Perché a 26 anni dalla caduta di quello di Berlino siamo tornati a ereggere muri – in Francia, Spagna, Ungheria e non solo. Cosa c'è dietro la nostra voglia di barriere.
Prendiamo un foglio bianco, una matita, e proviamo a disegnare una figura più o meno precisa. Ogni linea tracciata potrebbe rappresentare una moltitudine di cose: la proiezione di una scatola, le pareti di una stanza, oppure, se siamo abbastanza imprecisi, i confini di una nazione.
Il mondo che ci circonda, il mondo che abbiamo costruito e modellato attraverso la tecnica e la tecnologia, è stato creato esattamente allo stesso modo: prendendo un (metaforico) foglio bianco e disegnandoci sopra un’astrazione geometrica – la forma di una nazione – che poi è servita da base per tracciare strade, fognature, mura e confini. Ovviamente, gli attori che disegnano queste forme e questi confini sono molteplici, e quando i vari disegni non coincidono tra loro, scattano quei conflitti con cui lo storico segna lo scorrere del tempo. La storia del nostro continente è una storia di confini e muri continuamente mutati, eretti, abbattuti. Il tempo con cui viene scandita la storia d’Europa non è fatto solo di secoli e minuti, ma anche di questa contrattazione muraria.
Immaginiamo di cristallizzare un momento qualsiasi degli ultimi anni e di poter osservare a piacimento gli eventi che si stanno consumando in questa infinitesima frazione di tempo. Idealizziamo quest’attimo e utilizziamolo per comodità di narrazione. In questo momento ideale, potremmo osservare un ragazzo passeggiare per via Anelli, a Padova, dopo aver trascorso l’intera mattinata a scuola, divertito dal rumore prodotto da un bastone sbattuto contro quella lunga parete metallica che ogni mattina lo costringe ad una deviazione significativa. Qualche centinaio di chilometri più a sud, una vedetta della guardia costiera italiana calcola a mente i giorni che lo separano dal suo prossimo permesso, mentre percorre il bordo più esterno delle acque territoriali della sua nazione. Simili pensieri staranno occupando la mente di un operaio francese, impegnato nell’allestimento della barriera anti-immigrazione di Calais, voluta fortemente dal governo britannico ed eretta oltremanica.
Ognuno di questi eventi è a sé stante e si perde nella macchia degli innumerevoli fatti del mondo che potremmo a piacimento prendere in considerazione. Eppure, lo sfondo che gli fa da palcoscenico, preso nel suo insieme, tratteggia un orizzonte chiaro, opposto a quello verso cui l’occidente sembrava incamminarsi dal dopoguerra in poi.
Dopotutto – per tornare al nostro istante campione – potremmo anche soffermarci a osservare la lenta marcia di un soldato turco a nord di Ledra Street, a Nicosia, che pigramente osserva quanto gli accade attorno, strascico di un mezzo secolo abbondante di scontri a bassa tensione che ormai sembrava essersi esaurito. Gli ordini sono chiari: assicurarsi che nessuno oltrepassi il confine della Repubblica Turca di Cipro del Nord, orgogliosamente occupata con un’invasione militare nel 1974. Situazione, quella turco-cipriota, capace di scatenare cortocircuiti burocratici degni del più ispirato Terry Gilliam: essendo la Repubblica di Cipro divenuta membro dell’Unione Europea il 1° maggio del 2004, dal punto di vista giuridico anche il territorio di Cipro Nord ricadrebbe nell’UE, e così i propri cittadini nell’area Schengen. Ma essendo ufficialmente in guerra con uno stato membro dell’Unione, la Linea di Attila – com’è stata ribattezzata dall’ONU la barriera che divide le due metà dell’isola – è da considerarsi una trincea silenziosa.
Nonostante la timidezza dell’intervento dei caschi blu, limitato a un presidio di confine, sarebbe difficile negare che l’Europa moderna sia un’entità implicitamente fondata sull’abbattimento progressivo di mura e barriere. Sin dal 1957, quando a Roma si firmò il trattato che sancì la costituzione della Comunità Europea, la retorica politica ha parecchio insistito sulle speranze di un continente libero dai conflitti e dalle barriere che per secoli hanno diviso popoli e nazioni. D’altronde, il ricordo della Seconda Guerra Mondiale era ancora vivo, e la minaccia del nemico rosso era stata resa tangibile quanto bastava per rendere politicamente appetibile la nascita di una nuova creatura geopolitica.
Ci siamo ricascati. Abbiamo ricominciato a costruire barriere e a chiudere le porte. E se questo non bastasse, queste barriere sono spesso a doppia mandata, quasi a ribadire il concetto: qui, a voi, non vi vogliamo.
Eppure, ci siamo ricascati. Abbiamo ricominciato a costruire barriere, limiti, confini, a chiudere le porte. E se questo non bastasse, queste barriere sono spesso a doppia mandata, quasi a ribadire il concetto: qui, a voi, non vi vogliamo. La questione cipriota dimostra che quanto sta accadendo non può essere imputato semplicemente ad una autistica politica dell’immigrazione, ma la retorica del binomio voi/noi è troppo ghiotta per non essere colta dai politici più scafati. L’altro è oltre la barriera, oltre il Mediterraneo, oltre terre esotiche dal nome difficilmente pronunciabile. Altri schieramenti obiettano: siamo noi quelli che non aiutano lo straniero in difficoltà.
Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione UE, ha usato parole difficilmente fraintendibili: “Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa”. Un discorso accorato e probabilmente sinceramente sentito, ma, appunto, retorico: mentre Juncker scriveva quelle sue righe, al confine tra la Macedonia e la Grecia si stava consumando un dramma che coinvolgeva migliaia di persone in fuga dal nord dell’Ellade, cercando di fuggire quanto più lontano possibile da Siria ed Iraq. Dalla capitale macedone, il 20 agosto, viene diffuso un comunicato ripetuto quasi a noia dalle principali agenzie stampa: “In considerazione di una pressione crescente alla frontiera meridionale e di un flusso migratorio più intenso nel corridoio balcanico, si ritiene necessario un controllo più forte ed efficace nella regione frontaliera, dove si registrano passaggi illegali e massicci in provenienza dalla Grecia”.
“Fortunatamente”, gli scontri più duri si sono consumati nei pressi della stazione ferroviaria di Gevgelija, così che è stato facile caricare i migranti per condurli il più vicino possibile alla Serbia, primo scalo verso il cuore dell’Europa, con precedenza data a donne e bambini. Anche se è difficile pensare che il loro viaggio potrà continuare senza problemi, dato che l’Ungheria è stata tra i primi paesi della regione a dotarsi di un complesso sistema di reti e filo spinato. Pochi giorni fa, grazie a un video pubblicato da Channel 4 News, questa barriera è stata oggetto dell’attenzione dei media internazionali: le immagini mostrano come il confine venga superato con relativa facilità da uomini e donne in fuga. Non avrei difficoltà a credere che i volti delle fotografie scattate in quel frangente fossero gli stessi di quelle raccolti pochi giorni prima sul confine macedone.
Intanto a Calais, i ministri degli interni di Francia e Gran Bretagna hanno trovato un accordo per mezzi supplementari per la sorveglianza del tunnel della Manica. Dieci milioni di euro in due anni per le infrastrutture, più un numero ancora imprecisato di agenti di polizia. Nel frattempo, nella cittadina francese, viene costruita una curiosa favelas. Siamo ancora alle fondamenta, ma già una chiesa di lamiera e tendoni è pronta per celebrare messa. Da una fotografia aerea possiamo intravedere una di queste improvvisate costruzioni cosparse di scritte in inglese ed arabo (shop, دكان), prime avvisaglie della slumizzazione del mondo occidentale preconizzato nel 2006 da Mike Davis con il suo Il Pianeta degli Slum.
Cosa è successo? Cosa ci ha spinto a costruire di nuovo queste mura, a tracciare queste linee, a difesa del continente? Non serve uno storico dell’architettura per ricordare che il processo di abbattimento di mura e confini si avviò durante la seconda rivoluzione industriale. Vienna, Milano, Parigi: le principali capitali europee non avevano più bisogno di quell’ingombrante eredità. Forse è questa l’Europa sognata da Juncker, un’Europa dove l’obsolescenza funzionale di cinte difensive era premessa di nuovi raccordi e giardini. Ma questa Europa è un’anacronismo che vive in libri di storia mal letti, perché se è vero che la storia dell’Unione Europea è stata scritta principalmente con picconi e martelli, i dissapori che avevano creato quei confini non sono mai stati realmente affrontati, e tolti i punti, la ferita spesso è rimasta aperta.
Nel frattempo, in un paesino francesce comprare una piccola favela cosparsa di scritte in inglese e arabo, come: shop, دكان.
Il muro che fu
L’abbattimento del muro di Berlino ha scoperto una ferita che, a vent’anni dall’operazione, ancora non si è rimarginata del tutto. Dilungarsi sulle vicende del muro berlinese sarebbe superfluo, ma è interessante osservare come il muro sia stato costruito proprio a tamponare alcune direttrici chiave, come la Nord-Süd Achse, il grande viale voluto da Adolf Hitler che lo avrebbe dovuto condurre alla guida del suo impero.

Malamente progettato ed ancor peggio realizzato, alto a malapena 3.60 metri e spesso poco più di 30 centimetri, per 28 anni il Muro di Berlino ha rappresentato nell’immaginario occidentale il confine ad est del Mondo. Dal punto di vista della pianificazione territoriale, la Barriera di protezione antifascista, o Antifaschistischer Schutzwall, com’era stata ribattezzata dalla Germania dell’Est, non offriva spunti di particolare innovazione. Ma è dal punto di vista geopolitico che la barriera eretta dalla DDR sviluppa un elemento inedito di particolare importanza: la frontiera non serviva a dare supporto militare in caso di un’invasione, ma ad impedire un’evasione. I soldati stipendiati dal governo filo-russo si trovarono così nell’atroce paradosso di dover rivolgere le spalle al proprio nemico, puntando i fucili verso il popolo che avevano giurato di proteggere.
Riesco a raccogliere alla mente il ricordo di un filmato dell’abbattimento in cui è stato mantenuto l’audio originale: le urla, gli applausi, i fischi coprono picconi e macchine da cantiere. È probabile che il rumore causato dalla caduta del muro sia stato un suono sordo, oppure simile a quello di una piccola frana. Ma la festa era troppo chiassosa, ed ogni suono della caduta di quel muro fu coperta. Finita la sbornia, ci si è ritrovati all’improvviso di nuovo ad essere circondati da mura: nei Balcani, tra Grecia e Turchia, tra Bulgaria e Turchia, in Irlanda, in Italia, in Francia, in Romania. Ancora una volta: com’è stato possibile?
Certo, si potrebbe dire che in fondo ogni confine è utile per dare corpo a questa comunità europea smarrita, dato che i margini interagiscono “in maniera profonda con i luoghi e gli spazi che segnano e danno forma ai nostri orizzonti mentali, alle nostre identità”, come scrive Piero Zanini nel suo Significati del confine. Il confine, dopotutto, è anche lo spazio dove diverse identità s’incontrano confondendosi l’un l’altra. Ma la costruzione di un muro non è mai un’operazione neutra.
Proviamo a riprendere in mano quel foglio bianco che all’inizio di queste righe vi avevo chiesto di riempire di scarabocchi. Il nostro quadrato (o rettangolo, in base a ciò che abbiamo disegnato) è ancora lì, a rappresentare quanto ci eravamo immaginati. Ma ciò che potrebbe sfuggire ad un primo sguardo è che l’estensione di un muro, o di un confine, non incornicia semplicemente un ambiente o un territorio, ma definisce anche ciò che gli è esterno, istituendo così un duplice statuto di esistenza rispetto a quel confine: chiunque sia “dentro” potrà trarre beneficio dai vantaggi apportati dal confine, al contrario di chi invece è fuori, condannato a piccoli o grandi nomadismi. Il senzatetto, il barbone, il reietto, l’esiliato: questi statuti sociali nascono come diretta conseguenza dall’esclusione dei benefici di mura o confini. D’altronde, a volte è preferibile non essere garantito da tali benefici, come nel caso della prigionia, del sequestro, della quarantena o della clandestinità. Quest’ultimo in realtà vive l’esperienza di essere egli stesso confine, perché porta con sé la sua condizione di alterità assoluta rispetto alla società in cui si muove cercando di nascondere il proprio statuto, il proprio corpo.
Il confine è il vero interregno in cui la legge è sospesa. Lo spessore della linea è il sottile spazio su cui il funambolo si tiene in equilibro tra le autorità di due superpotenze.
Insomma, la linea, il muro, il confine separa due regimi politico-giudiziari. Ma noi sappiamo che questa linea, questo muro, questo confine deve avere anche uno spessore: vari metri, come nel caso di un confine territoriale, o pochi centimetri, come nel caso di un muro. Dunque, quale regime politico-giudiziario è possibile applicare all’interno di questo spessore? Il confine è il luogo dell’anarchia, il vero interregno in cui la legge è sospesa. Lo spessore della linea è il sottile spazio su cui il funambolo si tiene in equilibro, i trenta centimetri in cui uno sconosciuto sfida le autorità di due superpotenze.
Ma confondere questo spazio interstiziale con un luogo di libertà sarebbe un grave errore, perché qui, assieme alla legge, decade ogni diritto, come accadde nel settembre del 2012 per venti eritrei richiedenti asilo, intrappolati per più di una settimana tra la frontiera egiziana e quella israeliana. Le autorità dei due paesi non concessero nulla a quegli individui, proprio perché ricaduti in un vuoto legale lineare non attraversabile dalla legge, anche quella che imporrebbe l’aiuto umanitario. Sopravvissuti a quel vuoto, il gruppo fu condotto in un centro di detenzione per migranti, altro luogo in cui la legge viene sospesa.
Ma sono le acque internazionali del Mar Mediterraneo ad illustrare alla perfezione l’implicita anarchia racchiusa nello spessore di un confine. Un confine che si espande, gonfia la sua incompetenza legale, sino a toccare la terra ferma, e di lì sempre più a sud, attraverso il deserto, fino a raggiungere il cuore dell’Africa. Di fatto, la barriera che separa l’Europa dall’Africa è come se inglobasse lo stesso continente africano, espandendosi anche in Medio Oriente, formando lande sterminate in cui il diritto è sospeso. Carne esausta fa da nutrimento alla fauna che popola questo strano dominio.
Da sud-est, quello che un tempo era una nazione corteggiata dai burocrati europei, è diventata ora una vicina sgradita. Così – anche se Juncker non sembra apprezzare – Grecia e Bulgaria hanno avviato i lavori per confinare la Turchia, colpevole di non ostacolare i flussi migratori diretti verso l’Europa. Così, la Turchia ha recentemente reagito alla possibilità di essere completamente esclusa dalla partita europea erigendo anch’essa la sua barriera anti-migranti: 235 km previsti sono già stati eretti in passato, nel fallimentare tentativo di limitare il passaggio dei foreign fighters, prossimi cittadini dello Stato Islamico. Ma il traffico in entrata ed in uscita ha recentemente convinto il governo che una mossa mediatica vincente fosse quella di aggiungere 450 km di cemento, conditi da sofisticati dispositivi tecnologici per la sicurezza (dai sensori di movimento alle telecamere attrezzate per la visione notturna). Pare che Obama abbia apprezzato gli sforzi del presidente Recep Tayyip Erdogan, soprattutto per l’opportunità di aprire in territorio turco una base NATO. Un obolo che sicuramente Juncker apprezzerà: la disponibilità di un alleato con una posizione egemone nella regione non può essere ignorata.
Anche se l’Unione si è dichiarata contraria alla costruzione delle due barriere costruite da Bulgaria e Grecia, ciò non ha impedito che i fondi UE andassero a finanziare i confini ultra-tecnologici di Ceuta e Melilla, enclave spagnole in territorio marocchino rappresentanti l’avanguardia nel settore della Crime Prevention Through Environmental Design. La barriera è formata da una doppia rete alta circa sei metri e profonda altrettanto, sormontata da filo spinato da entrambi i lati e riempita con lame. A corollario di tutto ciò, telecamere termiche, droni, sensori di movimento e soldati: tutto a garantire la sicurezza del Continente.
Ceuta e Melilla sono delle vere e proprie gated community continentali, e le immagini video prodotte da Pro.De.In., associazione non governativa spagnola per i diritti umani dei migranti, sono in questo senso emblematiche. In uno dei loro più famosi video, pubblicato nell’ottobre del 2014, vediamo in primo piano degli individui che giocano a golf in un prato perfettamente rasato, mentre sullo sfondo, una decina di persone cavalcano la rete nella convinzione (o speranza) che la nullità giuridica garantita dal confine possa proteggerli. Pochi giorni più tardi, la stessa Pro.De.In., in un altro video, ha mostrato quanto questa convinzione si sia rivelata errata.
Lo spessore della linea sarebbe così un luogo ambiguo, in cui convivono l’emancipazione più assoluta con l’asservimento più totale. Léopold Lambert, in Topie Impitoyable, fa notare come questo spazio non sia creato a partire da uno schema o da una planimetria, ed infatti, raccogliendo di nuovo il nostro foglio noteremo che non siamo in grado di comprendere o di controllare ciò che si nasconde all’interno dello spessore delle linee che abbiamo tracciato. Paradossale, se pensiamo che queste barriere nascono proprio dal desiderio di controllare e di normare. Chissà, forse nel solco che abbiamo lasciato con la matita sul nostro foglio si stanno proprio ora nascondendo fuggitivi o migranti, invisibili e nudi, pronti ad invadere la nostra quotidianità.
Critico e teorico dell'architettura, nel 2012 è tra i fondatori della Deleyva Editore, di cui è attualmente direttore editoriale. Dal 2015 è direttore esecutivo dell'Associazione Italiana Transumanisti.