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La «musica di merda» è un valore assoluto? È possibile che un giorno ci troveremo a rivalutare tragedie tipo Giovanni Allevi, Il Volo e i Modà?

La bruttezza di una musica è definibile su diverse dimensioni: storica (quando si riferisce a valori non condivisi da nessun movimento ad essa contemporaneo), sociale (quando è ascoltata da gruppi di persone che sono supposti avere cattivo gusto), politica (se porta acqua a mulini sgraditi, in senso molto lato), intellettuale e via discorrendo.

Parlare di musica brutta, ovviamente, implica un aspetto percettivo. Se tutti fossimo d’accordo sul fatto che quella dei Modà sia musica brutta, i Modà non avrebbero lo stimolo o la possibilità di produrre musica. Un brillante paradosso culturale della nostra epoca invece è quello per cui questi gruppi siano percepiti come produttori di musica brutta solo da un’assoluta minoranza della popolazione italiana.

Incidentalmente, è un’assoluta minoranza di appassionati che sentono il bisogno di esprimere le loro opinioni in merito a quale musica sia bella o brutta molto più spesso della media degli altri esseri umani, il che va a generare una certa schizofrenia del giudizio. Come è possibile che Il Volo trionfi a Sanremo con un pezzo così tamarro, sguaiato e privo d’autoironia? Non esistono leggi che lo impediscano? Le persone che ascoltano Il Volo sono persone come noi o sono più brutte e tristi? Non sentono il bisogno di una guida che dica loro cosa ascoltare?

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Dimmi che saaaaaaaaaaaaai, che solo me sceglieraaaaaaaaaaaaaaiiiiiiii...

Nell’ottobre del 2014 ISBN ha tradotto e pubblicato Let’s Talk About Love: Why Other People Have Such Bad Taste, saggio di Carl Wilson uscito originariamente nel 2007 che analizza un disco di Celine Dion come emblema della musica brutta, concedendosi una riflessione sul perché certa musica risulta ai contemporanei più irritante di altre.

Per l’occasione, il libro è stato intitolato Musica di merda (non so voi, ma questo genere di macelleria cognitiva sui titoli italiani mi esalta e mi fa sperare in un futuro migliore per questa nazione). È un ottimo libro, forse un po’ prevedibile, su un argomento che per il pubblico potenziale di Carl Wilson non è affatto controverso. Nessuno ha un’opinione attiva e positiva su Celine Dion, e se qualcuno ce l’ha non è un’opinione che arriva fino agli scaffali che contengono questo genere di libri. Wilson ne è del tutto consapevole e il punto del suo libro è soprattutto stuzzicare queste persone. Ne sono rimasto stuzzicato io stesso. Ho rimediato il libro in una fase della vita nella quale mi ponevo qualche domanda su quello che amo e non amo, musicalmente parlando, e su cosa questo dice di me.

Ogni epoca ha la propria musica brutta, dicevo. La maggior parte di questa è destinata a scomparire nel corso del tempo, magari dopo aver macinato dieci milioni di copie e qualche scorreggia da parte dei critici: sparisce dalle playlist e viene ripescata una ventina d’anni dopo in quota meteore, come un’informale cortesia tributata al peggio dei nostri anni migliori. In certi casi attecchisce in alcune sottoculture da cui escono alcuni dei talenti che segnano i tempi futuri, e in quei casi viene ripescata e ripercorsa dall’inizio alla scoperta di lati salvabili o di un vero e proprio paradigma di rifondazione critica.

Certo pop romantico, per esempio, o i fumetti di avventura da due lire da cui Lucas e Spielberg trassero la loro poetica (spostandoci al cinema). In certi casi questa ridiscussione/rivalutazione pone le basi di un rigetto in blocco di tutto l’impianto culturale che aveva svilito certa musica di merda, con il risultato (tanto per dire) che nel racconto odierno degli anni Novanta le implicazioni culturali sono tali e tante da far sì che i Prodigy siano visti molto peggio degli Eiffel65.

«Quello che viviamo è un periodo molto particolare per la musica brutta: molta della musica migliore dei nostri anni ricicla materiali di scarto della nostra cultura, in un modo che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile considerare in contesti di musica d’avanguardia»

È uno strano gioco di corsi e ricorsi secondo cui tutto è mondo e niente è per sempre. Più di tutto, sono cose che succedono in un sistema culturale in cui il riciclaggio della memoria è ancora una delle principali monete di scambio.

Quello che viviamo è un periodo molto particolare per la musica brutta: molta della musica migliore dei nostri anni ricicla (spesso in tempo reale) materiali di scarto della nostra cultura, in un modo che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile considerare in contesti di musica d’avanguardia. Vaporwave, hypnagogic pop, witch house e generi simili: madonnine luminose, VHS con spettacoli da seconda serata di Telemare, computer music dozzinale, lounge music contemporanea, brutti jingle, musica da videogame, tutto ricontestualizzato in nuovi pattern sonori che hanno il suono di un mondo che si mette in discussione.

Oneohtrix Point Never e James Ferraro i primi nomi a venire in mente (Far Side Virtual è il punto d’inizio di un certo dibattito), ma lo scorso anno cose come Xen di Arca hanno segnato il passo del pop più di quasi tutto il resto. Rimando all’articolo di Valerio Mattioli già uscito su queste pagine per un approfondimento in merito alle implicazioni accelerazioniste del tutto.

È bizzarro rendersi conto che persino la musica italiana sta subendo, tutto sommato, la stessa revisione. Piuttosto macroscopico il caso del ripescaggio indie degli 883, iniziato come una specie di scherzo e proseguito a formare una specie di corpo letterario a sé, una mobilitazione critica che ha rimesso in circolo un immaginario specifico, che unisce musica, parole e provincialismo in un modo tutto sommato non diverso da quello che venne praticato, poco prima o poco dopo, da gruppi come I Cani e il giro Garrincha Dischi.

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883 = Indie

Tornando all’avanguardia quotata, non è molto diversa nelle premesse l’operazione messa in piedi dal romagnolo Lorenzo Senni, che sta ricostruendo chirurgicamente una verginità alla cosiddetta trance (che vent’anni fa veniva amorevolmente chiamata tunz da chiunque non ci volesse avere a che fare, più o meno gli stessi che non volevano avere a che fare con gli 883 e ora li ripescano, me compreso sia chiaro), lavorando a più livelli su dischi che un po’ mirano a rifondarla da capo a piedi, e un po’ la ripropongono tale e quale senza la cassa.

Certo, roba con un respiro un po’ più internazionale. Il punto qui è che il prestigio di Senni, che viene recensito sulle più importanti pubblicazioni di settore e suona a festival di elettronica di pregio assoluto, non è il risultato di un equivoco.

L’intervento di Lorenzo Senni viene fatto alla luce del sole e in assoluta buona fede. Assomma una dimensione di particolarismo sub-nazionale (la riviera dei club, l’immaginario decotto degli anni novanta eccetera) a qualche intuizione legata a parlare la lingua di tutti. Valore aggiunto: avviene in un periodo nel quale questi suoni subiscono anche uno sdoganamento in senso pop.

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Lorenzo Senni: avant-tunz?

Per fare un esempio, una delle cose più significative per la cultura italiana di massa a fine 2014 è stata la reunion della più celebre formazione di conduttori del Deejay Time: Albertino, Molella, Fargetta e Prezioso tornano in azione per un pomeriggio su Radio Deejay, nella stessa fascia oraria dei Bei Tempi Andati. Ascolti da record, articoli celebrativi, un mare di nostalgia.

Albertino, intervistato da Soundwall, parla del Deejay Time come di uno dei programmi più rischiosi ed innovativi della storia della radio italiana. È difficile dire quanta/quale acqua sia passata sotto i ponti nell’ultimo decennio, ma qualcosa ci ha reso tutto sommato docili e disponibili ad accettare queste cose dette da Albertino come se rispondessero, almeno in parte, a verità. Personalmente non posso dire di avere apprezzato il Deejay Time nella seconda metà degli anni Novanta, e non credo che fosse colpa del mio retroterra indie o metal o vattelappesca: suona molto più onesto accettare una certa dose di revanscismo, diciamo così, in questo genere di nostalgia per gli anni ottanta più truzzi e sgaiati.

Quella del Deejay Time era perlopiù musica brutta, molto allineata con le proprie premesse e poco stimolante dal punto di vista dei linguaggi. Contestualizzata alla sua epoca era molto meno rischiosa, tanto per fare un esempio, delle scalette oggi messe insieme da gente come Bernocchi e Della Gherardesca per Acapulco, mezz’ora di musica fuori asse in onda il pomeriggio su Radiodue. Un programma che dallo stesso Albertino, secondo i termini della stessa intervista, sarebbe considerato «di nicchia». D’altra parte è difficile capire se percepiremo ancora come rilevante la musica spacciata da Acapulco tra vent’anni: è estremamente probabile, diciamo, che nessuno si porrà il problema, e questa probabilmente vale come risposta in sé.

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«Grazie alla musica, ho potuto attraversare mille vite». L'ormai famigerato trailer di Love, l'ultimo album di Giovanni Allevi.

Curioso tra l’altro che il suo ex mentore Jovanotti si comporti in modo esattamente opposto, muovendosi per creare consenso orizzontale tra gli appassionati di musica con dischi fondati su un’ossessiva qualità formale e suoni à la page, oltre che una politica di spietata occupazione degli spazi culturali, come dimostra il battage attorno al suo ultimo disco.

Jovanotti ha la fama di brava persona e ragazzo tranquillo, e può contare su una certa percentuale di giornalisti a favore. Tutto sommato il risultato finale non è distantissimo dalle dinamiche che portano Madonna ad esporre via twitter una complessa teoria filosofica che introduca l’esistenza di una implicita dimensione di fanatismo dentro l’odio scriteriato per un artista di cui si segue ogni mossa pubblica, tranne che la sua dimensione. A sfavore della teoria c’è il fatto che non è possibile perdersi una mossa pubblica di Madonna, e il fanatismo legato a non sopportarla può essere interpretato come una forma di fanatismo dell’esistere nella società occidentale contemporanea.

L’incremento vertiginoso di analisi e pareri sulla musica, in ogni caso, ha ammorbidito di parecchio i confini tra bello e brutto: il frazionamento dell’autorità critica che segue l’esplosione dei blog fa sì che qualsiasi opera con almeno un punto d’interesse possa godere di analisi approfondite e sovrainterpretazioni. In molti casi questo tende a delegittimare l’odio per certe opere: il fatto che qualcuno sia un fan di ciò che stai stroncando, e che lo sia a ragion veduta, ti rende in qualche modo un nemico del quieto vivere.

Per certi versi questo ha portato ad uno squilibrio nel sistema di valori e ad una mancanza di punti fermi a cui si reagisce come si può. Non ultimo, abbracciando esempi di brutto inequivocabile come ultimi baluardi di una purezza artistica dal basso. In quest’ottica è abbastanza comprensibile l’affetto che ai tempi venne tributato a certi fenomeni youtube millelire tipo Spitty Cash e il cosiddetto lolrap: perlomeno sono personaggi su cui si è tutti d’accordo.

«Sembra quanto mai importante insomma ritornare ad un accordo sulla musica di merda, o sulla merda in generale»

In modo non molto diverso, è abbastanza comune malsopportare certe fiction RAI che hanno l’ambizione di entrare nel nostro paniere e manifestare simpatia/fanatismo per prodotti ben peggiori che non ce l’hanno. Non si era ancora spenta l’eco delle decine di articoli volti ad illustrare nei dettagli quanto e come L’Oriana, fiction di RaiUno sulla Fallaci, fosse sostanzialmente merda propagandistica di infimo livello, quando più o meno le stesse persone hanno iniziato ad impallinare le inesattezze e le caciaronate di 1992.

Molte di queste persone sono le stesse che passano poderosi quantitativi del loro tempo libero a riguardare spezzoni di The Lady, una web-serie di Lory del Santo che ha costruito tutto il suo notevole successo venendo sbeffeggiata e diventando oggetto di culto e di una manciata di analisi estetico-ideologiche tra le più coinvolgenti degli ultimi anni. Il successo critico di The Lady è solo in parte spiegabile nell’ottica del so bad it’s good, una categoria dello spirito che ha perso quasi tutta la sua importanza. Forse bisogna iniziare a ragionare in termini di, non so, so bad it’s bad. O forse so bad it’s cultural.

Quasi tutto il successo della serie è dovuto al fatto che nemmeno le persone che apprezzano Incantesimo non potrebbero mai apprezzare The Lady. Con Lory Del Santo non si rischia niente: leggi un’analisi positiva di The Lady ed entri automaticamente in un processo di approfondimento intellettuale; una stroncatura di The Lady, al contrario, potrebbe essere scritta da chiunque si trovi in mano una tastiera. Oltre a questo, c’è una dimensione comunitaria in più: nessuno è davvero convinto che The Lady sia davvero una buona serie, ma è innocua e non sporca dove passa. Le analisi critiche di The Lady non fanno litigare con nessuno.

In qualche modo sono punti di partenza. La cultura del trash ad ogni costo sta perdendo terreno in favore di una rettorica della complessità che tende ad inglobarlo all’interno di un discorso politico/artistico estremamente stratificato. Secondo questa ottica è probabile che il primo passo per dare un’interpretazione sensata e globale della nostra epoca (o che sostituisca almeno parzialmente lo stordente effetto dell’affastellarsi continuo delle opinioni in gioco) sia quello di ridefinire gli standard minimi del nostro gusto. Sembra quanto mai importante insomma ritornare ad un accordo sulla musica di merda, o sulla merda in generale: cosa sia oggi, cosa danneggi e cosa nobiliti, con quali armi vogliamo combatterla.

Francesco Farabegoli
Consulente editoriale di PRISMO. Ha fondato Bastonate, scrive per Rumore, Noisey e altre cose in giro. Di tanto in tanto disegna.

PRISMO è una rivista online di cultura contemporanea.
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