Sistematicamente ignorata nel racconto apocalittico che si tramanda nel solco dello “scontro di civiltà”, la musica devozionale sufi continua a essere un simbolo per oltre mezzo miliardo di musulmani.
Quando amici o parenti in viaggio passano per New Delhi, cerco sempre di mettere in atto un piano turistico forse sadico ma, mi dicono, d’effetto. Si tratta di una terapia-shock che riscontra i risultati migliori quando applicata a pochissime ore dall’atterraggio, quando l’effetto straniante di ritrovarsi immersi nel caos maleodorante di una megalopoli da oltre 20 milioni di abitanti si mischia ai primi sentori di una disillusione cocente.
In effetti, bastano poche ore di slalom tra gli autoriksha impazziti e una passeggiata nella sovrappopolatissima Old Delhi tra macellerie “open air”, botteghe di chincaglieria assortita e ristoranti di carne all’ombra dei minareti della Jama Masjid, per rendersi conto che qui, nella capitale di una nazione sinonimo di “spiritualità & misticismo”, di templi e santoni non ce ne sono, almeno a prima vista. Di conseguenza molti – dopo aver spuntato dalla lista delle tappe imprescindibili il Red Fort, il Gate of India e il vicino Taj Mahal di Agra – cercano comprensibilmente di allontanarsi il più possibile dallo “schifo” di New Delhi, spostandosi verso lidi più consoni alle aspettative di un viaggio in un’India fino a quel momento solo immaginata: le cittadine infiocchettate del Rajasthan, il bagno di spiritualità di Varanasi, le lezioni intensive “due settimane e rilascio attestato di esperto yogin” di Rishikesh, per i più coraggiosi il fascino decadente di Calcutta…
Ma chi albertoangelamente “ha la pazienza di seguirmi”, il giovedì pomeriggio intorno all’ora del tramonto viene entusiasticamente scarrozzato alla fermata dei bus Hazrat Nizamuddin, in cima al viottolo che da Mathura Road conduce verso la dargah dedicata al santo sufi Hazrat Nizamuddin Auliya. A quell’ora il mercato antistante il santuario brulica di fedeli musulmani indiani, kashmiri, afghani e africani appena usciti dalle diverse moschee del quartiere, dopo la preghiera del tramonto: un mare di cappelletti bianchi (tòpi, in urdu) che può suscitare angoscia a chi, di questi tempi, arriva da un Occidente saturo di retorica sull’Islam come dottrina dell’odio.
Non senza fatica, di fronte a un muro di musulmani che manderebbe in escandescenza salviniani, borgheziani e tardo-fallaciani, si seguono gli spiragli che si aprono nella folla e si superano carretti di spiedini di carne e pakora fritte, zaffate di curry di pollo e naan ancora caldo di tandoori, fino a raggiungere una strettoia adibita a mercato della devozione. Uno dopo l’altro si sorpassano banchetti che espongono dolci, corone di fiori e petali di rose da offrire alla tomba del santo, copie del Corano e degli Hadith, i racconti aneddotici della vita di Maometto, tappetini per la preghiera e arazzi colorati con passi del Libro in nastaliq, la calligrafia islamica di origine persiana ancora ampiamente in uso come forma d’arte in tutto il subcontinente. Consegnate le scarpe prima dell’ultimo arco del bazar, ci si può finalmente immergere scalzi all’interno del santuario: tra le tombe degli adepti del santo sufi brulicano fedeli di ogni sesso ed età, in un caos mitigato dal contegno che si riserva a una delle mete più sacre della geografia sufi dell’Asia Meridionale.
La dargah è un luogo di culto musulmano, ma aperto a tutte le confessioni religiose, in virtù di una tradizione sincretica e pacifica che nel subcontinente indiano, col sufismo, ha esercitato un’influenza ineguagliata nel plasmare i tratti distintivi di un popolo per cui multiculturalismo e commistione di tradizioni sono la norma da almeno sette secoli. Davanti alla tomba di Hazrat Nizamuddin, seduti a terra su un enorme tappeto e rinfrescati periodicamente da sbandieratori di giganti ventagli di stoffa, ogni giovedì sera i fedeli in pellegrinaggio si stringono intorno ai qawwal, gli artisti che intonano le lodi ad Allah e al profeta messe in musica. Assistono, cioè, a un concerto di qawwali.
Questo tipo di assemblee spirituali, nei territori che oggi chiamiamo Pakistan, India e Bangladesh, sono una tradizione introdotta dai primi mistici musulmani arrivati nel subcontinente nel tredicesimo secolo, portatori di una dottrina islamica molto progressista. Come spiega lo storico Raziuddin Aquil nel suo Music and Related Practices in Chisti Sufism: “La tradizione profetica fa riferimento a tre dimensioni dell’Islam: islam, o ‘sottomissione’, imposta dai giuristi; iman, o fede, predicata dai teologi; e ihsan, fare cose belle, praticata dai sufi. L’obiettivo principale dei sufi è la ricerca della vicinanza o dell’unione a un dio amorevole e misericordioso attraverso la preghiera, il ricordo, la meditazione e gli esercizi spirituali (alcuni dei quali potevano non essere approvati dagli ulema [i dotti musulmani di scienze religiose, ndt]). Questa terza dimensione, ihsan, costituisce il cuore della religione, fatto di sincerità, amore, virtù e perfezione a cui i sufi aspirano”. Secondo il sufismo, quindi, avvicinarsi al divino attraverso “il bello” comportava una pratica artistica che mischiasse la bellezza estetica all’estasi della professione di fede in un dio adorato, amato alla follia. Un dio del quali cantare le lodi.
Nonostante la musica, durante la prima parte del Sultanato di Delhi (fondato nel 1206 e caduto nel 1526), fosse considerata haram, proibita, i devoti di Hazrat Nizamuddin Auliya già alla fine del tredicesimo secolo assistevano a concerti di qawwali in cui, seguendo i precetti dettati dal santo “i cantanti devono essere maschi adulti, non bambini o donne. Il cuore dell’ascoltatore deve essere ricolmo d’amore e devozione per dio. Il contenuto dei testi non deve essere volgare. Gli strumenti musicali […] non devono essere utilizzati e tutto ciò che si ascolta lo si fa nel ricordo di dio e, quindi, costituisce una pratica halal, permessa” (Aquil, ibid). Ma se Nizamuddin, sfidando l’ortodossia dei dotti sunniti, in un processo religioso tenutosi alla presenza del sultano Ghyasuddin Tugghluq riuscì a convincere il monarca della legittimità dottrinale di queste “assemblee musicali”, il fiorire della musica devozionale sufi, in ininterrotta evoluzione fino ai giorni nostri, si deve all’influenza del poeta e musicista Amir Khusrow (1253 – 1325).
India, Pakistan e Bangladesh sono rispettivamente il secondo, il terzo e il quarto paese per popolazione musulmana al mondo (il primo è l'Indonesia); più di un musulmano su tre vive in Asia Meridionale.
Khusrow, amico e discepolo di Nizamuddin, sepolto nella dargah a pochi metri dal suo mentore, introdusse l’utilizzo degli strumenti nelle assemblee musicali e scrisse centinaia di poesie che, musicate, presero la forma di qawwali e ghazal (componimento in versi in lingua urdu, pilastro della produzione poetica pachistana) tramandati di generazione in generazione e ancora cantanti dai qawwal contemporanei.
Sistematicamente ignorata nel racconto tetro e apocalittico che in Italia si tramanda nel solco dello “scontro di civiltà”, la musica devozionale sufi per oltre mezzo miliardo di musulmani subcontinentali – India, Pakistan e Bangladesh sono rispettivamente il secondo, il terzo e il quarto paese per popolazione musulmana al mondo (il primo è l’Indonesia); più di un musulmano su tre vive in Asia Meridionale – continua a essere il simbolo di un modo di essere musulmani diametralmente opposto agli orrori di Al Qaeda o dello Stato Islamico. E che trova nei cantanti sufi contemporanei i profeti (e le profetesse) di una mistica che trascende le moschee, gli imam e il Corano, diffusa attraverso la poesia e la musica seguendo una tradizione orale secolare.
Per provare a capire e raccontare questi “altri” musulmani, al posto di incasellarli automaticamente tra i seguaci di Al Baghdadi e i bigotti del wahabismo, basterebbe, letteralmente, ascoltare quello che dicono. Prendiamo Abida Parveen: nata nel 1973 nella provincia del Sindh (Pakistan), soprannominata “la regina della musica sufi”, è considerata tra le più grandi voci femminili nella storia di questa tradizione musicale. Introdotta alla musica devozionale dal padre Ghulam Haider, già compositore di colonne sonore per il cinema indiano, prosegue i propri studi con maestri di musica classica pachistana e agli inizi degli anni Novanta la sua fama supera i confini del Pakistan, facendone di fatto una superstar a livello mondiale.
Parveen, che canta in urdu, punjabi, sindhi e farsi, è nota soprattutto per le interpretazioni di kafi (poesie di tradizione sufi originarie dell’odierno Pakistan) del poeta e filosofo sufi Bulleh Shah (1680-1757). In questa versione live delle liriche di Shah – un medley di poesie del 1700! – la vediamo accompagnata da tabla e harmonium:
Nel brano riportato sopra, Parveen canta:
Il Dio che trovi cercando nella foresta
Si trova tra gli uccelli, i pesci e gli animali
O Bulleh Shah
I soli che trovano il Vero Dio sono i buoni e i puri di cuore
Quanto hai imparato leggendo migliaia di libri
Quanto hai imparato leggendo migliaia di libri
Ma hai mai letto ciò che c’è dentro di te?
Vai in moschea o al tempio
Vai in moschea o al tempio
Ma hai mai visitato la tua anima?
Voi che combattete Satana
Avete mai combattuto il male che è dentro di voi?
Avete raggiunto il cielo
Ma non siete arrivati a ciò che si trova nel vostro cuore
Vieni nella mia dimora, Amico
Mattino, giorno e notte
Vieni nella mia dimora, Amico
Mattino, giorno e notte
Abbattete le moschee
Abbattete i templi
Abbattete ciò che volete
Ma non distruggete il cuore dell’uomo
Perché è nel cuore che Dio risiede
Ti ho cercato nella foresta e nella vegetazione più fitta
Ti ho cercato in ogni luogo
Non tormentarmi, allora, mio Amore
Mattino, giorno e notte
Vieni nella mia dimora, mio Amore
Mattino, giorno e notte
O ancora, nel kafi intitolato Tere Ishq Nachaya (“Il tuo amore mi ha fatto ballare”, in punjabi), sempre riprendendo Bulleh Shah:
L’amore e il fuoco si assomigliano
Ma l’amore fa più male
Il fuoco brucia il legno e l’erba
Ma l’amore brucia il cuore
L’acqua estingue il fuoco
L’acqua estingue il fuoco
Ma qual è la cura d’amore?
L’acqua estingue il fuoco
Ma qual è la cura d’amore?
Dice Ghulam Fareed, il santo Fareed
Nient’altro rimane laddove
L’amore decide di stare
Nere le mie vesti, nero il mio viso
Nere le mie vesti, nero il mio viso
Dentro di me nient’altro che peccato
È solo per la mia tunica che la gente mi chiama santo
Fareed, svegliati dal tuo sonno e vai per il mondo
Fareed, svegliati dal tuo sonno e vai per il mondo
Quando troverai qualcuno da perdonare
Allora sarai perdonato
Il tuo amore mi ha fatto ballare
Il tuo amore mi ha fatto ballare
Come un pazzo, come un pazzo
Guaritore, torna presto
Guaritore, torna presto
Altrimenti morirò
Il cantante pachistano Ghulam Ali, classe 1940, è invece uno dei più grandi interpreti di ghazal della sua generazione. L’amore, nella poetica ghazal, è disperato e totalizzante, un sentimento senza il quale l’animo dell’essere umano è incompleto. L’oggetto dell’amore spesso risulta irraggiungibile o si nega all’autore, che non può fare altro che struggersi nel dolore di un amore univoco, non corrisposto. Nei testi l’amato è sempre declinato al maschile, lasciando appositamente aperta la possibilità di diversi livelli di interpretazione: l’amato può essere una donna (la propria moglie o la moglie di un altro), un uomo (un amico, un mentore o un amante) o, misticamente, il Divino sufi.
Ciò che non cambia è la desolazione di un’esistenza senza l’amato, come canta Ali in Apni Dhun Mein Rahta Hun (“Vivo in questa mia condizione”, dall’urdu, ndt), ghazal del poeta Nasir Kazmi:
Ed ecco il testo:
Vivo in questa mia condizione
Anche io sono come te
O compagno del passato
In questo tempo presente sono solo
Vago tutto il giorno per il tuo cammino
Raccogliendo pietre di dolore
Chi incontrerà i miei occhi?
Io sono il tuo specchio
Chi ha acceso la mia candela? (la candela di cera accesa simboleggia l’amore che consuma, ndt)
Sono la tua camera deserta
Oltre a te chi si vestirà di me?
Io sono il vestito sul tuo corpo
Tu sei la strada ampia della vita
Io sono il cammino nella foresta
Il tempo che passa mi piangerà
Io sono la brezza della stagione che viene
Le mie onde sono la mia malattia
Sono io il fiume assetato
L’amore, nella musica devozionale sufi, fortunatamente talvolta viene anche ricambiato, provocando le esplosioni di estasi e felicità tipiche del qawwali. A differenza di kafi e ghazal, che prevedono una sola voce, la struttura corale del qawwali permette al gruppo di musicisti e cantanti di operare variazioni sul tema, sfidandosi in eclettismi vocali simili alle improvvisazioni del jazz. Queste evoluzioni vocali e strumentali, grazie alla loro spettacolarità, hanno permesso al qawwali di superare i confini geografici dell’Asia Meridionale, ingrossando le fila della cosiddetta world music.
I Sabri Brothers, attivi in Pakistan dalla fine degli anni Cinquanta, sono tra gli ensemble qawwali più famosi e longevi del subcontinente indiano. Dopo la morte dei due fratelli Ghulam Farid e Maqbool Ahmed, i discendenti maschi dei Sabri continuano a portare avanti la tradizione di famiglia che ora, oltre al subcontinente, li vede impegnati in tour di portata mondiale.
In quanto simbolo del sincretismo di un Islam pacifico, mistico e progressista, i Sabri Brothers in tempi recenti sono entrati nel mirino dell’estremismo islamico pachistano, che vede nel sufismo un nemico da annientare al pari dei cosiddetti “infedeli”. Il 22 giugno del 2016 Amjad Sabri, figlio di Ghulam Farid e “frontman” dell’ultima formazione dei Sabri Brothers, è stato assassinato a Karachi, in Pakistan, da un commando di terroristi affiliato ai Taliban pachistani. I sicari, arrestati dopo pochi giorni dalle forze di sicurezza, rivendicando il gesto hanno descritto Amjad come un “blasfemo”.
La morte di Amjad Sabri è stato l’ennesimo colpo inferto a una popolazione che in Pakistan è costretta a convivere con la minaccia costante dell’estremismo islamico ma che, indipendentemente dal fervore religioso, riconosce il sufismo e la musica devozionale come parte integrante della propria identità culturale, come hanno testimoniato le decine di migliaia di persone che si sono riversate per le strade di Karachi il giorno del funerale. In un toccante articolo pubblicato dal Washington Post il 24 giugno del 2016, l’opinionista e accademico Haroon Moghul scriveva: “[La morte di Amjad Sabri] è così importante, dolorosa e difficile da comprendere per così tanti musulmani – in particolari per i pachistani, come me – perché il qawwali è parte della nostra religione. In un periodo in cui l’Islam è ridotto a una violenza bellicosa e incivile e descritto come una fede rabbiosa e intollerante, il qawwali dimostra qualcosa di diverso. La diffusione storica dell’Islam in molto di quello che chiamiamo oggi il ‘mondo musulmano’ è avvenuta in gran parte attraverso l’architettura, la calligrafia, la poesia e forse, più di tutti, attraverso la musica”.
In questa versione live di Mera Piya Ghar Aaya (“Il mio Amato è venuto a casa”, altro qawwali composto da Bulleh Shah), Ghulam Farid Sabri e Maqbool Ahmed Sabri interpretano la gioia mistica dell’amante che, finalmente, vede rientrare a casa l’Amato. Non prima, però, di aver recitato alcuni distici “iconoclasti” di Shah:
Chi studia e studia sui libri
Chi studia e studia sui libri
Si fa chiamare giurista
Chi va in pellegrinaggio alla Mecca
Si fa chiamare pellegrino
Chi impugna la spada come un soldato
Si fa chiamare guerriero
Il santo Fareed, invece, non ha mai fatto nient’altro
Che provare a rendere felici i suoi compagni
Vieni, o Bellissimo
Vieni, o Bellissimo
E quando verrai
Ti coprirò di migliaia di benedizioni
Vieni, o Bellissimo
Vieni, o Bellissimo
E quando verrai
Ti coprirò di migliaia di benedizioni
Quando ti vedrò arrivare
Mi prostrerò davanti a te
Ti accoglierò
E correrò a baciarti i piedi
Caro mio, Vita mia
Donami uno sguardo, mio Re
Ti prego, fa che possa ospitarti
Perché sei così contrariato da me?
Fate suonare le campane
E che suonino a festa
Oggi il mio Amato è venuto a casa
Oggi il mio Amato è venuto a casa
Il mio Amato è venuto a casa
Dio ci ha unito
E ora è Lui a essere timido
Guarda, guarda
Il mio Amato è venuto a casa
Distribuirò dolci
Per far felice il santo
Vieni, amico mio, e congratulati con me
Mi sono unito al mio Amato
Oggi è un giorno glorioso
Il mio Amato è entrato nel mio cortile
E mentre rintoccano le campane di gioia
La nostra notte di felicità se ne va troppo in fretta
Se sapessero cosa prova ora il mio cuore
Fermerebbero le campane e le getterebbero via
Non so più niente di me stesso
Non so dove mi sono sposato
Non so più niente di me stesso
Non so dove mi sono sposato
Come possono rimanere nascoste queste cose
Quando la grazia di Dio si riversa su di me?
Infine, o Bulleh Shah, siedo sulla poltrona matrimoniale
Annegavo e sono stato salvato
Infine, siamo uniti
E niente ora ci può separare
Ora che il mio Amato è venuto a casa
Se però il funk ha avuto James Brown, la pallacanestro Michael Jordan e il calcio Diego Armando Maradona, anche nell’empireo del qawwali c’è un solo nome incarna la perfezione, la potenza e la grazia di un intero genere musicale: Nusrat Fateh Ali Khan.
Nato nel 1948 a Faisalabad, Pakistan, Khan ha rappresentato l’apice artistico di una dinastia di qawwal che ha attraversato ininterrotta più di sei secoli. Il padre Fateh Ali Khan, musicista, avrebbe preferito una carriera “normale” per il suo quinto figlio (quattro sorelle più grandi e un fratello minore, Farrukh), in linea con le aspirazioni della middle class pachistana post-indipendenza. Grazie a dio (è proprio il caso di dirlo) il talento eccezionale di Nusrat lo fece desistere, optando per un’istruzione musicale impartita personalmente fino alla morte, nel 1964, e proseguita sotto l’egida di suo fratello Mubarak Ali Khan, all’epoca a capo del “gruppo di famiglia”.
Con la morte di Mubarak, nel 1974, il testimone della dinastia Khan passa nelle mani di Nusrat, affiancato dal fratello minore Farrukh all’harmonium e da una schiera di cugini, nipoti e amici musicisti che comporranno l’imponente muro sonoro del “Qawwali party” di famiglia. Grazie a un’estensione vocale eccezionale e a una “pulizia del suono” maniacale, Nusrat Fateh Ali Khan in pochi anni consolida in Pakistan la fama di “re dei re del qawwali”, attirando la curiosità degli addetti ai lavori internazionali proprio mentre in Occidente prendeva piede la moda della cosiddetta world music. Dalla metà degli anni Ottanta Khan e il suo gruppo porteranno il qawwali di fronte alle platee di tutto il mondo, coinvolti in una serie di collaborazioni con musicisti come Peter Gabriel ed Eddie Vedder, che beneficiarono della voce di Nusrat nelle colonne sonore di The Last temptation of Christ e Dead Man Walking.
I qawwali di Nusrat Fateh Ali Khan, dalla versione “ortodossa” per voce, harmonium, percussioni, cori e battiti di mani, dagli anni Novanta sono stati a più riprese rivisitati in versioni più “Occidente friendly”, per esempio flirtando con la discomusic nell’ultimo concerto prima della morte (avvenuta nel 1997) registrato a Karachi e contenuto nell’album postumo Swan Song e, campionato, con l’elettronica (Massive Attack) e la dub (Gaudi), con risultati non sempre all’altezza delle aspettative.
Il Nusrat Fateh Ali Khan consegnato all’immortalità artistica rimarrà quello classico, che per quarant’anni ha prestato il proprio corpo e le proprie corde vocali all’estasi divina per un Allah riconosciuto dal sufismo come origine di tutto ciò che di buono c’è sulla Terra. Un dio amato e lodato come in Allah Hoo Allah Hoo, il qawwali composto da Nusrat Fateh Ali Khan che apriva tutti i suoi concerti:
Signore del mondo, anima del mio sangue
Tu sei il Promesso, non c’è Dio all’infuori di Dio
Ogni saggio è un allievo di Dio
In ogni fragranza non c’è Dio al di fuori di Dio
Tu sei il Creatore dei mondi, sei l’Adorato
Ogni cosa è testimone della tua presenza
Su ogni labbra la tua preghiera
Tu sei presente in ogni accordo, in ogni canzone
Ogni inizio è in tuo nome
Col tuo Nome tutto finisce
La tua preghiera è “gloria a Dio”
Tu sei il Dio del mio Mohammad
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Quando non c’era la Terra, quando non c’era il mondo
Quando non c’era né luna né sole, quando non c’era il cielo
Quando il segreto della Verità era ancora nascosto
Quando non esisteva niente c’eri tu, proprio tu
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Ogni cosa rispecchia la tua gloria
Ogni cosa grida che tu sei il Signore
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Tua è la perfezione della bellezza della creazione
Tu sei il signore dell’universo, senza rivali
Tu che in ogni momento mostri nuove bellezze
Tu che sorprendi anche coloro che chiedono di più
Ogni arbusto canta della tua creazione
Ogni foglia è la firma della tua natura
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Mio Dio, sei lo splendore promesso
Tu sei la curiosità, sei il desiderio
Sei la luce degli occhi, sei la voce del cuore
Tu, tu eri, tu sei, e sarai
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Tu sei tutto, oltre il dubbio
Tutto il mondo è alla ricerca di te
Anche se la tua magnificenza è in ogni luogo
Tu, anima del mio sangue, Signore del mondo
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Allah Hoo! Allah Hoo! Allah Hoo!
Per provare a dare una misura dell’impatto che Nusrat Fateh Ali Khan ha avuto nelle vite di centinaia di milioni di musulmani nel mondo, Haroon Moghul nell’articolo citato sopra per la morte di Amjad Sabri scrive: “I miei genitori erano religiosi e molto socialmente conservatori, ci insegnavano che non potevamo ballare in pubblico, a maggior ragione uomini e donne insieme. Ma quando avevo 11 anni, Nusrat Fateh Ali Khan venne alla University of Massachusetts ad Amherst, dove frequentavo le elementari, e questo grosso signore, a gambe incrociate su un tappeto steso a terra, accompagnato da un gruppo di musicisti, iniziò a cantare. […] Lì, nell’auditorium, mi sono sentito come un visitatore in un pianeta di alieni, come qualcuno di fronte a un’invasione degli ultracorpi. I miei genitori e i loro amici erano in piedi a ballare e non è che nessuno se ne curasse; lo adoravano. La consideravano una forma di venerazione, probabilmente”.
Ecco, nonostante il terrorismo, Al Baghdadi, i morti del Bataclan e le teste mozzate dello Stato Islamico, l’immagine che ogni volta mi torna alla mente quando sento parlare di Islam è simile a quella dell’undicenne Moghul: un gruppo di uomini e donne che cantano, urlano, applaudono e ballano come forsennati, “pazzi d’amore” durante un concerto di qawwali.
Le traduzioni dei testi sono di Cecilia Bisogni e Matteo Miavaldi.
Sinologo emigrato nel subcontinente indiano, si occupa di Asia Meridionale come giornalista freelance ed è corrispondente da New Delhi per "il manifesto". Vive in India dal 2011 ed è autore di "I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto", edizioni Alegre. Per East online dal 2013 tiene il blog Elefanti a parte, senza aver mai utilizzato il termine "elefante" come metafora dell'India.