Cloud, stream, villaggio globale, navigazione: il nostro rapporto con il web si basa su metafore non sempre neutrali. Artisti, ricercatori e designer ci aiutano a farne un uso cosciente.
Vi ricordate il villaggio globale? L’espressione fu coniata dal sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan, autore de Gli strumenti del comunicare e principale figura di riferimento nell’ambito della teoria dei media. Questa fortunata immagine sintetizzava il ridimensionamento del mondo in seguito allo sviluppo della tecnologia elettrica, estensione del sistema nervoso umano a vera e propria rete globale. Il termine “villaggio” restituiva un’idea di intimità, ma anche di entusiasmo quasi pioneristico. Una generazione più tardi, quando il futurologo americano Alvin Toffler pubblicò nel 1980 La terza ondata, la formula proposta era invece quella del “cottage elettronico”: grazie al telelavoro, ciascuno sarebbe stato libero di lavorare comodamente dalla propria abitazione, rinforzando dunque i propri legami familiari e il senso di comunità.
Benché entrambi i termini suonino per certi versi nostalgici, le due metafore sono significativamente diverse e riflettono due visioni del mondo contrastanti: l’una, infatti, sottolinea come realtà fisicamente distanti si trovino, grazie al web, a essere più prossime; l’altra insiste, al contrario, sui rapporti locali – ignorando le future deludenti evoluzioni di questa possibilità.
Queste due metafore rappresentano due caratteristiche fondamentali di quello che sarebbe poi diventato Internet: esplorazione e atomizzazione.
Se, come me, avete avuto esperienza del web nel periodo pre-Google (la mia prima homepage è stata Italia OnLine) avrete familiarità con il concetto ormai desueto di “portale”: andare online significava affacciarsi su un mondo di parole cliccabili, perlopiù suggerite da un design affollatissimo fatto di sezioni, sottosezioni e da un approccio quasi enciclopedico. Con un termine liguisticamente controintuitivo, tramite questo portale era possibile “navigare”, ossia perdersi in una dimensione liquida di informazione a perdita d’occhio.
L’immaginazione della tecnologia e del nostro rapporto con essa è da sempre veicolato da metafore, espedienti retorici che ci hanno aiutato a comprendere specificità tecnologiche che andavano ben oltre la nostra esperienza in termini più o meno familiari – alcuni un po’ all’antica, altri addirittura futuristici, come “superstrada dell’informazione” o “cyberspazio”.
L’immaginazione della tecnologia e del nostro rapporto con essa è da sempre veicolato da metafore: espedienti retorici che ci aiutano a comprendere specificità tecnologiche oltre la nostra esperienza.
Non tutte le metafore che usiamo funzionano quindi allo stesso modo: alcune cercano di ricondurre un’interazione o un concetto alla nostra esperienza quotidiana, altre ne suggeriscono di nuove. Inoltre, una metafora può non limitarsi a facilitare la comprensione, ma anche suggerire un’interpretazione particolare del fenomeno. In quest’ultimo caso, come nell’esempio di apertura, accade quindi che una metafora porti con sé implicazioni etiche o politiche.
Se il cyberspazio di Gibson manteneva una connotazione esplorativa, altre metafore contemporanee suggeriscono un’altra attitudine. Nel suo libro Transcoding the Digital: How Metaphors Matter in New Media (Institute of Network Cultures, 2014) Marianne van den Boomen investiga il rapporto tra le metafore con cui ci interfacciamo alla tecnologia e il modo in cui queste riflettono la materialità e la funzione dei media stessi.
Secondo la studiosa olandese, per esempio, la metafora della nuvola adottata da servizi come iCloud di Apple rappresenta l’assorbimento di tutte le funzioni di mediazione e del lavoro del software, rese invisibili. La nuvola è una metafora materiale che produce e organizza traffico, creando nuovi territori e strade invece di mappare regioni e traiettorie preesistenti. Come un contenitore magico, la nuvola non rivela il funzionamento della tecnologia, ma al contrario lo oscura. Potremmo anche dire che la metafora della nuvola investa lei di un potere oracolare e noi di un certo fatalismo. Mentre metafore come quella dello specchio (particolarmente popolare grazie a Black Mirror di Charlie Brooker) nascondono le dinamiche di funzionamento ma mantengono un legame con l’utente nel suo contesto, incluso il suo linguaggio e la sua cultura, la nuvola rappresenta uno scarto sensibile nel rapporto di fiducia che abbiamo con i media.
Anche il concetto di “stream” (torrente) rimanda a un flusso idrico naturale, ma indipendente da noi utenti: una posizione antitetica rispetto alla vecchia interpretazione, che ci vedeva “navigare”, o addirittura “surfare” la rete. Eppure, nonostante internet non sia più uno spazio dedicato a una comunità di iniziati e al contrario sia totalmente integrato con la nostra esperienza quotidiana, l’accelerazione della sua evoluzione ha reso il suo funzionamento ancora più complicato e la nostra dipendenza ancora più forte. Mai come oggi siamo dipendenti da informazioni che condividiamo in maniera progressivamente più casuale e meno critica – vi ricordate l’esitazione con cui avete inserito i dettagli della vostra carta di credito quando avete prenotato il primo viaggio online, o fatto il primo acquisto su Amazon o eBay? – e mai come oggi trarremmo beneficio da una maggiore oculatezza, specialmente in un mondo dove basta un click sbagliato per trovarsi abbonati a servizi non richiesti o trovarsi a leggere pubblicità (o peggio) invece di news.
Nonostante internet sia totalmente integrato con la nostra esperienza quotidiana, l’accelerazione della sua evoluzione ha reso il funzionamento ancora più complicato e la nostra dipendenza ancora più forte.
Un tasto dolente in questo senso è quello della crittografia. Pur trattandosi di una pratica vecchia quanto il mondo, la cifratura di informazioni sensibili ha subito un’evoluzione esponenziale negli ultimi cinquant’anni ed è alla base del nostro uso quotidiano di internet – a partire da protocolli come HTTPS fino all’home banking e al Wi-Fi. Gli utenti più smaliziati hanno familiarità anche con servizi VPN (virtual private network) o con il software Tor (The Onion Router), diventati popolari, quando non addirittura necessari, alla luce delle scioccanti verità sulla sorveglianza di massa da parte di enti come l’NSA rivelate da Edward Snowden nel 2013.
Tornando alle metafore, la “cipolla” di Tor è un esempio efficace: come il familiare bulbo, i server Tor agiscono da router e costruiscono un circuito virtuale crittografato a strati, bypassando di fatto la comunicazione standard tra client e server. Se non avete capito molto delle ultime righe, non posso biasimarvi: rendere tangibile o intuitiva per tutti la complessità delle tecnologie tramite cui comunichiamo è un processo lungo, che richiede un’educazione adeguata. E, come dicevamo sopra, anche dell’immaginazione.
È partendo da questo principio che lo scorso novembre, nella suggestiva cornice del Paradiso di Amsterdam, hanno avuto luogo i visionari Crypto Design Awards. Organizzata dall’Institute of Network Cultures e dal Museo dell’Immagine di Breda, la conferenza-evento è nata dall’esigenza di inventare “nuove metafore per il deep web”: nuovi modi, cioè, non solo per visualizzare quell’abisso di dati che (nonostante sia comunemente associato a traffici illeciti) comprende circa il 96% di tutto il contenuto online in circolazione, ma educare designer e pubblico a farne un uso cosciente. Il palco ha visto avvicendarsi un eterogeneo assortimento di designer, artisti e ricercatori, con ruoli e pratiche spesso integrate.
Cryptokids è un’associazione nata con lo scopo di preparare i ragazzi tra i dieci e i quattordici anni alla gestione dei propri dati durante la navigazione: durante l’evento si sono serviti di vere scatole e lucchetti per spiegare al pubblico come funzioni la crittografia asimmetrica. Altre presentazioni hanno visto protagonisti il designer e attivista Daniel van der Velden, del duo Metahaven, o l’esperto di settore Harry Halpin, in passato al World Wide Web Consortium dell’MIT sotto Tim Bernerns-Lee e adesso impegnato nel Web Authentication Working Group, con lo scopo di facilitare l’abbandono delle password in favore di sistemi di autenticazione a più fattori.
I Crypto Design Awards nascono per l'esigenza di inventare nuove metafore per il deep web: nuovi modi per visualizzare quell'abisso di dati ed educare designer e pubblico a fare un uso cosciente.
La competizione vera e propria ha premiato, tra i quindici progetti finalisti, Deeply: un sistema operativo su card SD (per intenderci, quelle per le fotocamere) con una serie di tool per esplorare il deep web senza lasciare tracce sul proprio computer né farsi intercettare. L’oggetto, progettato dall’artista e designer cinese Yinan Song, è distribuito in un involucro simile a quello dei preservativi, per rimandare a un’idea di responsabilità vissuta in modo libero e spontaneo.
Dopo la conferenza ho avuto l’occasione di fare una breve chiacchierata con la moderatrice Josephine Bosma, esperta di arte digitale e membro del comitato di consulenza sulla cultura digitale presso il fondo olandese per le industrie creative. “Il problema della crittografia è che è molto complicato essere davvero al sicuro, anche per gli esperti”, mi spiega. “Affrontare la questione per un designer non specializzato è davvero una sfida.” Per Bosma, che conosce da una parte il mondo degli addetti ai lavori e dall’altro quello istituzionale con i suoi criteri per l’assegnazione dei fondi, eventi come la Crypto Design Challenge sono importanti perché rendono possibile la comunicazione tra discipline diverse, foraggiando una cultura sofisticata e indipendente rispetto agli interessi commerciali. Le chiedo se gli artisti che lavorano con i nuovi media debbano sentirsi più responsabili rispetto al passato: “Per gli scienziati la possibilità che il proprio operato abbia un impatto è sempre esistita; per quanto riguarda gli artisti, si trattava di un impatto più che altro simbolico. Ora, con il dark web, la potenzialità che un software nato come progetto artistico si diffonda e abbia un impatto è molto più grande.(…) Anche se la gente comune viene utilizzata come contenuto da compagnie come Facebook, ha il potere di fare cose incredibili, persino nel sistema ultrasorvegliato in cui viviamo.”
Ma rendere ciascuno più consapevole delle proprie responsabilità e della possibilità di assumere un ruolo attivo piuttosto che subire la tecnologia non è affatto facile, specialmente considerando quanto è più facile e divertente lasciarsi affascinare dalle meraviglie o dalle distopie di singolarità, che si parli di voli su Marte o di estetica post-internet. In un mondo dove familiarizzare con metafore politiche come “net neutrality” e “algorithmic accountability” sta diventando sempre più urgente, forse ci tocca. E, come minimo, per iniziare, ci vogliono le metafore giuste.
Nicola Bozzi è nato a Catanzaro, è cresciuto a Milano e vive a Manchester. I suoi interessi principali sono il ruolo dell'arte nella società contemporanea e le identità urbane globalizzate. Ne scrive per varie riviste e siti, italiani e internazionali, tra cui Domus, Frieze ed Elephant.