi quel che costi”. L’intervista che segue, è un buon riassunto del Land-pensiero di oggi, e quindi come tale prendetela; ma tra le righe, non è difficile individuare i resti di quella carica dissacrante che fu dei tempi d’oro.
Intervista a Nick Land
di R. Teresa O’ Connell
Cos’è l’accelerazionismo?
L’accelerazionismo è una teoria cibernetica della storia sociale e in particolare della modernità. L’assunto fondamentale è che la tendenza che controlla – e definisce – la modernità è il dominio tramite feedback positivo o “processo autoeccitante”. Per convenienza, chiamiamo questa dinamo “capitalismo”. In un periodo corrispondente grossomodo al Rinascimento, (inizialmente) in Europa, il capitalismo si è distaccato dai meccanismi di stabilizzazione socioculturale precedentemente dominanti (omeostatici, o feedback negativo) e ha intrapreso un processo di cambiamento autopropulsivo. Per sua natura, l’accelerazionismo si autosostiene e si presenta come inevitabile. Poiché è la struttura trascendentale della modernità, è l’unica vera fatalità.
Qual è il ruolo della tecnologia nell’accelerazione del capitale?
Il capitalismo è un complesso cibernetico di processi tecno-industriali e commerciali. Nessuno di questi elementi è isolabile se non per scopi analitici fortemente limitati. L’automazione del capitale è il processo integrante.
La singolarità è inevitabile?
La singolarità è implicita in ogni sistema basato sul feedback positivo. L’accelerazionismo non è libero di differenziarsi da questo. L’idea intuitivamente più utile è la seguente: prendi un sasso e lo getti nel centro di uno stagno. Il punto di contatto del sasso con l’acqua è la singolarità, da cui si increspano onde verso l’esterno, in maniera convergente (e quindi cronologicamente inversa) rispetto al punto ormai scomparso nel passato in cui il processo è stato innescato. L’intera struttura temporale, o modello ondulatorio, è un sistema integrato, che subisce individuazione o automazione mentre avanza nel tempo. La modernità – nella sua configurazione più astratta – è formata così.
Ha una metafora più, ehm, comprensibile?
C’è una scena nel film Terminator 2 – Il giorno del giudizio in cui il robot cattivo mandato dal futuro per mettere a repentaglio la sopravvivenza del genere umano entra in contatto con del nitrogeno liquido ed è congelato, permettendo al Terminator buono di sparargli frantumandolo in mille pezzetti. Nel giro di pochi istanti i frammenti cominciano a riorganizzarsi per riformare il mostro. Questa scena è una visualizzazione cinematografica di un’onda convergente. Le onde convergenti sono alla base di qualunque cosa nel mondo che abbia un minimo di importanza. La storia è del tutto inintelligibile senza una comprensione di queste dinamiche.
Cosa c’è dopo la singolarità?
Il capitalismo è teleologicamente identico all’intelligenza artificiale. Siamo in grado di concepirne il contenuto avanzato tanto quanto una tupaia è in grado di concepire la matematica superiore. Nella misura in cui la preservazione dell’identità umana attualmente prevalente è considerata un imperativo strategico, la sfida che affronteremo non potrà che essere terrificante. Possiamo aspettarci che i modelli di conflitto umano si adatteranno progressivamente alle tensioni di una transizione radicale a livello della specie.
Ovvero ci sarà il passaggio dalla biosfera alla tecnosfera – e gli esseri umani saranno sottomessi ai computer?
Al momento viviamo in una tecnosfera solo parziale, ma la tendenza è inesorabile. Ma mentre i primati sociali hanno ereditato modelli di comportamento che spesso rendono soddisfacente la “gestione” di altri esseri umani, non c’è niente di intrinseco all’intelligenza artificiale che renda tali obiettivi importanti. L’intelligenza artificiale auto-propellente vuole solo migliorare se stessa. Gli esseri umani finiranno con il ribellarsi contro la sua negligenza con più passione che contro il suo dominio.
Che ne pensa dell’idea dell’intelligenza artificiale “amichevole”?
Il progetto dell’intelligenza artificiale amichevole è un omologo sempre più preciso della pianificazione macroeconomica – e dal punto di vista dell’accelerazionismo entrambe sono illusioni trascendenti.
Quali conseguenze avrà l’evoluzione dell’intelligenza artificiale per l’umanità?
Questo è un campo enorme di discussione, quindi sono tentato a cominciare in termini “meta”: il topos culturale dell’intelligenza artificiale avanzata e potenzialmente maligna avrà sicuramente un effetto importante al di là degli eventuali effetti diretti dell’intelligenza artificiale in sé. A un estremo, Hugo de Garis suggerisce (insistentemente) che la guerra più grande nella storia dell’umanità risulterà non dall’intelligenza artificiale stessa, ma dal conflitto sul permesso per la sua produzione. Le conseguenze dirette che avrebbe l’emergenza sulla Terra di un’intelligenza superiore hanno implicazioni talmente enormi che sarebbe assurdo cercare di specificarle. Nella sua critica dello storicismo, Karl Popper dice che è impossibile speculare realisticamente sulle conseguenze della conoscenza non ancora scoperta, perché se potessimo farlo effettivamente, saremmo già in possesso di detta conoscenza. Questo vale ancora di più per quanto riguarda gli effetti di un’intelligenza artificiale superiore – per esempio la capacità di produzione cognitiva (non a caso si chiama “singolarità”).
L’internet sta disintermediando i sistemi di comunicazione di massa esistenti a un ritmo in rapida accelerazione. Questo è un fenomeno enorme: è il capitale che interpreta la regolamentazione della comunicazione come un ostacolo, e trova il modo di raggirarla.
Un punto che non posso resistere dal fare, però, riguarda la teoria (dei giochi) della deterrenza. La minaccia dell’intelligenza artificiale maligna – Malevolent Artificial Intelligence o MAI – è molto simile a quella dell’apocalisse nucleare nella teoria e pratica diplomatica della Distruzione Mutua Assicurata. Per questo motivo potremmo aspettarci conseguenze geopolitiche di portata simile, quali forme di sicurezza per l’indipendenza di micro-stati all’interno di un ordine globale sempre più frammentato. Man mano che si concretizza questo nuovo equilibrio del terrore, il dibattito astratto sul “rischio esistenziale” acquisterà concretezza sempre maggiore.
Che cosa prevede che succederà?
Le conseguenze fondamentali di un mondo in cui la capacità di deterrenza massiccia (massive deterrence capability) è distribuita fra diversi attori tecnologicamente competenti sono: diversità di regime molto più ampia, tensione perpetua, e creatività (quest’ultima di un tipo che molti troveranno estremamente minaccioso).
È difficile vedere come questo scenario – o una sua approssimazione – possa essere evitato. Un’alternativa richiederebbe una soluzione al problema dell’intelligenza artificiale amichevole (Friendly AI), ma anche questa è difficile da immaginare al di fuori di un mega-stato globale totalitario. E con la proliferazione delle opportunità di deterrenza del rischio esistenziale (X-risk deterrence), questo obiettivo svanisce sempre di più nell’inverosimiglianza. Società diverse divergeranno mentre cercano soluzioni alternative di sopravvivenza. Solo le soluzioni consistenti con l’accelerazione del progresso tecnologico funzioneranno, ma non possiamo escludere la possibilità che nicchie anche molto diverse tra loro – incluse forme di neo-primitivismo – troveranno il modo di essere tollerate (anche se, a mio avviso, un’industria turistica funzionante sarà indispensabile a questo).
In che modo Internet contribuisce od ostacola a questo fenomeno? Per alcuni rappresenta un’opportunità di contestazione o resistenza delle logiche capitalistiche.
L’internet sta disintermediando i sistemi di comunicazione di massa esistenti a un ritmo in rapida accelerazione. Questo è un fenomeno enorme: è il capitale che interpreta la regolamentazione della comunicazione come un ostacolo, e trova il modo di raggirarla. Così facendo contribuisce alla disintegrazione sociale e rafforza l’economia capitalista fino al punto di quasi coincidenza.
Il ruolo dei social media in questo senso è estremamente intenso: i social media vengono denunciati perché permettono agli utenti di bypassare i mezzi di informazione pubblica per delle “bolle”. In questo senso sono un avatar del mondo che verrà. “Sfere pubbliche” stanno implodendo dappertutto – dalle Nazioni Unite in giù – come dimostrato dai risultati dei sondaggi sulla fiducia popolare nelle autorità pubbliche di ogni tipo. Questo fenomeno annuncia la fine dell’Era Gutenberg, e sta avvenendo su scala talmente grande che è già oltre ogni prospettiva di rimedio. Finirà per consolidarsi un nuovo equilibrio mediatico che si basa molto più esplicitamente su un modello di mercato, in cui la merce di valore sarà l’informazione attendibile come risorsa per la sopravvivenza. Le comunità testardamente ancorate alle loro bolle di illusione non saranno persuase a lasciarle se non dalle conseguenze sfortunate dell’aberrazione cognitiva. Altri gruppi sociali preferiranno invece isolarsi dalle conseguenze della follia imperversante. Risultato: maggiore frammentazione.
Davvero ci sarà un’apocalisse zombie?
L’apocalisse zombie è una metafora per la fase radicalmente disfunzionale della politica di massa. Sì, questo mi sembra inevitabile, e sarà molto brutto. Intensificherà ulteriormente le tendenze alla frammentazione geopolitica. La mia opinione è che, raggiunta una certa soglia di collasso civile, qualsivoglia tipo di società sarà pronta a rinunciare ai diritti politici positivi in cambio dell’ordine sociale, ma una transizione in questa direzione non è facile da compiere. L’umanità tende ad imparare solo dalle lezioni più orribili. Quindi, lezioni orribili sono l’esito per impostazione predefinita.
Perché “Illuminismo Oscuro”?
L’illuminismo oscuro è la dimensione eclissata del pensiero illuminista. I suoi due grandi pilastri sono rappresentati da Hobbes e Malthus. Con lo stato di crisi culturale in cui versa oggi l’umanesimo ottimista di ispirazione Rousseauiana, possiamo anticiparne la ri-emergenza (anzi direi che è cosa già fatta). Se c’è una singola massima che ne incapsula la provocazione di base, è il commento di Peter Thiel del 2009: “Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili”.
La redazione di Prismo vive in una cascina nelle colline tra Busto Arsizio e Varese dove passeggia per i campi ragionando su paradossi filosofici e coltivando marijuana così potente che la puoi fumare solo in un bong costruito dentro la tua mente.