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Un tempo i Team Ninja erano amati da critica e pubblico, ma negli ultimi dieci anni hanno perso il fondatore e la capacità di stupire. Almeno fino a NiOh: il titolo uscito ieri segna il ritorno alla forma dello storica software house.

C’è stata un’epoca in cui il nome “Team Ninja” faceva tremare gli inferi. Quella di Tomonobu Itagaki non era infatti una squadra normale: era una bomba nucleare sotto forma di software house, un sinonimo di qualità per cui la critica degli anni ’90 e Zero nutriva un rispetto paragonabile a quello provato oggi per Platinum Games (in confronto ai quali, va detto, godeva di maggiori fortune commerciali). I Team Ninja erano una mosca bianca nell’industria: guidati da un visionario perennemente nascosto dietro a occhiali da sole – inamovibile nella sua ricerca dell’esperienza hardcore ad ogni costo e totalmente disinteressato ai desideri dell’utenza casual – riuscivano comunque a piazzare numerose copie dei loro titoli nelle case dei giocatori, il tutto all’insegna della coatteria concettuale sorretta da gameplay rodati e tecnicamente rifiniti.

È oggettivamente impossibile allineare con precisione tutti i puntini che hanno dato vita a un tale colosso nel mondo degli sviluppatori giapponesi, ma se proprio ci si vuole provare è fondamentale partire dall’uomo attorno cui tutto ha girato per anni: Itagaki, appunto. E se si vuole raccontare una bella storia, di quelle ricche d’azione, il buon Tomonobu non può che esserne il rude antieroe. Parliamo di uno che – anche al netto degli occhiali da sole – fa sembrare gli Yakuza dei catechisti per come si presenta: scontroso, tanto dotato di talento quanto di boria, il Nostro è un personaggio capace di polarizzare le opinioni come pochi. Anche se la sua luce oggi è un po’ offuscata, Itagaki ha rappresentato moltissimo per la software house, tanto che dopo il suo abbandono nel 2008 tutto sembrava perduto. Ma procediamo con ordine.

Il primo Ninja Gaiden, ora bestemmiabile anche su NES Mini.

Vita, miracoli e morte
Innanzitutto, da dove nasce quel nome – Team Ninja – che sembra preso da una squadra di mini 4WD? Tutto si deve al mentore di Itagaki, Yoshiaki Inose, programmatore noto per aver lavorato al primo Ninja Gaiden (Tecmo, 1988) su NES: un classico indiscusso, noto ancora oggi per la sua smodata difficoltà, da cui Itagaki ha imparato che i capolavori possono anche prendere il giocatore a pugni nelle reni purché siano spassosi e spettacolari da inizio a fine. È adottando questa filosofia che Itagaki, assunto alla Tecmo nel 1992, quattro anni dopo forma i Team Ninja all’interno della casa madre e, dopo aver seguito le conversioni per console del picchiaduro Dead or Alive, dà vita a un titolo capace di racchiudere tutta la sua essenza di game director: un action 3D basato sui personaggi del Ninja Gaiden su cui era cresciuto, ma diverso in quasi ogni aspetto dall’originale. Sottolineo il quasi: come l’originale, il reboot era un generatore di bestemmie.

Malgrado la concorrenza data dal Devil May Cry di Hideki Kamiya (2001), Ninja Gaiden (2004) gode fin da subito di un’inattesa esplosione di popolarità, venendo lodato per la responsività dei suoi comandi, la complessità delle manovre offerte e delle boss fight eccezionali. In più, vista la sua natura di esclusiva Xbox, il titolo viene subito “adottato” dagli americani come il cuneo da infilare nella platea dei core gamer, fino ad allora rimasti fedeli a Sony e, in misura minore, a Nintendo. Itagaki e il suo gioco fanno insomma il botto, tanto che si sente abbastanza sicuro di sé da rilasciare dichiarazioni in cui trolla apertamente i giocatori incapaci definendoli schiappe indegne di alcuna facilitazione; in un’intervista arriva addirittura ad affermare di aver reso il gioco ancora più difficile dopo che perfino i suoi beta tester si erano lamentati per il livello di sfida troppo alto, inserendo poi – controvoglia, naturalmente – una difficoltà più bassa nella versione Black del titolo. Per togliersi il proverbiale sassolino dalla scarpa, anziché chiamarla semplicemente easy la battezza “Ninja dog”.

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Alma in Ninja Gaiden Black. Mai odiata abbastanza.

Ma dietro a queste guasconate si cela un problema: Itagaki ci crede. Pure troppo, dato che il sequel – perlomeno nella prima versione – si concentra troppo su questo aspetto machista risultando da un lato oggettivamente troppo difficile, tanto da rendere necessaria la pubblicazione di una versione riveduta e corretta (la Sigma), e dall’altro senza riuscire a offrire livelli e boss dal design paragonabile a quelli del predecessore. A questi difetti tecnici si accompagnano a breve giro di posta uno scandalo legato a sospette molestie sessuali (poi rivelatesi false), nonché una causa da lui intentata contro la Tecmo, col risultato che nel 2008 il tamarro più noto del Giappone decide di mollare tutto e aprire la propria software house.

Purtroppo, con l’abbandono di Itagaki si consuma il passaggio da un team tecnicamente solido – per quanto in balìa delle stramberie del loro leader – a una squadra guidata dal competente ma insicuro Yosuke Hayashi. È l’inizio del declino.

Dapprima, quando Nintendo affida loro un nuovo Metroid, mezzo mondo videoludico reagisce come una scolaretta davanti a una rockstar; senonché la vera rockstar non c’è più. Quel che è peggio, è che la filosofia lavorativa di Hayashi risulta deleteria: ignorando (volutamente?) la via tracciata dal predecessore, il buon Yosuke si convince che all’interno del Team Ninja tutti siano dotati di pari talento creativo e pari diritti di espressione, così da istituire una sorta di soviet videoludico privo di un coordinamento centrale. La conseguenza è che Metroid: Other M (2012) finisce col risultare un titolo dal design schizofrenico, con un gameplay troppo distante dallo stile dello storico franchise ulteriormente appesantito da una trama di rara bruttezza (tanto che Hayashi ne prende le distanze scaricando le colpe su Nintendo e sul co-creatore della saga Yoshio Sakamoto – una mossa poco professionale oltreché sospetta, vista la scrittura non proprio eccelsa dei titoli precedenti).

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I mille motivi per cui Metroid: Other M è una sòla.

Ma se la rilettura di Metroid gode perlomeno nell’immediato di alcune recensioni positive, lo stesso non si può dire di Ninja Gaiden 3 (2012), riconosciuto all’unanimità come una mezza porcheria e come il de profundis della reputazione del team: desiderosi di occidentalizzare la loro serie più amata e di spingere l’acceleratore sulla spettacolarità, gli sviluppatori inseriscono nel gioco il sistema “steel on bone” (esecuzioni tecniche che spezzano continuamente il ritmo di battaglie peraltro ripetitive) e una storia che sfora nel ridicolo a ogni cutscene. Nemmeno il livello di sfida notoriamente folle della serie ne esce intatto: Ninja Gaiden era stato banalizzato, facilitato, e snaturato dall’interno.

Questo secondo, grave fallimento – per giunta avvenuto sul loro titolo di punta – ha conseguenze devastanti sul piano dell’immagine: persa ogni traccia residua di fiducia da parte degli affezionati (anche perché, dopo la débacle di NG3, le precedenti sparate da Itagaki de noantri risultano doppiamente patetiche), lo studio viene bollato d’infamia al punto tale che perfino titoli discreti, prodotti successivamente in tandem con altri sviluppatori (Toukiden, Hyrule Warriors), così come alcuni picchiaduro di buon livello (Dead or Alive 5, Dissidia: Final Fantasy),  finiscono per passare in secondo piano.

I Team Ninja sono in disgrazia.

La rinascita viene dal Giappone
È proprio prendendo in considerazione questi sviluppi drammatici che si coglie l’importanza spaventosa di un gioco come NiOh: un progetto nato da una collaborazione poi abbandonata con Akira Kurosawa, rimasto vittima di uno sviluppo così travagliato da meritarsi la qualifica di vaporware, non poteva certo essere il giusto punto da cui ripartire e… e invece è una bomba. Comprendendo la natura delle proprie radici, recuperandole, intrecciandole con quelle altrui (nello specifico, dei Souls di Hidetaka Miyazaki) e ascoltando il pubblico, il Team Ninja è finalmente riuscito a risalire china producendo un titolo che già ora aspira a entrare nella top 5 dei migliori giochi del 2017.

Difficile dire cosa fosse NiOh prima di raggiungere la sua forma attuale; di certo c’è che alla prima presentazione quasi tutti i giornalisti storsero il naso temendo l’ulteriore caduta di stile degli sviluppatori, stavolta semplicemente fatta scopiazzando i Souls. Col senno di poi, invece, è evidente che qualcosa in Hayashi e i suoi si dev’essere riacceso durante lo sviluppo di questo titolo, al punto da spingerli a una dimostrazione di fiducia nei propri mezzi che negli scorsi mesi si è concretizzata in tre demo enormi contenenti più di dodici ore di gioco. Pensateci: demo pubbliche così ricche di contenuti dovrebbero rappresentare un suicidio nel mercato odierno, e invece con NiOh sono diventate sia l’esca capace di catturare l’attenzione degli scettici, sia soprattutto un terreno di scambio con i giocatori, grazie al cui feedback sono stati apportati numerosi cambiamenti al prodotto che – in larga parte – lo hanno ulteriormente rifinito.

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Tra Dark Souls, Ran e Ringu.

Più nel dettaglio: dalla serie dei Souls il gioco recupera parzialmente il complesso sistema di sviluppo del personaggio attraverso l’uso di “anime”, che vengono perse a ogni morte e sono recuperabili nel luogo della propria dipartita, sempreché vi riesca a tornare senza morire un’altra volta. Analogamente, è presente un sistema di salvataggio a checkpoint fissi, che rappresentano anche gli unici santuari dove far crescere il proprio alter ego. Strutturalmente, quindi, è un soulslike. Tuttavia, non appena si fanno le dovute considerazioni sul comportamento dei nemici e gli scontri, NiOh rovescia le carte in tavola, ibridando il combat system dei Ninja Gaiden con il targeting dei Souls: rispetto alla saga di Miyazaki vanta una velocità d’azione elevatissima caratterizzata da schivate scattose ed efficaci, combo complesse (con mosse personalizzabili e sviluppabili a suon di punti abilità), un sistema di crafting più esteso, elementi di magia che funzionano grossomodo come classici power-up, e, soprattutto, nemici aggressivi e difficilissimi da seminare o ingannare sfruttando le complessità del terreno. È una splendida fusione di meccaniche, a cui si unisce un sistema di loot ispirato a Diablo che sottolinea l’abilità mostrata dal Team Ninja nel fondere con eleganza il meglio dalle produzioni occidentali e orientali, aggiungendovi come collante la loro competenza nel campo dei giochi d’azione. Accantonata l’ombra di Itagaki, Hayashi e i suoi hanno imparato a camminare con le proprie gambe seguendo una strada finalmente loro, senza dimenticare le basi ma reinterpretandole in modi nuovi. NiOh è quindi importantissimo perché non è un gioco concettualmente nuovo – quale lo è, dopotutto? –, bensì un veterano, un action pieno di cicatrici ma ancora bravo a combattere.

William Adams nella realtà era un marinaio del Kent. In NiOh è un modello di Philippe Plein.

Non per niente negli ultimi giorni la stampa lo ha spolpato e le recensioni sono praticamente tutte entusiaste, e perfino la storyline, costruita attorno alle vicende del primo samurai >gaijin William Adams (buttando lì figure storiche realmente esistite come Edward Kelley, Tokugawa Ieyasu e Hanzo Hattori), nella sua ingenuità adolescenziale funziona. Certo, non tutto è perfetto; per esempio, NiOh non gode della complessità del level design perfettamente interconnesso dei migliori Souls, né della loro evocativa direzione artistica, e anche il bilanciamento generale lascia talvolta a desiderare. Ciò nonostante resta un’opera con molta più personalità del previsto, che a tratti – con le sue animazioni improvvise e i suoi smembramenti brutali – ricorda da vicino il turbine di sangue, balzi acrobatici e attacchi caricati dei Gaiden.

Al netto dei complimenti, però, va fatto un ragionamento generale sulla via scelta dal Team Ninja nel rapportarsi al pubblico: la software house ha infatti sfruttato le beta del gioco per avere più feedback possibile dall’utenza e, per quanto in linea di principio l’approccio sia apprezzabile, ho l’impressione che abbiano ceduto troppo ai desiderata di chi si lamentava della difficoltà del gioco. La primissima demo di NiOh aveva infatti caratteristiche molto diverse da quelle attuali del titolo: per esempio, le armi si consumavano e perciò talvolta capitava di usarne alcune di una classe che altrimenti avremmo ignorato, portando così il giocatore a sperimentare; gli avversari, poi, erano letteralmente implacabili, e la barra della stamina (immancabilmente ereditata dai Souls) lasciava indifesi nel momento stesso in cui la si svuotava, costringendo a un calcolo preciso delle combinazioni e delle mosse utilizzate. Nella sua forma originale, quindi, NiOh era quindi ancora più ostico di adesso, ma, per converso, sapeva regalare maggiori soddisfazioni. Ora invece è tutto più facile, e malgrado vi siano boss brillanti e una modalità di gioco alternativa più impegnativa, un giocatore navigato può completare le prime missioni senza morire mai. Ebbene, se una tale scelta è del tutto logica da un punto di vista puramente commerciale, lo è meno nel principio: dopotutto, i sistemi nella loro forma originale funzionavano, avevano una certa sinergia, e potevano essere ritoccati e migliorati anche in maniera meno drastica. I Team Ninja hanno invece scelto la via più semplice a discapito della propria visione artistica; una mossa che Itagaki (anche forse erroneamente) non avrebbe mai e poi mai accettato, e che dimostra ancora una certa insicurezza nelle proprie risorse, più che una reale fiducia nel pubblico giocante.

Il duello tra samurai nell’erba spazzata dal vento: YES.

Ciò detto, è presto per dire se la volontà di accettare compromessi in base al feedback del pubblico si rivelerà una forza per gli sviluppatori, o se NiOh sia solo una felice casualità derivante da uno strano allineamento dei pianeti. Dopo questa prova, però, trovo doveroso accordare loro un po’ di meritata fiducia: a quasi dieci anni dal loro ultimo titolo degno di nota, e senza Itagaki (che con Devil’s Third pare aver perso ogni senso critico) Team Ninja ha finalmente sfornato un Signor Gioco.

Lunga vita al Team Ninja.

Aligi Comandini
Ex caporedattore di Spaziogames, ora scrive di videogiochi per Multiplayer, di fumetti per GQ e di barbe per se stesso.

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