A pochi giorni dalla sua morte, ricordiamo Jonathan Demme e il suo film-concerto dei Talking Heads, una pietra miliare del documentario musicale.
Un parere personale: i rockumentary fanno quasi sempre schifo. Non so dire come mai. Si potrebbe dire che è per la natura – spesso – celebrativa e parziale del prodotto, che tende a renderlo una specie di santino volto a solleticare l’istinto dei protagonisti e spremere un altro po’ le tasche dei fan del gruppo. A volte danno davvero l’idea di un’occasione persa, di un flop artistico madornale; quasi mai appagano completamente lo spirito. Sono ancora incazzato nero per la visione di Supersonic, un documentario sugli Oasis che in due ore di girato non nomina né il britpop né i Blur né qualsiasi altra cosa che possa contestualizzare gli Oasis all’epoca in cui gli Oasis sono stati gli Oasis. Se ci pensate non sono molti gli argomenti su cui questa cosa è anche solo pensabile. È possibile fare un documentario su Gandhi che non parli dell’occupazione britannica dell’India?
Molti grandi registi hanno realizzato documentari su gruppi rock, e spesso l’incontro tra le due parti non ha dato luogo a nulla di davvero interessante. I casi più recenti forse sono quelli di Eight Days A Week e Gimme Danger (Ron Howard e Jim Jarmusch, rispettivamente), prodotti che a dispetto del valore artistico di chi li ha firmati non hanno grandissimi punti d’interesse, al di là di qualche bel filmato d’archivio – e allora tanto vale andare su Youtube. È una cosa un po’ paradossale, perchè a dispetto di tanti registi che ci hanno provato, e del chiasso che alcuni di questi film hanno fatto all’uscita, non riesco a pensare a nessuna opera che valga davvero il peso dei nomi coinvolti. È lo stesso motivo per cui, tanto per dire, riguardare il film di Godard sui Rolling Stones dopo i trent’anni dà quasi il mal di testa.
I miei rockumentary preferiti, per esempio, sono spesso realizzati da registi di talento ma non così prestigiosi, opere concentrate su un singolo attimo della carriera di un artista. È il caso di Anvil! (il rovinoso tour di un gruppo hair metal di seconda forza) o Refused Are Fucking Dead (gli ultimi giorni di vita del gruppo svedese). Per certi versi Stop Making Sense è un altro rappresentante di questo approccio. Si tratta di un film-concerto dei Talking Heads diretto da Jonathan Demme. Visto trentatré anni dopo l’uscita si tratta di un documentario che fa anche sorridere, e mette in bella mostra molti feticci dell’epoca in cui è stato realizzato, ma all’epoca fece un discreto scalpore e fu accolto come un nuovo modo – più coraggioso, più interessante, volendo anche più vero – di raccontare la musica per immagini. Succede tutto a Los Angeles nel 1984.
I Talking Heads all’84 ci sono arrivati un po’ per miracolo, o perlomeno hanno superato un paio d’anni di dichiarato split, da cui ci si poteva aspettare che la testa pensante del gruppo avrebbe iniziato a lavorare come solista full-time. Remain in Light del 1980 pone fine alla collaborazione del gruppo con Brian Eno, e il gruppo si prende una pausa di riflessione prima di rimettersi in ballo per il lavoro successivo. È una fase in cui David Byrne, cantante e chitarrista del gruppo, viene rapito dalla scoperta di forme espressive, come alcune strutture del teatro giapponese, in cui vede un margine di manovra per apportare modifiche alle sue apparizioni dal vivo. I Talking Heads sono già noti da anni per essere una live band di altissimo livello, ma la loro fama è data dalla compattezza della musica e dalla presenza scenica di Byrne. A cui, tuttavia, il palco tradizionale della rock band chitarra/basso/batteria inizia a stare stretto: già per portare in giro Remain in Light la band si è allargata a una serie di turnisti che lavorassero sui suoni in maniera più orchestrale. Il passo successivo nella testa di Byrne è riuscire a incorporare alcune delle forme espressive di cui è venuto a conoscenza (ci mette dentro a suo dire certi rituali della chiesa pentecostale e alcune idee di informalismo mutuate da spettacoli teatrali del sudest asiatico) all’interno di un concerto “rock”. Inizia a pensarci assieme alla coreografa Toni Basil, conosciuta ai tempi di My Life in the Bush of Ghosts. L’obiettivo è di rendere il comeback tour dei Talking Heads un’esperienza visiva almeno quanto sonora. Il successore di Remain In Light viene registrato in autonomia; si chiamerà Speaking in Tongues e si rivelerà uno dei momenti di maggior successo commerciale del gruppo. Così come, del resto, i concerti della band in questa fase, un vero e proprio spettacolo teatrale.
È lo stesso David Byrne a illustrare il processo a grandi linee, nel suo Come funziona la musica (Bompiani, 2013). In uno dei primi capitoli ripercorre la storia del suo gruppo dal punto di vista procedurale. Nelle pagine dedicate a questo periodo la narrazione si carica di un’elettricità e di un coinvolgimento che stonano anche un po’ con il tono più analitico e distaccato che il musicista dedica alle altre fasi della carriera. È un po’ come se dal suo punto di vista il suo percorso individuale e il percorso della sua band in quel periodo si siano legati in un modo così radicale e complesso da renderlo quasi un resoconto delle esperienze personali di Byrne, le arti a cui si è interessato, le persone con cui è venuto in contatto, le conversazioni che lo hanno ispirato. Ad esempio una chiacchierata durante una cena a Tokyo: “lo stilista Jurgen Lehl citò il vecchio adagio secondo cui ‘sul palco tutto deve essere più grande’. Ispirato, scarabocchiai l’idea per un look da palco. Un completo (di nuovo!), ma più grande e stilizzato come un costume di scena del teatro No. Non era esattamente quello che intendeva lui, che si riferiva al gesto, all’espressione, alla voce. Ma io lo applicai anche al vestiario.” E così nasce l’immagine più celebre del costume di David Byrne.
Il tour, comunque, è un successo assoluto, e una cosa che per gli standard occidentali dell’epoca sembra una ventata d’aria fresca. Il gruppo inizia a pensare che sia necessario realizzare un documento video che fissi quel momento nella storia, ed è in questa fase che un amico comune presenta a David Byrne un regista quarantenne di nome Jonathan Demme, autore di un film (Melvin & Howard, in italiano Una volta ho incontrato un miliardario) che a Byrne è piaciuto molto, e che sembra avere il pallino di realizzare un film-concerto dei Talking Heads.
È il 1984 e Jonathan Demme non è ancora il nome importante che diventerà qualche anno dopo. Il suo nome all’epoca è quello di un uomo-cinema uscito dalla corte di Roger Corman, che sta firmando i suoi primi film per gli studios. Il successo di critica di Melvin & Howard gli apre le porte di una grossa produzione Warner Bros, un film che si intitola Swing Shift e che si rivelerà il primo disastro in cui si trova coinvolto. Durante le riprese i continui litigi con Goldie Hawn (la protagonista) lo portano ad andarsene sbattendo la porta. Poco prima è stato a un concerto dei Talking Heads e si è messo in testa di farne un film: l’incontro con Byrne è fruttuoso, e sono gli stessi Talking Heads a trovare il milione di dollari circa che serve per girarlo. Prenotano tre serate al Pantages Theatre di Los Angeles nella fase finale del tour.
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Inizia con i titoli di testa su una superficie opaca che si rivelerà essere il pavimento del palco. Appaiono l’ombra e le scarpe bianche di David Byrne, che si avvicina al microfono, appoggia un ghetto blaster per terra e dice “Ciao, ho un nastro che vorrei farvi sentire”. Schiaccia play, da dietro parte un beat e il chitarrista suona Psycho Killer, da solo di fronte al pubblico, con la chitarra acustica. Il palco è vuoto. Intorno a lui iniziano a comparire dei tecnici che posano cavi e altre diavolerie. Dopo il primo pezzo entra Tina Weymouth, poi Chris Frantz, Jerry Harrison e tutti i musicisti aggiunti. Il palco si costruisce gradualmente, man mano che i musicisti entrano, per una mezz’ora di musica. Poi iniziano i giochi di luci, le coreografie furiose e tutto quello che è il concerto vero e proprio del gruppo. Nell’ultima parte di concerto, mentre il gruppo attacca Girlfriend is Better, sullo schermo si staglia l’ombra del celeberrimo completo a spalle larghissime di Byrne, con cui il cantante affronterà la parte finale del set.
Stop Making Sense è un compromesso tra due prospettive. La prima è quella di David Byrne, che con il “suo” film vuole lasciare una bizzarra testimonianza del farsi della musica dei Talking Heads. È una prospettiva molto fascinosa e cerebrale, e per certi versi la si può godere appieno solo completando la visione con la mole di materiale che il musicista ha fornito a completamento: dichiarazioni, interviste, autointerviste, tavole rotonde, autobiografie. La seconda prospettiva è quella di Jonathan Demme, il quale a una prima occhiata sembra solo interessato a fare un film-concerto che parli dei Talking Heads in quel periodo. Quasi tutti i suoi trucchi sono pressoché invisibili; si può trovar traccia di certi lavori di cesello, certe inquadrature, certi particolari nei (rari) momenti del film in cui la macchina non deve seguire la coreografia per filo e per segno. Oppure la scelta di non includere praticamente mai il pubblico nelle inquadrature, una cosa mutuata da The Last Waltz di Scorsese (che Jonathan Demme indicava essere un un libro di testo per realizzare Stop Making Sense, ed è bizzarro che quest’ultimo sia invecchiato molto meglio del suo padre putativo). Si può dire che nessuna delle due visioni sia pienamente risolta all’interno del film: è probabile che se Demme e i suoi si fossero piegati ancora di più alla visione di Byrne il film sarebbe stato un documento ancora più interessante dal punto di vista testuale – perdendo molto dello smalto e del brio che ancor oggi sembrano essere rimasti dentro il film. Allo stesso modo, se Demme avesse potuto realizzare il film-concerto che aveva in testa forse avremmo avuto un documento di grosso impatto sui contemporanei e senza troppo significato per i posteri.
Per certi versi è il “fallimento” di entrambe le visioni, e la relativa generosità degli autori, ad aver dato alla luce una pietra miliare del documentario musicale e una delle più preziose testimonianze su pellicola della musica bianca negli anni Ottanta. Forse né David Byrne né Jonathan Demme avevano pensato a Stop Making Sense nei termini di un prodotto che avrebbe definito un modo di mostrare la musica, la cui influenza si sarebbe estesa per decenni. Di sicuro il film incontra la biografia di entrambi in un momento che si rivelerà significativo. Forse è un caso e forse no, ma dopo il tour immortalato da Stop Making Sense i Talking Heads smetteranno di suonare dal vivo, limitando la propria esistenza a progetto di studio – fino alla fine naturale di qualche anno dopo. Jonathan Demme userà il film-concerto per sublimare la debacle del suo primo film a grosso budget, ricomincerà a lavorare a distanza di sicurezza dagli studios e ricostruirà con calma la strada che lo porterà a essere uno dei grandi registi della sua epoca. Qualche mese dopo che i Talking Heads avranno annunciato il loro scioglimento, Demme salirà sul palco a ritirare la statuetta. Nelle colonne sonore dei suoi film di tanto in tanto fa capolino il nome di David Byrne. L’amicizia tra i due è continuata negli anni a venire.
I miei film preferiti di Demme, nell’ordine: Il silenzio degli innocenti, Rachel sta per sposarsi, The Manchurian Candidate, Qualcosa di travolgente, Philadelphia. La qualità della sua fiction non permette di ricordarlo come un cineasta prestato alla musica, nonostante il regista amasse particolarmente tornare sul luogo del delitto. Nel caso il mio titolo del cuore sarebbe Storefront Hitchcock, ma quello a cui tutti penserebbero per primo è Stop Making Sense, il film-concerto dei Talking Heads. Una curiosità: credo che nessuno, in tutto questo tempo, sia mai riuscito davvero a spiegare a cosa si riferisce di preciso il titolo.
Consulente editoriale di PRISMO. Ha fondato Bastonate, scrive per Rumore, Noisey e altre cose in giro. Di tanto in tanto disegna.