Da Hardcore Henry alle telecamere GoPro passando per il porno POV: come, nell'era della condivisione, stiamo imparando a immergerci in corpi che non sono i nostri.
Comincia così: è un pomeriggio di agosto del 1992 e sto passando l’estate da mio cugino in una casa nel mezzo del nulla circondata solo dalla pianura padana. Ho sette anni, fa un caldo atroce, le zanzare mi stanno massacrando sotto la maglietta delle Tartarughe Ninja incollata alla pelle dal sudore ma me ne frego. Non sento niente, perché in quel momento non sono dentro il mio corpo. Anzi, non sono nemmeno me stesso: sono il capitano Blazkowicz che in un momento imprecisato della seconda guerra mondiale sta cercando di sfuggire dal castello di Wolfenstein.
L’agosto precedente, quando Wolfenstein 3D non era ancora stato immesso sul mercato da un’azienda di software di Garland, Texas, il cui nome non mi diceva e non mi avrebbe mai detto nulla, l’unico modo che avevo di giocare a essere un soldato americano di origini polacche in fuga dalle SS era il seguente: mettermi in testa una padella, usare un bastone come fucile e sperare che mio cugino ci stesse a fare la parte di Hitler. Ora invece potevo sparare davvero, e ne traevo un piacere enorme. L’industria videoludica stava entrando in una nuova fase, e la mia mente si stava rapidamente adattando alla trasformazione.
Venticinque anni più tardi il seme gettato da Apogee Software sarebbe maturato: il rudimentale capitano Blazkowicz sarebbe diventato Hardcore Henry, il protagonista del primo film girato completamente come uno sparatutto in prima persona. Hardcore Henry, in Italia solo Hardcore!, è uscito l’8 aprile negli USA, è diretto dal “tarantino russo” Ilya Naishuller e a voler essere maliziosi la dice lunga su quello che capita quando i gadget occidentali incontrano la sensibilità della Russia di Putin: il film ha ricevuto quasi unanimemente critiche pessime, il che però non gli impedisce di aver segnato una sorta di spartiacque.
Non è vero che non si era mai visto un film intero girato dalla prospettiva del protagonista (il capostipite del genere è Una donna nel lago di Robert Montgomery del 1947), ma è chiaro che c’è una differenza in termini di immersività tra le ingombranti steadycam usate prima del digitale, le telecamere a mano a bassa risoluzione degli anni Novanta, e le attuali microcamere in HD montate all’altezza degli occhi degli attori. Attenzione, in termini di immersività, non di realismo: è di questo che stiamo parlando.
Il disclaimer è necessario se pensiamo che il primo vero passo in direzione della sindrome da lock-in nella mente del protagonista al cinema l’ha fatto nel 1999 The Blair Witch Project, un film che traeva molto del suo potere dall’inedito effetto di realtà che comunicava. E siccome quello era il momento dei reality e dell’esplosione del memoir, l’accento delle critiche era comprensibilmente finito sul nodo irrisolto del realismo (irrisolto tuttora, peraltro). Ma se penso a me stesso quattordicenne che andavo al cinema del mio paese di provincia a guardare The Blair Witch Project, quello che provo non è solo la paura che la strega esista davvero, ma anche un’impossibilità di sfuggirle del tutto inedita. Da bambino mi era stato insegnato che per non aver paura dei film dell’orrore dovevo concentrarmi sugli effetti scenici: la strategia del “non è sangue ma succo di pomodoro”, che portata allo step successivo ti fa dire “quel movimento di macchina incompatibile con l’esperienza dei personaggi è la dimostrazione che quello che vedi non è la realtà”. In altre parole il meta-sguardo postmoderno ti salva da un coinvolgimento che non vuoi troppo diretto: The Blair With Project ha messo in crisi tutto questo.
Bisogna chiarire subito una cosa, specificando con McLuhan che “il medium è il messaggio”: quella dell’avvento dell’immersività è una storia intimamente tecnologica, cominciata negli anni Settanta e Ottanta nei laboratori californiani dell’Atari dove gente come Jaron Lanier sviluppava i data gloves, passata per i giochi in 3D e la nascita dei dispositivi digitali di cattura delle immagini e approdata infine agli Oculus Rift, il primo dispositivo che sembra avere le carte in regola per rendere la realtà virtuale qualcosa di più che una fantasia cyberpunk. Ma siccome la cultura non si sviluppa organicamente in tutte le sue manifestazioni solo nella mente esagitata dei deterministi tecnologici, bisogna anche notare che al di sotto dell’aspetto tecnico c’è un problema filosofico: quello di superare la barriera insuperabile che ci divide dagli altri, vivendo quello che un altro vive e facendo esperienza diretta di quello che non possiamo esperire naturalmente. Per questo nella storia dell’avvento dell’immersività i protagonisti sono anche la cultura psichedelica dell’uscita dal corpo, il proliferare dei punti di vista teorizzato dal postmoderno e più in generale l’individualismo desiderante del consumismo capitalista (un punto quest’ultimo che cercheremo di trattare senza farlo sembrare un volantino delle Brigate Rosse).
Siccome c’è un nesso diretto tra controcultura e nascita dell’informatica come la conosciamo, non è difficile capire come la forma mentis alla base del binomio immersività/condivisione sia stata trasferita agli strumenti tecnologici della vita quotidiana.
Non è un caso che una delle formulazioni più potenti del problema l’abbia partorita Philip K. Dick e non qualche guru della Silicon Valley. Riprendendo due concetti della filosofia di Eraclito, Dick ha scritto molto (esplicitamente nei suoi diari, in forma narrativa in quasi tutti i suoi romanzi) di idios kosmos e koinos kosmos, ovvero la dicotomia tra “mondo personale” dentro il quale ciascuno di noi vive e “mondo condiviso” con gli altri uomini. Dick vedeva l’idios kosmos come una metafora della schizofrenia e ha costruito tutta la sua opera sul dubbio angosciante che il koinos kosmos non esistesse affatto: anche se non lo sappiamo, siamo tutti quanti intrappolati nella mente di un Palmer Eldritch, o come capita in Ubik in quella di un cervello che sta morendo.
Come racconta magistralmente Emmanuel Carrère in Io sono vivo e voi siete morti, la biografia di Dick che verrà ripubblicata da Adelphi a fine maggio, Dick era ossessionato dalla sindrome da lock-in: l’idea che ci potessero essere persone capaci di provare sentimenti e sensazioni ma incapaci di esprimersi nella maniera più totale gli sembrava l’inferno in Terra. Intanto intorno a lui, nella California degli anni Sessanta, una generazione di giovani hippie usava l’LSD per compiere viaggi mentali. Il vecchio Philip, con tutte le sue idiosincrasie, aveva in qualche modo intercettato lo Zeitgeist.
Siccome c’è un nesso diretto tra controcultura e nascita dell’informatica come la conosciamo, non è difficile capire come la forma mentis alla base del binomio immersività/condivisione sia stata trasferita agli strumenti tecnologici della vita quotidiana. In qualche momento tra gli anni Novanta e i Duemila si è seriamente pensato che internet potesse risolvere il problema d’emblée, secondo la massima “più comunicazione = più comprensione reciproca”. Da un lato internet veniva (e viene!) magnificato perché rendeva il mondo un posto più piccolo, dall’altro perché, al contrario della televisione e della radio che avevano dominato nel XX secolo, permetteva l’espressione personale e contrastava il conformismo.
Tutto vero anche da un punto di vista tecnico (la centralizzazione del segnale televisivo vs. l’accesso da una molteplicità di punti della rete, la comunicazione a senso unico vs. lo scambio di pacchetti di informazione); l’eccesso di fiducia sta però nel pensare che un mondo piccolo pieno di differenze sia un posto facile dove stare, o che la coesistenza nella noosfera sia condizione sufficiente per l’appianamento dei conflitti. Se interrogati su questo punto i tecnoentusiasti, posto che siano sufficientemente estremisti, ti rispondono che quella presente è solo una fase, e che tutti i problemi si risolveranno davvero nella Singolarità prossima ventura.
Di fatto internet ha dimostrato l’esatto opposto, ovvero che le crescenti potenzialità tecniche portano a un livello superiore di frammentazione dell’esperienza: è il caso della famosa filter bubble di Google, quella cosa che capita quando il tuo motore di ricerca preferito ti conosce così bene che comincia a filtrare i risultati in base ai tuoi interessi e alle tue preferenze, cosicché se tu e il tuo vicino di casa digitate entrambi nella barra di ricerca “Adelphi” a te esce la casa editrice e a lui il paese della Contea di Ross, Ohio, dove abita la ragazza che ha appena conosciuto su un sito di dating online. Se tu e il tuo vicino vi chiudete in casa per sei mesi e utilizzate solo Google come finestra sul mondo arriverete a formarvi un’immagine del mondo piuttosto diversa, e quando finalmente vi incontrerete sul pianerottolo di casa farete fatica a capirvi. Altro che più comunicazione = più comprensione reciproca.
Sia come sia, quando nel 1992 Apogee Software ha lanciato Wolfenstein 3D ha aperto le porte a una nuova possibilità dell’esistenza estendendo a livello di massa la possibilità dell’esperienza immersiva nella vita di un altro: perché dall’improbabile scenario di un castello nazista si passasse a una rappresentazione più realistica c’è voluto più di un decennio, ma l’argine era stato rotto. Abbiamo detto come il secondo passo sia stato The Blair Witch Project con la sua sindrome da lock-in (vorrei uscire dalla pelle di questo personaggio che sta per essere ucciso dalla strega ma non posso). Il terzo, arrivato di gran carriera con la banda larga, è stato senza dubbio l’introduzione del porno POV, che data primi anni Duemila. Anche qui, non stiamo parlando di una novità assoluta: con il suo sguardo orientato all’esplorazione anatomica del corpo femminile e dei suoi usi il porno è sempre stato la messa in scena del punto di vista dell’attore maschio, e quindi maschilista anche in senso tecnico. Ma la possibilità data a qualunque coppia un po’ horny di filmare i propri intercorsi sessuali con la telecamera digitale di papà, o magari addirittura con il telefonino e di caricarli ancora prima di farsi la doccia su YouPorn, ha espanso esponenzialmente il pubblico e dunque gli effetti di massa di questa forma dell’erotismo. Dopo essere stati soldati alleati e adolescenti in fuga da una strega ci siamo trasformati tutti in James Deen.
Giochi 3D, telecamere digitali e telefonini hanno trovato infine una sorta di summa (rispettivamente nel senso di gamification dell’esperienza, alta qualità dell’immagine e connessione diretta a internet) in GoPro, l’azienda americana che produce telecamere in HD specificamente pensate per l’azione: quelle usate dai marines per riprendere le azioni belliche in Afghanistan, per capirci. I filmati sullo stile GoPro, che prima di Hardcore Henry erano ancora prodotti pensati per una nicchia, un po’ come le riprese fatte dai droni, hanno giocato un ruolo importante nel rendere l’esperienza un atto ludico e, dunque, anche nel disfarsi del concetto ingombrante di realismo: come hanno insegnato Gravity e Inception, il cinema del XXI secolo è una cosa che si può fare nell’assenza totale di realtà (di scenografie, per dire), dato che le possibilità tecniche sono infinite.
Io la prima volta che ho visto Inception mi sono annoiato a morte e poi l’ho rivalutato a posteriori con un atto del tutto intellettuale, ma la combinazione di possibilità tecnica e focus sulle potenzialità filosofiche dell’immersività ha prodotto scene fondamentali nel cinema degli ultimi dieci anni. La prima, e per me insuperabile, è in Melancholia di Lars Von Trier: anche chi vuole tapparsi gli occhi per non vedere in quel film una fantastica metafora psicologica può condividere il panico del signore di sessant’anni che sedeva accanto a me al Cinema Ambrosio di Torino quella sera del 2011 continuando a ripetere, man mano che nella scena finale del film il pianeta si avvicinava alla Terra, “non ci arriverà addosso, il film finirà prima, non ci arriverà addosso”. Ma non aveva fatto i conti con il massimalismo di Von Trier, e naturalmente l’ultima inquadratura di Melancholia è quella che potrebbe riprendere una telecamera disintegrata dallo schianto che polverizza l’intero pianeta Terra.
Meno enfatica ma altrettanto sorprendente dal punto di vista dell’immedesimazione è la scena di The Revenant in cui Leonardo Di Caprio viene attaccato dall’orso, e che giustifica da sola il successo del film di Iñárritu che altrimenti si sarebbe potuto solo spiegare con il behind the scenes di Di Caprio che mangia fegati di bue crudi e si fa seppellire dalle formiche (ecco di nuovo la commistione tra immersività e realismo). Penso di non sbagliarmi se dico che il cinema non era mai arrivato così vicino a mostrare cosa si prova quando si viene attaccati da un orso, e verosimilmente mai lo farà finché la realtà virtuale non farà il suo ingresso anche in quel campo.
Quello che questi potenti mezzi tecnici ci permettono di fare non è, come vorrebbero i fautori della Singolarità, lasciare l’idios kosmos per connettersi al koinos kosmos. Tutto il contrario: è lasciare il proprio idios kosmos per entrare nell’idios kosmos di un altro (Blazkowicz, Hardcore Henry, un attore porno, un anonimo marine in guerra contro l’Isis). Come in Inception saltiamo da un mondo immersivo all’altro, e pian piano perdiamo la nozione di un mondo condiviso, più ampio del qui e ora, della sensazione che mi rapisce completamente in questo istante strappato al tempo.
Il nostro punto di vista, non più connesso a una solida base di realtà, comincia a fluttuare: come accade nell’ultimo, enigmatico romanzo lasciato a questo mondo da E.L. Doctorow, La coscienza di Andrew. Una storia tanto banale che non varrebbe quasi la pena di essere raccontata se non che Andrew, nella sua narrazione in prima persona, ricorda se stesso da un luogo sconosciuto e sospeso, che forse si trova all’interno della sua stessa mente. Con una capriola degna del miglior Philip Dick che il lettore si chiede: “dove sono io rispetto alla voce di Andrew?” E capisce che non è da nessuna parte, perché non c’è altro luogo che la coscienza: un luogo avvolto dal mistero, e dal quale non è possibile evadere.
Gianluca Didino è nato nel 1985 in Piemonte. Ha vissuto otto anni a Torino e da tre vive a Londra. Suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con minima&moralia e Doppiozero.