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Ogni giorno il giornalismo tradizionale mostra l’arretratezza dei suoi modelli, mentre quello “dal basso” da solo non basta. Una terza via all’informazione è però possibile: sono i newsgames.

I due terzi superiori dell’immagine sono occupati da una campitura d’azzurro sporcata di grigio. Quello inferiore è nero. La linea dell’orizzonte ondeggia leggermente. Su di essa si erge una figura, nera come la porzione di spazio da cui sembra provenire, che si staglia sullo sfondo grazie a poche macchie bianche che ne accennano i lineamenti. È una donna. Non si trova al centro dell’immagine, ma ne occupa il terzo a destra, lasciando sul lato opposto un vuoto che le incombe addosso. Verso di esso punta un microfono.

La vignetta in questione s’intitola “Domande”. L’autore, Mauro Biani, l’ha disegnata per il manifesto. Il vuoto a cui la giornalista rivolge le sue silenziose domande non è altro che il dolore immenso che deriva da una tragedia come quella, e in tal senso il disegno di Biani si pone in aperta polemica con la pornografia dell’esistenziale in cui i media italiani si sono rotolati mentre ancora si scavava sotto le macerie. Non è stato l’unico commentatore ad aver trovato offensivo l’operato dei giornalisti nei giorni successivi a quel 24 agosto: anche Christian Raimo, in un post su Facebook, ha sostenuto che “Il giornalismo emotivo non serve” e che “I reportage sono una cosa, le impressioni personali sono un’altra”.

Per entrambi quel giornalismo delle emozioni e dei moti dell’animo, quello che va a caccia di storie capaci di scuotere o di muovere il corpo del paese a seconda del sentiment che più occorre evocare, non è la forma ideale – forse neppure quella adatta o giusta – per raccontare una tragedia di tale portata. Eppure, perlomeno nella sua infanzia, la vocazione del giornalismo è sempre stata quella di andare alla ricerca di “storie” da raccontare, senza preoccuparsi di restituire una parvenza di oggettività. Il reporter si recava nel luogo dove stavano accadendo o erano accaduti dei fatti, ne raccoglieva testimonianze e dati e, infine, dava a questi elementi una forma che aiutasse le persone a costruirsi un’idea dell’accaduto.

Fatta l’Italia, facciamo gli italiani
Del resto, l’approccio sentimentalista contemporaneo ha genitori illustri. Prendiamo per esempio questo reportage sulla breccia di Porta Pia, scritto nel 1870 da un giovane corrispondente de La Nazione di Firenze: “La Porta Pia era tutta sfracellata. […] Lunghe colonne di popolo si gettano fra i soldati gridando e plaudendo. Le donne si mettono le coccarde tricolori sul seno. Da tutte le finestre dei vicini palazzi si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. […] A ogni tavolo si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Le signore domandano in regalo le penne. Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti. I cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendogli un braccio intorno al collo”. Il giornalista era Edmondo De Amicis, e la sua prosa già mostrava i tratti che gli valsero da parte di Carducci il soprannome di “Edmondo de’ Languori”. E questo è niente. Quando qualche anno dopo gli italiani decisero di servire la propria patria andando a molestare quella altrui, vi fu un proliferare di cantori del nostro “imperialismo straccione” a cui però non sempre la realtà dei fatti fu amica. Ma questo non li scoraggiò, e così ecco come Alfredo Oriani descrisse nel 1887 la battaglia di Dogali, in cui un’intera colonna militare venne annientata dalle truppe etiopi del ras Alula: “Fu un agguato imprevedibile, inevitabile. […] Gli abissini sorgevano da ogni banda, volanti su cavalli sfrenati. Le loro urla sembravano venire dai deserti; erano confusi come il turbine. Un abbarbaglio di fiamme bianche vampeggiava sulle pelli dei loro scudi e sul ferro delle loro armi. […] Erano troppi per essere battuti, troppi ancora per non sopraffarvi. Erano l’Africa selvaggia, nuda e nera nel sole, che sitibonda di sangue uccide quando perde, uccide quando trionfa, perché la morte è il suo solo pensiero e la sua unica sensazione”. Visto il pathos, non sorprende che anni dopo Mussolini stesso curerà un’edizione in 30 volumi delle sue opere.

Tuttavia, al netto delle ambizioni poetiche dei singoli, bisogna ammettere che non sempre era facile risalire dagli elementi fattuali a quelli causali, poiché ciò significava aggiungere alla semplice ricostruzione degli eventi un grado crescente di astrazione che avrebbe corso il rischio di rendere l’insieme inintellegibile ai suoi destinatari. Una difficoltà oggettiva che sopravvisse a tutte le innovazioni tecnologiche dei successivi cent’anni, e a cui anzi se n’è aggiunta un’altra. Nell’era digitale i “fatti” non sono altro che un turbinio di uni e zeri, un accumulo di dati e di metadati a cui non si può dare parola se non inserendoli in una complessa rete di relazioni che prende una forma più o meno definita a seconda delle regole che determinano le combinazioni tra i suoi elementi. E se per il giornalismo tradizionale questo era un ostacolo che solo a costo di grandi sforzi poteva essere superato, alcuni formati digitali hanno recentemente dimostrato una straordinaria versatilità nell’evidenziare il modo in cui questi singoli elementi interagiscono tra loro.

Giocare coi fatti per farsi un’opinione
Inaspettatamente, i videogiochi – nella forma dei cosiddetti newsgame, cioè prodotti interattivi in cui si fondono game design e princìpi giornalistici – sono uno di questi formati. Nonostante l’aura di duepuntozerismo che avvolge il termine, l’idea non è completamente originale e va considerata più come una sintesi di pratiche editoriali precedenti che non come un concetto nuovo.

Nel 1913, infatti, l’editor di World – il supplemento dedicato al divertimento del New York Sunday – diede forma al cruciverba così come lo conosciamo oggi, e fu questione di pochi anni prima che tutti i quotidiani del nordamerica li adottassero allo scopo di catturare l’attenzione dei lettori. Non si trattava però di puro intrattenimento, poiché fin da subito la loro soluzione richiedeva conoscenze ottenibili solo attraverso la lettura del giornale che li ospitava. Inoltre, parallelamente alla diffusione dei cruciverba, nella prima metà del Novecento si assistette all’adozione di massa dell’infografica (nata nel 1789 grazie a William Playfair e al suo magnifico Commercial and Political Atlas), ovvero la rappresentazione visiva di informazioni complesse tramite schemi, diagrammi e tabelle. Ancora oggi esse integrano gli articoli tradizionali in prosa, così che da un lato liberano questi ultimi dall’onere di dover riassumere dati numerici e statistiche, e dall’altro consentono al lettore di farsi un’idea immediata del contesto più generale di cui l’articolo si occupa nel dettaglio.

Un’infografica del Commercial and Political Atlas di William Playfair.

Ora: ripercorrendo a ritroso l’albero genealogico dei newsgames è possibile imbattersi in altre forme ancora che ibridano informazione, intrattenimento e riproduzione grafica (in ambito sportivo viene in mente il fantacalcio, sottocategoria dei fantasy sport), ma ai fini della chiarezza è meglio ricordarsi dei soli genitori. E, sempre ai fini della chiarezza, a questo punto è doveroso fare un esempio pratico.

Nei miei panni è un browser game sviluppato nel 2013 in occasione della Giornata Mondiale contro il Razzismo, su iniziativa dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali). Scegliendo tra quattro avatar, diversi per genere e paese d’origine, il giocatore si cala nei panni di un migrante. L’obiettivo ludico è riuscire a sopravvivere per dieci giorni di gioco senza sperperare le proprie finanze e impedendo che il proprio morale finisca azzerato dalle circostanze che ci si trova ad affrontare; quello informativo, invece, è di mostrare le difficoltà che un migrante vive ogni giorno sulla propria pelle. La differenza che separa quest’esperienza dalla semplice lettura di un reportage o di una testimonianza diretta è che in Nei miei panni il distacco emotivo è ridotto ai minimi termini. Benché il gioco poggi su scenari e contesti ricostruiti in base a set di dati ricavati da ricerche (regolarmente citate), poter scegliere il proprio percorso dà l’impressione di vivere sulla propria pelle una sintesi delle tante storie di migranti, il che porta il giocatore a confrontarsi con i fenomeni che la producono: pregiudizio, discriminazione, razzismo. Proprio come farebbe un giornalista impegnato nella realizzazione di un articolo, il gioco utilizza i dati per costruire un punto di vista situato e articolare una tesi precisa: “a causa della loro condizione e dei fattori che la producono e ne derivano, i migranti sono costretti a vivere difficoltà a cui non siamo abituati a pensare”. Infine, un’ulteriore differenza rispetto a un reportage tradizionale consiste nel concentrarsi sugli aspetti sistemici piuttosto che su quelli personali, e di conseguenza, anziché mostrarne in concreto gli effetti, mette in mostra le regole che li governano.

Nei miei panni è solo un esempio recente di newsgame, ma torna utile per comprenderne alcuni dei princìpi su cui si fonda, nonché l’hype che da qualche anno li descrive come una delle novità più significative nel panorama giornalistico mondiale. Il problema, però, è che la complessità delle esperienze che si sono cristallizzate nei newsgame ha generato un tale numero di approcci differenti che è facile perdere l’orientamento e, di conseguenza, comprendere la loro natura.

La copertina del libro di Bogost, Ferrari e Schweizer.

Per una tassonomia dei newsgame
Un lodevole tentativo di risolvere questo problema, e di organizzare una tassonomia dei principali titoli apparsi finora, è tentato da Ian Bogost, Simon Ferrari e Bobby Schweizer in Newsgames. Journalism at Play, attualmente il più completo tentativo di mappare il fenomeno. Dopo averne tracciato l’albero genealogico, gli autori individuano quattro tipologie di newsgame: attualità (current events), documentari (documentary), alfabetizzazione (literacy), comunità (community).

Quelli di attualità sono giochi che cercano di offrire un punto di vista ben preciso su uno specifico evento attraverso le meccaniche di gioco, e a loro volta sono suddivisi in sottocategorie: editorial game (come il celebre gestionale McDonald’s Videogame di Molleindustria), tabloid game (ovvero una versione giocabile delle soft news come Hothead Zidane) e reportage game (giochi che provano a emulare il lavoro giornalistico necessario alla stesura di un articolo o di un servizio fotografico, di cui costituisce un esempio Two Interviewees, dello sviluppatore italiano Mauro Vanetti). Poco impegnativi nelle meccaniche, questo genere di giochi trova spazio sia tra le pagine digitali di un giornale, sia negli aggregatori di giochi, sia, infine, su siti dedicati. Ciò detto, il loro principale problema è il tempismo: sviluppare un gioco, anche quello più semplice, richiede infatti una quantità di tempo notevolmente superiore a quella richiesta per la stesura di un articolo o la realizzazione di un servizio, e pertanto il rischio maggiore che si corre è di rilasciare il prodotto quando l’argomento scelto è già stato masticato e assimilato dal ciclo dell’informazione tradizionale.

Cutthroat Capitalism, incentrato sul fenomeno della pirateria somala.

Un problema, questo del tempismo, che non attanaglia invece i giochi di carattere documentaristico, il cui scopo è “semplicemente” di ricreare una specifica realtà attraverso quattro modalità differenti: la prima è di tipo spaziale, in cui si ricostruisce fedelmente un luogo reale (il perimetro del muro di Berlino o Pompei) che il giocatore esplora liberamente secondo le consuetudini dei giochi in prima o terza persona. La seconda è operazionale, cioè una ricostruzione dove non solo si esplora ma si agisce, come accade in [08:46], la simulazione dell’11 Settembre per Oculus Rift. La terza è di carattere procedurale, dunque concentrata sulle dinamiche che si producono in una determinata situazione, e che il giocatore può influenzare con le sue scelte: ne è un esempio Endgame: Syria, un gioco strategico che ci mette nei panni della leadership di una fazione ribelle del conflitto civile siriano. Infine, vi sono una serie di giochi capaci di mettere il giocatore a contatto con una sorta di realtà più intima, legata all’elaborazione di lutti e traumi, che potremmo chiamare “di interesse umano”. Il celebre That Dragon, Cancer è uno di questi giochi.

Di tutt’altro stampo sono i giochi di alfabetizzazione. Si tratta di titoli in cui si sfruttano il gameplay e gli elementi della trama (o dell’ambientazione) per spiegare al giocatore alcuni aspetti dell’attività giornalistica o, addirittura, per educarlo a essa. In questa tipologia rientrano titoli come Beyond Good & Evil o Papers, Please, in cui viene sottolineato il ruolo fondamentale del giornalismo in una società totalitaria, o Dead Rising, in cui le meccaniche mettono il giocatore a contatto con la mentalità di un reporter a caccia di notizie. Anche i notiziari di Weazel News di GTA V costituiscono un elemento di alfabetizzazione, in quanto con la loro sguaiata parodia di Fox News ne mettono in luce il carattere parziale e deontologicamente discutibile (in tema di alfabetizzazione giornalistica va menzionata la vicenda della Media Lens, giocatori che nella modalità multiplayer di GTA V agivano come veri e propri fotoreporter di guerra).

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'Weazel news: confirming your prejudices!'

Newsgame più complessi sono invece i giochi di comunità. Nella maggior parte dei casi si tratta di Alternate Reality Game (ARG), cioè titoli in cui il mondo reale e quello virtuale di internet si collegano e in cui i giocatori interagiscono tra loro diventando membri della comunità aggregata dal gioco stesso (un esempio è I love Bees, spin-off della campagna di lancio di Halo 2, i cui giocatori dovevano raccogliere frammenti di una storia raccontata attraverso cabine telefoniche sparse in tutto il mondo). L’aspetto che più differenzia questo genere di newsgame dagli altri è la capacità di stimolare i giocatori a confrontare la propria quotidianità con una realtà alternativa che loro stessi contribuiscono a creare. Secondo Jane McGonigal, teorica e game designer,  oltre che autrice di alcuni dei maggiori esperimenti nel genere (World without oil su tutti), quelli creati in un ARG sono “mondi reali che usano i giochi come metafora”. Non la tradizionale fuga dalla realtà proposta dai giochi di ruolo, quindi, bensì la creazione di una realtà “altra”, partecipando alla quale i giocatori possono influire sulla loro vita quotidiana.

I videogiochi e il futuro del giornalismo
Da questa ricognizione dei diversi generi di newsgame si capisce quanto possano essere diversi gli approcci alla materia e quanti siano gli esiti possibili di un’esplorazione dell’approccio ludico al giornalismo. Restano però alcune domande: essi rappresentano davvero un approccio innovativo al racconto delle notizie? Oppure sono soltanto una piacevole “distrazione”, destinata a sgonfiarsi insieme all’hype che l’accompagna oggi?

Fare previsioni è impossibile. Di certo ci sono i numeri, e questi dicono che al giorno d’oggi sono molte più le persone disposte a spendere cifre considerevoli per giocare che non per leggere un giornale. Il giornalismo sta vivendo una crisi profonda che non è solo una crisi dei modelli di business e delle infrastrutture tecnologiche, ma anche una di credibilità e di linguaggio. Da un lato, l’ampio accesso a piattaforme di produzione e distribuzione di informazioni garantito dalle tecnologie digitali ha favorito il proliferare di fonti alternative alle solite cattedrali dell’informazione; fonti che spesso hanno costruito un rapporto con il pubblico partendo dalla critica del giornalismo istituzionale (il mantra “quello che i giornali non vogliono dirvi/farvi leggere”) e sfruttando certe sue oggettive debolezze, su tutte autoreferenzialità e mancanza di trasparenza. Dall’altro lato, quest’ultimo ha cercato di riguadagnare terreno assecondando però troppo spesso gli aspetti più negativi del primo e portando a un giornalismo sempre più superficiale, grossolano e venato di gossip (oltre ai soliti boxini morbosi meritano una menzione i resoconti delle fantasiose epurazioni nordcoreane e, raschiando il fondo del barile, il filone dei reportage-dai-social). L’infotainment è diventato così il genere dominante, riducendo lo spazio per le notizie e minando la credibilità del giornalismo come istituzione all’interno dello spazio democratico.

La faccina indignata del CorSera, simbolo di una professione in declino

Dando per scontato che ci saranno sempre persone interessate ad avere informazioni attendibili per capire il mondo che le circonda, per riacquistare il ruolo di primo piano che gli compete il giornalismo deve ripensare i suoi modelli quanto prima. Paradossalmente,  i videogiochi potrebbero essere uno strumento per farlo, poiché non solo sono una forma di intrattenimento molto amata, ma anche perché il loro linguaggio è ormai patrimonio di una porzione consistente degli abitanti del pianeta; ciò li rende uno strumento fruibile da chiunque nel mondo, al netto di gap anagrafici in continua riduzione e di barriere linguistiche che stanno diventando sempre meno importanti (alzi la mano chi, nato negli anni ‘80, si sia mai fatto scoraggiare dai testi inglesi giocando a The Legend of Zelda sul NES). Facilmente distribuibili, fruibili e monetizzabili i videogame rappresentano perciò un’opportunità tutta da costruire e da integrare nell’attività giornalistica.

Farlo, tuttavia, non è semplice. Perché trasformare i newsgame da occasionale “extra” in vero e proprio genere giornalistico comporta notevoli sfide e difficoltà. Tanto per dirne una, l’esternalizzazione, considerata la panacea per i mali dell’economia moderna, si è dimostrata inefficace: nella primavera del 2007, il New York Times strinse un accordo con Persuasive Games per la realizzazione di un pacchetto di newsgame, ma la collaborazione terminò nell’agosto dello stesso anno. Per Ian Bogost, fondatore della software house, la colpa è da imputare alle circostanze organizzative proprie di un’istituzione come può essere la redazione di uno dei più importanti giornali del mondo: tali realtà sono purtroppo refrattarie alla modifica dei ritmi lavorativi e generalmente meno adatte alla sperimentazione di altre, più piccole e pionieristiche. D’altro canto, però, sono anche quelle che se la possono permettere sul piano economico.

L’insegnamento che si può trarre da questa vicenda è che, per integrare i newsgame nel lavoro di redazione, fare rientrare il game design tra le competenze dei giornalisti può essere più fruttuoso che lavorare con uno sviluppatore esterno alle logiche aziendali. Questo non significa soltanto formare giornalisti capaci di padroneggiare i princìpi della creazione di giochi, ma soprattutto sviluppare degli strumenti che permettano loro di bypassare quello che è oggi il maggior ostacolo alla diffusione dei newsgame: i costi e i tempi di realizzazione. Creare un titolo rispettoso dei criteri ludici e giornalistici richiede infatti l’impiego di tempo, risorse e competenze e, come si è visto, è soprattutto il primo di questi fattori a rappresentare l’ostacolo più grande. Come fare per risolvere questo problema?

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Il trailer di World Without Oil

Una strada potrebbe essere rappresentata dallo creazione di piattaforme di sviluppo ad hoc, ovvero di software in grado di automatizzare e rendere accessibili – attraverso interfacce semplificate – operazioni che oggi richiedono la padronanza del codice come prerequisito. In questo modo i giornalisti potrebbero concentrarsi sullo sviluppo delle meccaniche, sull’accuratezza giornalistica e sull’integrazione del newsgame all’interno del lavoro redazionale, più che sulla realizzazione del prodotto stesso. Pensare a quanto abbiano influito sulla cultura del modding gli editor di mappe rilasciati negli anni ’80 e ’90 dalle software house è forse il miglior termine di paragone per farsi un’idea di quanto la creazione di simili piattaforme potrebbe aiutare i giornalisti a creare in autonomia i propri prodotti. Inoltre, l’utilizzo di programmi simili risolverebbe anche il secondo aspetto del problema, cioè i (relativamente) elevati costi di produzione.

Creare l’ambiente ideale per questo genere giornalistico potrebbe portare a una “seconda venuta” del giornalismo istituzionale; l’affermazione dei newsgame all’interno delle redazioni porterebbe con sé sia l’abbandono dell’immagine antiquata e inadatta al contemporaneo di cui soffrono molti quotidiani, sia l’aura di pressapochismo e pigrizia che contraddistingue il loro approccio a internet. Certo, non sarà semplice, né a buon mercato, ma perlomeno non diverrà l’ultima novità gourmet destinata a esaurire la sua utilità nel giro di poche stagioni.

Sempre che lo chef sia effettivamente interessato a offrire cibo di qualità. E questo non è affatto scontato.

Flavio Pintarelli
Nasce nel 1983 qualche decina di chilometri a sud del Brennero. Ha scritto su Franz Magazine, Lavoro Culturale, Doppiozero, Il Manifesto e Vice. Con :duepunti ha pubblicato l'ebook "Su Facebook" e con Agenzia X il saggio "Stupidi Giocattoli di Legno".

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