Nell’infanzia videoludica ammiravamo videogiochi così realistici da sembrare veri. Col video No Respite, Daesh inverte l'equazione.
Com’è noto, il maggior problema di chi usa i social network consiste nel saper filtrare il rumore e separare la fuffa da ciò che è utile; non tutti lo fanno, ed è per questo che su Facebook o Twitter è raro che del materiale informativo di spessore trovi udienza. Per fortuna, alcuni dei miei contatti mi rendono la vita molto più semplice. Per esempio, qualche mese fa mi è capitato sotto gli occhi questo tweet dell’amico Vanni Santoni:
”Daesh, da oggi anche su Playstation 4” [Il nuovo video dell’Isis. La sua estetica] ~ https://t.co/t3SEP0hXCA
— vanni santoni (@vannisantoni) November 25, 2015
Il link rimanda a No Respite, un video di propaganda dell’ISIS pubblicato nel novembre del 2015, e quello che mi ha colpito immediatamente sono stati gli evidenti rimandi all’estetica dei videogame di guerra contemporanei. Vi invito a guardarlo e a tenerlo a mente perché tra non molto vi ritorneremo.
La voce del Califfato
Tra tutti i virgolettati e gli aforismi di Marshall McLuhan quotidianamente usati e citati nei circuiti dell’infosfera, ce n’è uno in particolare che, a partire dall’11 settembre, viene ripetuto con costanza. Si tratta del monito con cui l’autore di Understanding Media ricordava che “il terrorismo è un modo di comunicare” e che “senza comunicazione non vi sarebbe il terrorismo”. Non c’è bisogno di stilare un elenco di tutti i casi in cui dei gruppi terroristici hanno comunicato con l’esterno sfruttando ogni mezzo a loro disposizione, perché il princìpio che regolava la diffusione delle Polaroid del caso Moro è identico a quello che a venticinque anni dopo spingeva Osama bin Laden a registrare VHS e a spedirle a dorso di mulo attraverso il Passo di Khyber. In tal senso, quello che fa Daesh rientra appieno in questa tradizione: la propaganda dello Stato Islamico – nato dal vuoto di potere creatosi sul confine tra Iraq e Siria nell’intervallo di tempo compreso tra l’operazione Enduring Freedom e l’inizio della guerra civile contro Assad – rappresenta semmai solo l’ultima incarnazione del terrorismo come medium. Ma è un “solo” che non va sottovalutato: essa presenta infatti spiccati tratti di originalità rispetto ai predecessori, e tra le cassette analogiche di bin Laden alla macchina propagandistica cross-media del califfato passa una rivoluzione tanto tecnologica quanto culturale.
Come riportato in un articolo del Washington Post, accanto alle strutture burocratiche e militari, l’ISIS ha creato un ecosistema mediatico di importanza fondamentale, tanto che i suoi vertici sono investiti del titolo di “emiro” e ricoprono un grado equivalente a quello degli ufficiali militari; alcuni disertori del Califfato sostengono addirittura che agli uomini coinvolti nella sua produzione mediatica spettano paghe più alte e benefit maggiori rispetto ai combattenti in prima linea. La ratio dietro a questa apparente ingiustizia è che i media non hanno soltanto il potere d’incoraggiare chi già combatte, bensì anche e soprattutto quello di favorire il reclutamento di nuovi militanti.
Tutto questo è funzionale a una strategia ad ampio spettro che coinvolge un vasto ventaglio di mezzi di comunicazione differenti: dai social media, su cui i militanti lavorano per fare passare i messaggi del Califfato sfruttando avanzate tecniche di comunicazione (dal dirottamento di hashtag all’uso di app per dopare le tendenze), alla distribuzione di video che raffigurano spaccati di vita quotidiana all’interno dello Stato Islamico, così come efferate scene di violenza. Se paragoniamo l’organicità di questo approccio alla rudimentale propaganda a cui Al Qaeda ci aveva abituato nel post 11 settembre, il salto di qualità è evidente.
A impressionare non è solo la magnitudine dello sforzo profuso: la propaganda del Daesh colpisce anche e soprattutto per la sua profonda comprensione dei meccanismi e dei linguaggi mediatici occidentali. È probabile che questa sia dovuta – almeno in parte – al numero di cittadini europei e statunitensi che hanno scelto di trasferirsi nel califfato (circa 4,500 su un totale di 30,000); benché molti abbiano ingrossato le file dei foreign fighters, una parte di essi ha conservato lo status civile offrendo le proprie professionalità (media inclusi) alla loro nuova patria. Da ciò consegue che il notevole afflusso di occidentali è al contempo causa e effetto del carattere della macchina propagandistica del califfato: tanto più adotta linguaggi familiari ai musulmani d’occidente, quanto più li attrae a sé, innescando così una sorta di circolo “virtuoso” da cui derivano la sua crescente efficacia e la sua capacità di funzionamento.
Il modo in cui le unita propagandistiche dell’ISIS hanno gestito la vicenda del reporter britannico John Cantlie, trasformatosi da prigioniero a testimonial del Daesh, mostra chiaramente come i militanti si muovano perfettamente a loro agio nell’orizzonte mediatico dominante, ovvero quello occidentale. La forma seriale con cui è stata messa in scena la “Sindrome di Stoccolma” di Cantlie, il riferimento a Homeland (nonché ad analoghi prodotti della cultura contemporanea) e lo stile dei video – che ricordano certi documentari della BBC – costituiscono un apparato rappresentativo immediatamente comprensibile dallo spettatore occidentale, che viene così messo in condizione di comprendere immediatamente il contesto in cui si svolge l’intera operazione.
Anche No Respite, il video da cui siamo partiti in questo viaggio alla scoperta dell’apparato di comunicazione dell’ISIS, appartiene a questo filone. Il filmato è una dichiarazione di guerra da parte del Califfato – che si esprime tramite una voce narrante dal tono fermo e risoluto – rivolta a Stati Uniti ed Europa, così come Russia, Turchia e Iran (e, più in generale, a tutti i soggetti stranieri attivi sul teatro di guerra siriano).
Lo stile e il linguaggio del video sono decisamente peculiari: a colpire, più che l’uso di animazioni in computer grafica ed effetti speciali, è l’alternanza tra filmati di repertorio e numerose infografiche il cui scopo è accompagnare rivendicazioni morali e religiose con dati oggettivi (l’estensione del Califfato rispetto ad altre nazioni o, significativamente, i crescenti suicidii tra i soldati americani presentati come conseguenza della combattività dei mujaheddin). L’immagine del Daesh che emerge da No Respite è quella di uno stato multietnico a cui la religione fornisce un collante di valori etici contrapposti ai disvalori occidentali.
La propaganda del Daesh colpisce anche e soprattutto per la sua profonda comprensione dei meccanismi e dei linguaggi mediatici occidentali.
Nonostante l’evidente differenza tra valori ed etiche, fin dalla prima visione ho associato il flusso di immagini di No Respite a un altro flusso, molto familiare per me e per milioni di altre persone: le cutscene di World at War, il quinto episodio della serie Call of Duty. Anche nel titolo Treyarch le sequenze introduttive sono costruite seguendo la medesima tecnica usata nel video dell’ISIS. Alle animazioni e alle infografiche che presentano dati e fatti storici sono affiancati filmati d’archivio, mentre una voce fuori campo sviluppa la narrativa necessaria a contestualizzare e introdurre ciò che verrà dopo (nella fattispecie, la ricostruzione ludica della campagna americana nel Pacifico e della controffensiva russa).
La somiglianza non è casuale, e del resto non è la prima volta che Daesh utilizza i videogiochi a scopi di propaganda. Tuttavia, l’accostamento tra No Respite e World at War non ci parla soltanto della sua capacità di padroneggiare “all’occidentale” la comunicazione, ma anche – seppure in maniera indiretta – dell’influenza che i videogame esercitano sulla nostra rappresentazione della realtà.
La realtà è un testo
In un volume uscito poche settimane dopo la sua morte, lo studioso di cinema Marco Dinoi notava come, nel tempo intercorso tra la nascita del cinema e l’11 settembre, la reazione di fronte alle immagini filmate era passata dai “sembra vero!”, con cui erano state accolte le prime proiezioni dei fratelli Lumière, ai “sembra un film!” con cui abbiamo commentato il crollo delle due torri. Si tratta di uno slittamento d’immaginario notevole dovuto al fatto che per tutto il Novecento il cinema ha costituito il principale orizzonte e strumento cognitivo che abbiamo usato per organizzare la rappresentazione della realtà. Quest’ultima non è infatti qualcosa di esterno e oggettivo, quanto il risultato di una serie di effetti di testo: ogni forma di rappresentazione dell’esistente (dipinti, fotografie, film, videogiochi, romanzi, poesie e così via) contribuisce a creare e diffondere modelli capaci di strutturarne e interpretarne l’esperienza. Essa è dunque testualizzata e, di rimando, la nostra sfera percettiva è fortemente influenzata da modelli cognitivi altamente culturalizzati. Secondo Dinoi, la gestione mediatica di un evento di portata epocale come l’11 Settembre ha segnato non solo il culmine di un secolo in cui il cinema ha costruito attivamente il nostro sguardo sulla realtà, funzionando come un orizzonte cognitivo condiviso e diffuso, ma anche l’emergere di un regime visivo completamente nuovo e inedito, le cui avvisaglie si potevano già cogliere in filigrana, ma che solo durante e dopo la caduta delle Torri Gemelle s’è fatto completamente visibile.
A cogliere due dei principali aspetti di questo “regime della visibilità” ci ha pensato il teorico dei media digitali Lev Manovich, in un libro diventato ormai un classico della teoria dei mezzi di comunicazione: Il linguaggio dei nuovi media. Secondo il suo autore, il digitale presenta due forme distinte di accesso all’esperienza talmente forti e pervasive da costituire altrettante forme culturali; si tratta del database informatico e dello spazio virtuale in 3D realizzato al computer, e a ciascuna di esse corrisponde uno specifico sguardo: completamente oggettivo per la prima, completamente soggettivo per la seconda.
È interessante notare come – nel linguaggio videoludico – questa dicotomia si ritrovi nella contrapposizione tra l’oggettività dei Real Time Strategy Games (RTS) e la soggettività dei First Person Shooter (FPS), ambedue facenti parte della macrocategoria della simulazione bellica.
Nei primi, il giocatore controlla il campo di battaglia dall’alto attraverso una visuale isometrica, o a volo d’uccello (plongée), che gli consente di avere una visione d’insieme fondata sull’informazione “pura”. Quando, tramite l’interfaccia, accede al database di possibilità e variabili offerte dal gioco, unità militari, strutture, risorse, bonus non sono altro che l’abito con cui vengono rivestiti dei dati, e la sfida consiste nel saperli interpretare e gestire in tempo reale così da mantenere il controllo del campo di battaglia. Il giocatore acquista così una qualità divina che lo rende il demiurgo assoluto di quanto sta accadendo nella simulazione, una posizione appunto oggettiva e distaccata che lo allontana dalle vicende terrene, ovvero dagli scontri all’ultimo sangue in cui le sue unità sono costantemente impegnate.
Scontri in cui, al contrario, gli FPS calano il giocatore in prima persona. Qui il suo sguardo corrisponde a quello del personaggio, e dalla visione globale e demiurgica degli RTS si passa a una visione parziale, personale e ancorata alla brutale frenesia del campo di battaglia. Qui non conta la capacità analitica e gestionale di un elevato numero di dati in tempo reale, bensì quella di sapersi muovere attraverso stimoli sensoriali che si avvicendano in modo sempre più rapido e incalzante.
Ibridare il reale
Con un’utenza globale di 1,78 miliardi, i videogiochi costituiscono una della più diffuse forme di intrattenimento contemporanee e, di conseguenza, il database informatico e lo spazio virtuale 3D sono due delle principali forme culturali che caratterizzano la società digitale, nonché altrettanti filtri con cui essa interpreta la realtà che la circonda. In tal senso, No Respite non è un’eccezione o un corto circuito comunicativo, bensì un esempio (eclatante, questo sì) del movimento di ibridazione della realtà operato dai videogiochi e dai media digitali in generale.
Per trovare altri esempi non serve guardare lontano: basti pensare a GoPro, il marchio con cui la californiana Woodman Labs commercializza una serie di videocamere e fotocamere “indossabili”. Questi dispositivi – robusti, resistenti all’acqua e agli urti – si sono diffusi inizialmente tra gli appassionati di sport estremi, dando un forte impulso allo sviluppo della fotografia cosiddetta “d’avventura” (parkour, downhill, canyoning e via dicendo), ma il passo verso altri utilizzi è stato breve. Il fenomeno del war porn, ovvero video realizzati con videocamere Go Pro da soldati, mercenari e foreign fighters nei teatri di guerra di tutto il mondo, rappresenta oggi una delle più particolari forme di ibridazione del reale da parte dell’estetica videoludica. Non soltanto per le problematiche che solleva presso i vertici militari, abituati a controllare maniacalmente i flussi di immagini provenienti dai campi di battaglia in cui sono impegnati, ma anche perché questo genere di video sembra smentire la narrazione pseudorealistica della guerra a cui i videogame ci hanno abituati. Quasi mai, infatti, il nemico è visibile chiaramente; quasi mai ci si trova in situazioni frenetiche e sovrastimolanti come quelle a cui i FPS – la più evidente fonte d’ispirazione – hanno abituato i gamer di tutto il mondo. L’eccesso di stimolazione (e le patologie a esso collegate) sembra perciò situarsi non tanto nella realtà riportata del campo di battaglia, quanto nella percezione che ne hanno i soldati e i cui resoconti costituiscono una fonte primaria per gli sviluppatori di videogiochi.
Dall’altro lato della barricata (cioè il database informatico come forma di accesso all’esperienza), l’ibridazione della realtà da parte dei videogame si riscontra nella crescente tendenza alla quantificazione di un numero sempre più vasto delle nostre esperienze. Dalla lettura (Anobii, Goodreads) all’ascolto di musica (Last FM, Spotify), passando per il monitoraggio dei cicli mestruali (OvuView) e l’esercizio fisico (Runtastic), sempre più applicazioni ci permettono di registrare minuziosamente tutte le azioni che svolgiamo nel corso della nostra esistenza. Tutto ciò che facciamo viene così ridotto a un dato numerico puro, archiviabile, accessibile, analizzabile e utilizzabile, esattamente come avviene con i dati di una partita a Starcraft. Anche l’idea di Gamification, intesa come la riduzione di un’attività complessa in una serie di task specifici il cui completamento dà diritto a una ricompensa, si basa sulle possibilità offerte dal database informatico come forma culturale, ovvero dalla possibilità di quantificare un determinato numero di azioni in ordine crescente di difficoltà.
Le applicazioni di realtà aumentata (che le si utilizzi per scopi ludici o per attività militari non fa differenza) rappresentano invece una forma di possibile sintesi tra le due forme digitali di accesso all’esperienza individuate da Manovich. Implementate nei più comuni dispositivi mobile o in dispositivi head-up come i famigerati Google Glass, le applicazioni di realtà aumentata uniscono le risorse del database informatico a quelle dello spazio virtuale 3-D. Anzi, la sovrapposizione tramite dispositivi indossabili di interfacce grafiche per l’accesso alle informazioni e alla realtà che ci circonda trasforma lo spazio fisico che esperiamo nell’equivalente degli spazi virtuali in tre dimensioni che esploriamo nelle vesti dei nostri avatar videoludici. Lo sguardo demiurgico della divinità in grado di avere ogni dato a portata di mano e quello incorporato nella realtà delle nostre estensioni vistruali si fondono qui in uno sguardo di sintesi dai contorni ancora inediti.
Che ne sarà, dunque, del nostro sguardo quando questo sarà il risultato dell’immersione in un ambiente dove ogni elemento che ci circonda può essere la chiave di accesso a un numero potenzialmente infinito di informazioni a nostra disposizione? Questa è la domanda a cui l’evoluzione del linguaggio videoludico e le sue ricadute sul reale ci pongono di fronte. Dalla ricerca di una grafica fotorealistica che facesse assomigliare i videogiochi ai film (e quindi alla realtà filmata) alle rappresentazioni della realtà ibridate dall’estetica dei giochi elettronici il passo è stato (apparentemente) assai breve. Non ci è dato sapere se in futuro questo processo avrà luogo tramite la realtà aumentata, il rinnovato interesse per quella virtuale o qualche altra tecnologia ancora da inventare; quello che è certo è che oggi abbiamo un posto in prima fila per assistere allo spettacolo e, in alcuni casi, la possibilità di diventarne, se non protagonisti, almeno comparse.
Nasce nel 1983 qualche decina di chilometri a sud del Brennero. Ha scritto su Franz Magazine, Lavoro Culturale, Doppiozero, Il Manifesto e Vice. Con :duepunti ha pubblicato l'ebook "Su Facebook" e con Agenzia X il saggio "Stupidi Giocattoli di Legno".