Da pièce teatrale a film candidato agli Oscar, Moonlight di Barry Jenkins è un lavoro sperimentale che riprende simultaneamente tre fasi della vita del suo protagonista.
«Era il tempo migliore e il tempo peggiore,» Charles Dickens era a cena da me, l’altra sera, e mentre raggranellava i resti di lasagna in una montagnetta di croste e avanzi io, per spezzare il silenzio, gli avevo chiesto «Charles, ma allora, bilancio 2016?»
L’anno scorso è stato definito unanimemente dagli occidentali l’anno più tetro della storia recente, questo prima che quella Morte Nera post-fattuale con base negli Stati Uniti venisse inaugurata, e tutti unanimemente facessero il gesto di “ripararsi la testa con il braccio” a ogni vaga definizione offerta del concetto di “olocausto nucleare”. Benvenuto, 2017! Quanto non ti abbiamo aspettato!
Tra un singhiozzo esasperato e l’altro, però, possiamo renderci conto che c’è ancora qualcosa per cui vale la pena vivere. Per esempio, il cinema. Per il cinema, il 2016 è stato un anno inestimabile. E non è una sorpresa vedere questo fatto riflesso anche nella cerimonia degli Oscar: agli Oscar, un anno in cui viene dato come favorito un film scritto male ma realizzato da dio e non una merda fumante è un anno buono (cit. Charles Dickens).
Il tempo migliore, dunque. In questa congiunzione astrale di eventi cinematografici positivi, due film hanno lasciato un segno indelebile. Per quanto avventato sia pronunciarsi con così poco senno di poi, sembra una scommessa vinta in partenza sostenere che si tratta di due tra i film più importanti degli ultimi dieci anni. Di entrambi si parlerà ancora a lungo perché portano avanti una propria (diversissima) ricerca in fatto di forma e narrazione, con una discreta componente rivoluzionaria. Per coincidenza, entrambi i film parlano d’amore.
Il primo è Vi presento Toni Erdmann, produzione austro-tedesca in uscita in Italia giovedì, di cui abbiamo parlato su queste pagine. Il secondo è Moonlight.
Infanzia
Moonlight nasce come In Moonlight Black Boys Look Blue, una pièce teatrale di Tarell Alvin McCraney. È un lavoro sperimentale, che riprende un personaggio in tre fasi della sua vita. Le azioni del protagonista da bambino, da adolescente e da adulto avvengono simultaneamente.
Nato per il teatro, lo spettacolo non è mai stato “fatto” per il teatro: il testo originale è pieno di “stacchi”, di micro-scene, di materiale visivo – in breve, è più una sceneggiatura che un dramma. Ed è quasi interamente autobiografico. McCraney ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere di Libery City, a Miami, in un periodo in cui la comunità era divorata da crack e povertà dilagante. Queste condizioni si riflettevano sulla vita interiore dei più giovani: bulli della scuola e prime esperienze con la propria identità sessuale non vanno mai di pari passo, a maggior ragione in un luogo in cui la mancanza di supervisione degli adulti è una porta spalancata verso la carneficina. In Moonlight Black Boys Look Blue rifletteva proprio queste esperienze, vissute di prima mano da McCraney e traslate su pagina, dalle più traumatiche alle semplici routine quotidiane. Voleva raccontare tre momenti specifici nella vita di un ragazzo innamorato di un altro ragazzo e cresciuto in questo particolare contesto sociale.
È qui che entra in gioco Barry Jenkins. Cresciuto a pochi isolati di distanza dal suo collega McCraney, Jenkins ha vissuto esperienze molto simili. Anche lui era nato in condizioni di semi-povertà, anche lui aveva osservato la rovina della propria madre, consumata dal crack. Da giovani, i due non si sono mai incontrati, pur avendo condiviso scuole e insegnanti, oltre a uno stesso interesse per le arti. Dopo una laurea in regia e un trasferimento a San Francisco, Jenkins era riuscito a realizzare un lungometraggio con pochi spiccioli (15000 dollari): il film, Medicine for Melancholy, una storia d’amore etichettata come parte del genere “mumblecore”, era stato un sorprendente successo di botteghino. Avrebbe ispirato una generazione di giovanissimi cineasti neri, tra cui Justin Simien di Dear White People. Era il 2009. Nonostante il momentaneo successo, gli ci sarebbero voluti sei anni per farsi finanziare un altro film.
A San Francisco, Jenkins si era trovato catapultato in una comunità molto diversa da quella di Miami. La città, che ha una vasta popolazione LGBT ma una piccolissima percentuale di popolazione nera, gli aveva aperto gli occhi su una nuova serie di problematiche. “Dei film queer che ho visto, nessuno ha come protagonista una persona di colore. È una battaglia che esiste, ma su cui nessuno fa arte, se non altro nel cinema mainstream. È stata la prima volta che la questione mi ha toccato, e anche se mi ritengo un alleato delle cause LGBT, nessun personaggio dei miei film precedenti si sarebbe identificato come LGBTQ.”
È qui che Barry Jenkins trovava in Tarell Alvin McCraney, e nella sua pièce sperimentale, la collaborazione ideale per un film che parlasse di un personaggio che il cinema mainstream non aveva (praticamente) mai visto prima.
Adolescenza
Descrivere Moonlight è contemporaneamente facile e difficilissimo: è facile perché parlare, anche dettagliatamente, della trama (“tre momenti della vita di un uomo”) non comporta spoiler di alcun genere e non definisce il film in nessun modo. Questo perché il film è quasi unicamente il riflesso di stati interiori, è nato per farti sentire più che per farti vedere. E questo è il difficile. Come parli di qualcosa che ti sta succedendo dentro?
Per il modo in cui in molti hanno scritto di Moonlight, e per la maniera in cui è stato ricevuto a braccia aperte dalle cerimonie di premiazione, ci si aspetterebbe uno di quei dozzinalissimi film nobili con uno strascico di intento artistico e un Grande Tema Sociale. Non ci sarebbe niente di male: è un genere cui la comunità di Hollywood ci ha facilmente abituato, e che a oggi produce risultati misti, talvolta ottimi, senz’altro utili a responsabilizzare il vasto pubblico.
Ma la verità è che Moonlight è una creatura inaspettata, completamente diversa, nonché la cosa più arthouse che possa capitare agli Stati Uniti d’America. Non lo è soltanto nei suoi contenuti, ma lo è soprattutto nelle sue modalità: Moonlight sensibilizza il pubblico al Tema Sociale, sensibilizzandolo anche a un certo modo di fare cinema che è lontano dai classicismi del mainstream e che non si si sente in debito verso le norme narrative classiche. Fa le cose a modo proprio: l’unica concessione alla narrativa hollywoodiana standard è costituita da un solo personaggio (la madre dipendente dal crack: la più autobiografica del film, ma tristemente anche la più vista a livello cinematografico). Fa tutto questo pur rimanendo un film accessibilissimo (dopotutto, è una storia d’amore e di integrazione).
Lasciata alle spalle la fedeltà a ciò che le pratiche classiche impongono, tutte le scelte estetiche intraprese riflettono innanzitutto una fedeltà all’intento del film. Chiron (il protagonista) e Kevin (l’oggetto del suo desiderio) sono interpretati da sei attori diversi in tre fasi della loro vita. La somiglianza in fatto di recitazione è sbalorditiva, e sembra quasi frutto di una seduta spiritica: sotto la superficie dei sei attori ci sono solo due personaggi, Chiron e Kevin. A vedere il film, è inevitabile immaginarsi ore e ore di prove tecniche per affinare tic e movimenti degli attori e renderli uniformi, ma la realtà è che prima – e durante – le riprese, gli attori non si sono mai incontrati. Questo controllo registico quasi soprannaturale tradisce la più che assoluta devozione di Barry Jenkins ai personaggi, e la capacità di esprimere esattamente ciò che ogni personaggio rappresenta ai propri attori.
Non basta. Questa sicurezza di visione è evidente in altri aspetti di Moonlight. Perché il film non istruisce il pubblico soltanto su quanti messaggi si possano comunque trasmettere con un approccio molto artistico (insomma: non siamo qui per raccontare una storia, come ne Il diritto di contare; siamo qui per far vivere una storia); istruisce anche su quanti pochi soldi servano.
Poiché si sta sempre più assottigliando verso lo “zero budget”, il mondo del cinema indipendente nordamericano costringe chi ne fa parte a continui compromessi e rinunce: di solito prendi due attori semifamosi, giri in due stanze prestate da un amico in cambio di una cassa di birre, scrivi qualche battuta brillante con campo e controcampo sui due attori semifamosi. Se ti va bene hai fatto una storia carina ed eccentrica che, grazie a performance passabili, finisce al Sundance. Poi ti chiamano a girare Jurassic World. Se non ti va bene, invece, ripassa più tardi. Girato in meno di un mese con un budget infinitesimale (cinque milioni di dollari; un quarantaquattresimo di un film come Avengers, in cui un minuto di film equivale grosso modo a 650 mila dollari di spesa), Moonlight è un’opera monumentale che rifugge le restrizioni finanziarie creando qualcosa di completamente inedito grazie all’uso di fotografia, montaggio e musica, e usando l’espediente del dialogo solo quando è strettamente necessario.
Età adulta
Le esperienze venivano dal passato di McCraney, la vita interiore del film è sia di Jenkins sia di McCraney. Non che l’esperienza personale sia sempre strettamente necessaria a un prodotto artistico ma, in questo caso, la biografia dei due autori ha indubbiamente donato a Moonlight la sua specificità.
In virtù di questo trattamento privilegiato, tutti i personaggi godono di una propria vita interiore, nonostante non siano altro che satelliti del protagonista. Juan, lo spacciatore che si prende cura di Chiron, è un afro-cubano con un probabile passato di emarginazione – è questo aspetto della sua esistenza (mai annunciato, solo intuito) ad avvicinarlo al protagonista. Allo stesso modo, nessuno dei personaggi è sommario, funzionale a una trama che dev’essere portata avanti.
Per un film ambientato in un mondo relativamente violento e dettato da un’esperienza di vita particolarmente violenta (2/3 del film sono in parte – ma non solo – incentrati sul bullismo), Moonlight non racconta attraverso gli stereotipi dei gangster, con le urla, con la violenza. Racconta, invece, coi silenzi, con gli sguardi, coi gesti e con gli stacchi di montaggio lancinanti. Tutto è volto a riflettere lo stato mentale del personaggio principale. Il trattamento cinematografico della pièce teatrale è diametralmente opposto a quello di un altro film tratto dal teatro che fa uso, allo stesso modo, di un protagonista taciturno, È solo la fine del mondo di Xavier Dolan. In Dolan tutti si parlano addosso a parte il protagonista, che sorride perché ci ha detto all’inizio del film come dobbiamo sentirci (male: sta morendo); in Jenkins, parlano in pochi e come dobbiamo sentirci il protagonista ce lo dice alla fine del film. Fino ad allora, ci interessa osservarlo perché non sappiamo mai, fino in fondo, quello che ci vuole dire.
È un espediente di cui Barry Jenkins non è certo pioniere o primo sperimentatore. Basti pensare al suo ispiratore (nonché il suo solo e unico dio) Wong Kar-wai, cineasta di Hong Kong che, con film come Chungking Express o In the Mood for Love, ha ridefinito il concetto di “mostrare con zero parole tutto il mondo interiore di chiunque” (non che prima di lui il concetto esistesse).
Dalla filmografia di Wong, Moonlight non ottiene in eredità solo il trattamento interiorizzato delle vite dei suoi protagonisti, ma anche l’interiorizzazione dell’uso della musica: motivi ricorrenti, canzoni citate apertamente dai personaggi, una colonna sonora che parla al posto delle persone – la musica è fondamentale per portare avanti le intenzioni dell’autore. Se la prima manifestazione di Chiron galleggia in un liquido amniotico di musica classica, mano a mano che lui si evolve la musica si evolve con lui. Per la terza parte del film, quando Chiron ci si pianta davanti da palestratissimo uomo adulto, la colonna sonora lo rispecchia servendosi dell’ipermascolinità del “chopped and screwed”, una forma di hip-hop degli stati del sud: “L’hip-hop di solito si basa su talmente tanti battiti per minuto che spesso non ci si accorge che non solo è poesia, ma è anche piena di dolore. Se lo tagli e lo rallenti, permetti a tutto il dolore di fuoriuscirne,” dice Jenkins, “[…] è come prendere il battito del cuore di qualcuno e rallentarlo. Metterlo in bella vista. Che è quello che hanno fatto gli attori con i personaggi.”
L’interiorità emerge anche dalla fotografia. Una digressione: è facile gridare “razzismo!” e nascondere la mano, ma è altrettanto importante segnalare che il mezzo fotografico e cinematografico è stato calibrato, nel corso delle epoche, secondo un razzismo intrinseco. Siccome l’idea generale era che fossero i “bianchi” a farsi riprendere e fotografare, gli sforzi tecnici sono sempre stati volti ad affinare quell’area: erano i “bianchi” a dover avere un bell’aspetto al cinema, perché i “bianchi” erano le “star”. E così, i direttori della fotografia insegnavano ai futuri direttori della fotografia a illuminare i bianchi, le emulsioni erano create a partire dalla pelle bianca, e pensate in modo che la pelle bianca reagisse in maniera pregevole una volta fotografata. Inutile dire che per anni e anni i risultati sono stati disastrosi per i soggetti di pelle più scura. Ancora oggi, pur con il diffondersi delle tecnologie digitali, la priorità è chiaramente una sola, indovinate quale.
Travalicando il mondo reale e le imposizioni tecniche, la Miami immaginaria di Moonlight è virata in blu, proprio come lo stato interiore di Chiron, proprio come i ragazzi neri al chiaro di luna del titolo originale di Tarell Alvin McCraney.
TL; DR: Se venite ancora a dirmi “2016 anno brutto” io e Charles Dickens vi mandiamo a quel paese.
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.