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Con le loro visioni, scrittori come il francese Antoine Volodine e il rumeno Mircea Cărtărescu stanno spalancando la soglia di una letteratura popolata da mondi inclassificabili e bizzarre metafisiche.

Quando si passa da lettore a scrittore, molte cose nel nostro approccio alla lettura cambiano. Quando cominciai a scrivere seriamente, realizzai che la mia preparazione era piena di buchi, che questi buchi andavano tappati, ma anche che c’erano romanzi che sarebbero stati più utili di altri rispetto a quello che facevo o intendevo fare. A queste esigenze se ne aggiunse presto un’altra. Era necessario leggere anche i contemporanei, giacché se i classici ci danno le basi, non si può comunque fare a meno di provare a stimare quale forma potrà prendere in futuro il canone. La mia fascinazione si indirizzò così sulle opere che provavano a spostare il campo del romanzo, a segnare la via, a lanciare suggestioni per chi sarebbe venuto dopo.

I miei primi anni da lettore di contemporanea, essendo cresciuto con una dieta quasi esclusivamente medievale e ottocentesca, furono esaltanti: leggevo uno dietro l’altro romanzi come Pastorale americana di Roth, Meridiano di sangue di McCarthy, Beloved di Morrison, L’arcobaleno della gravità di Pynchon, Libra di DeLillo, Europe Central di Vollmann, Infinite Jest di Wallace, in uno stato di esaltazione crescente: il filone nordamericano sembrava infinito, e infinita sembrava la sua capacità di dettare legge. In realtà, dopo Wallace la sorgente andò ad assottigliarsi: c’è stato chi, come Franzen, ha alzato le mani in una resa (difficile non pensare che il suo ritorno al conservatorismo narrativo non sia stato un modo per evitare di confrontarsi con l’amico-nemesi DFW), ma anche quelli che hanno continuato a spingere, a conquistare nuovi territori – penso a Chabon, Díaz, Egan, Hemon, Lerner, Lethem… – lo hanno fatto da posizioni minoritarie, di consapevole debolezza. Ci eravamo, in effetti, già voltati tutti verso Roberto Bolaño. A causa sua, dei Detective selvaggi, di 2666, avevamo magari ripreso in mano pure Rayuela di Cortázar o i romanzi di Sabato e Onetti, ma poi? Letti anche i suoi libri minori, che fare, dove andare?

L’ultimo che sembrava avere la tecnica, l’esperienza, il genio, la preparazione e il respiro per ampliare il campo in modo significativo, W.G. Sebald, ce l’aveva portato via un incidente stradale proprio quando, con l’immenso Austerlitz, aveva mostrato di poterci guidare nel buio della letteratura ancora da farsi. Ma cosa avrebbe potuto scrivere ancora? Piango al pensiero, senza scherzi. Il romanzo, del resto, opera nel canone ma deve sempre sfondare verso  nuove direzioni, anche perché, parafrasando (e prendendo con le dovute molle) Weiwei, ‘‘la tradizione è un readymade’’. A volte, a fare tale passo, è riuscito qualcuno che non aveva la tecnica dei giganti, ma varcare quel limite significa arrivare comunque a sedersi al loro tavolo: l’interesse di scrittori ‘‘alti’’ come Carrère o Houllebecq per autori di genere un tempo considerati di serie B o C come Dick e Lovecraft è una delle tante testimonianze in tal senso(1).

Dalla Francia, accanto a simili testimonianze, arrivava ancora qualche sparso capolavoro, come Le particelle elementari dello stesso Houllebecq, quasi-capolavori che flirtavano con Pynchon come Le benevole di Littell, e grandi libri che erano promesse di possibili futuri capolavori (2) come Zona di Énard, ma non parevano giungere nuove – chiamiamole così – indicazioni, almeno fino a oggi(3). Il libro a cui voglio arrivare è infatti Terminus Radioso di Antoine Volodine, appena pubblicato dalla casa editrice indipendente romana 66thand2nd, che non sarà forse un capolavoro assoluto (questo lo dirà il tempo), ma è certamente un libro importante, che sfonda con efficacia il muro tra ‘‘genere’’ e ‘‘non genere’’, e che di indicazioni, di tentativi di mappare territori nuovi, è pieno.

Il romanzo, del resto, opera nel canone ma deve sempre sfondare verso nuove direzioni, anche perché, parafrasando Weiwei, ‘la tradizione è un readymade’.

Prima di arrivarci, però, è opportuno spostarsi un po’ più a est – anche più a est di Sebald. Negli ultimi anni, la ricerca di questo ‘‘oltre’’ narrativo mi aveva portato a identificare, come polo di innovazione(4) ormai superiore a una narrativa nordamericana accartocciata su se stessa, l’area balcanico-slava. Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov, bulgaro, non aveva ambizioni massimaliste, ma mostrava una piena digestione dell’intera lezione modernista e postmodernista, e la capacità di metterla al servizio di una narrazione comunque fruibile (giacché di pari passo col problema di mappare nuovi territori vi è la questione del non diventare, per questo, illeggibili: di non finire allo ‘‘sperimentare per sperimentare’’); La giornata di un opričnik di Vladimir Sorokin, russo, riusciva a piegare le suggestioni di genere e le necessità della satira a un romanzo che risultava comunque letteratura ‘‘alta’’; Lázló Krasznahorkai, scoperto tardi (il suo capolavoro Satantango è rimasto inedito in Italia per tre decenni: arriverà in ottobre in libreria per Bompiani), continuava dall’Ungheria a portare novità e vigore; e anche il più interessante tra gli scrittori della nuova generazione americana, l’Alexandar Hemon del Progetto Lazarus, era in fin dei conti un bosniaco arrivato in America già adulto…

Tutti segnali importanti, che sono culminati nella scoperta della trilogia Abbacinante di Mircea Cărtărescu, rumeno, e come Krasznahorkai più volte sfiorato dal Nobel. Ora, al di là del gusto e delle affinità personali(5), ciò che conta ed è veramente importante della trilogia (ma forse ‘‘romanzo in tre volumi’’ sarebbe più adatto) di Cărtărescu è la sua capacità di spostare il campo d’azione della letteratura, attraverso un uso estremo, forse addirittura spregiudicato, della visione.

La visione, e non il sogno: è importante rimarcare come quelle di Abbacinante, che pure a volte usa anche suggestioni oniriche, siano visioni, caratterizzate come sono da una natura continuativa, mutante, ricorsiva, frattale, policrona (o atemporale), raggiante, costantemente tracimante nel campo delle categorie dello spirito. Visione, peraltro, non ridotta a evenienza possibile, come già tante volte era avvenuto in letteratura, ma elevata a asse e struttura del romanzo, a dispositivo tramite il quale digerire nuovamente, e ibridare, mitologia e autofiction, memoria e fantasia, storia (e sua satira), piani temporali alternativi, letture del mondo frutto di nuove discipline quali genetica, cosmologia, fisica quantistica.

Ciò che è veramente importante della trilogia di Cărtărescu è la sua capacità di spostare il campo d’azione della letteratura, attraverso un uso estremo, forse addirittura spregiudicato, della visione.

Curiosamente, mentre stavo ancora assillando il prossimo con Cărtărescu(6), mi capita tra le mani questo Terminus radioso di Antoine Volodine, scrittore sì francese ma di origini russe, già insegnante di russo, e che si è infine scelto, e per niente a caso, uno pseudonimo russo (Volodine, che ha studiato e insegnato anche portoghese, utilizza come Pessoa vari eteronimi: Elli Kronauer, Manuela Draeger, Lutz Bassmann, autori che a volte troviamo citati all’interno delle sue opere, come appartenenti alla corrente letteraria finzionale, ma di fatto fattasi reale per l’esistenza di Volodine stesso, del ‘‘post-esotismo’’). Lo avevo già incontrato. Avevo letto Undici sogni neri, firmato dall’eteronima Draeger e pubblicato in Italia nel 2013 da Clichy, e poi, in seguito alle parole entusiaste di un autore della mia collana(7), mi ero procurato anche Angeli minori, pubblicato non molto tempo fa dall’Orma. Entrambi mi erano piaciuti, ma non mi avevano fatto l’effetto di Terminus radioso, che per potenza, precisione e sicurezza di sé e del proprio discorso, ha tutta l’aria di essere uno di quei romanzi che costituiscono il compimento di un percorso e di una poetica.

Per quanto riguarda la struttura, Terminus radioso è tuttavia un romanzo classico. Lungi dalle vertigini psichedeliche e dalle continue mise en abyme di Abbacinante(8), le cinquecentoquaranta pagine del romanzo di Volodine raccontano una storia per certi versi classica: un errante giunge a perturbare l’equilibrio di un luogo dove agiscono forze potenti, e lo fa secondo un arco narrativo esso pure classico. Ciò che invece è tutt’altro che classico, è l’ambientazione, sia in senso ampio – siamo in una Russia che si è lasciata dietro l’ascesa e il crollo di una seconda Unione Sovietica ed è oggi ridotta a un deserto nucleare per il progressivo deteriorarsi di una moltitudine di centrali (né il resto del mondo, si intuisce, deve essere messo troppo meglio) – che ristretto.

Il luogo in cui l’errante, il soldato Kronauer(9), giunge dopo una tragica peregrinazione nella steppa radioattiva assieme a due compagni, è un kolkhoz trasfigurato in spazio metafisico: al suo centro c’è un pozzo di due chilometri, creato dallo sprofondamento della pila atomica avariata, a cui vengono gettati sacrifici come a un dio, e su cui regnano nonna Udgul, un’eroica pioniera ultracentenaria resa immortale dalle radiazioni (e finita laggiù anche a causa delle perplessità del Partito circa l’ortodossia della sua condizione) e Soloviei, un terribile padre-padrone a metà tra Rasputin e Crono, in grado di leggere la mente e insediarsi nello spirito delle persone, per controllarle ma anche per imporgli le proprie velleità letterarie. Capace di portarle, come in una sorta di inception, anche nel proprio mondo o in mondi costruiti ad hoc, giacché nell’universo volodiniano, come in quello cărtăreschiano, è molto difficile, e probabilmente futile, distinguere tra piani di realtà primari e secondari, tra dentro e fuori, tra reale, immaginario, e immaginato che si fa reale.

Terminus radioso, per potenza, precisione e sicurezza di sé e del proprio discorso, ha tutta l’aria di essere uno di quei romanzi che costituiscono il compimento di un percorso e di una poetica.

Proprio grazie a questi elementi, l’ambientazione postapocalittica viene messa in campo da Volodine con un colpo da maestro mancato anche a un gigante come Cormac McCarthy, quando con La strada si è confrontato col medesimo genere. Volodine riesce infatti a scrivere un romanzo certamente postapocalittico (e quindi, volendo usare le svuotate categorie novecentesche, ‘‘di fantascienza’’) che non solo si eleva a pienamente letterario attraverso la lingua (questo lo fa anche McCarthy) ma arriva anche a reinventare l’immaginario di riferimento fino al punto di rendere inutilizzabili le categorie di cui siamo già in possesso: quando leggevamo La strada, non appena avevamo identificato il genere, ecco tornare alla mente i ‘‘template’’ di Mad Max, di Ken il guerriero, finanche di Fallout, pronti a prendersi tutto il campo con buona pace delle ambizioni escatologiche di McCarthy (il quale pure, a suo tempo, era riuscito a ‘‘superare’’ il genere-western con Meridiano di sangue). In Terminus radioso, quel che sappiamo già del postapocalittico serve a poco, non vale da appiglio.

Anche la categoria base che saremmo portati a utilizzare, quella della necessità di sopravvivere, salta (anzi, è tra le prime a saltare): i personaggi di Volodine hanno un orizzonte di vita di pochi giorni oppure sono immortali, o ancora sono già morti e avanzano in un eterno Bardo Thodol, loro stessi indecisi circa la natura del loro stato; inoltre la situazione, il diverso stato di realtà in cui si trovano, li porta a fare scelte spesso contrarie a quella che consideriamo la logica comune. Come in Cărtărescu, ma secondo linee che arrivano più dal ‘‘genere’’ che dalla mitologia e dalla teologia, si prova ad ampliare la portata del romanzo azzardando l’assalto a una nuova metafisica, a una ricollocazione e valorizzazione del significato della dimensione immaginaria fino a un relativismo assoluto dell’esistente, in cui ciò che avviene nel sogno, nel delirio, nella visione mistica, nel virtuale, nella realtà, è del tutto equivalente: cambia solo il tipo di rapporto tra le cose, la grammatica secondo cui si organizzano e il tipo di pattern che esse possono formare.

Dopodiché, volenti o nolenti, un buco di sette secoli. (cit.)

(1) A proposito di ‘‘genere’’ che supera i propri confini e apre nuovi fronti al romanzo, vale la pena ricordare che la piccola casa editrice Safarà sta pubblicando, per la prima volta in italiano, la quadrilogia Lanark di Alasdair Gray, operazione che meriterebbe maggiore attenzione.
(2)Promessa forse mantenuta nell’eccellente Bussola, appena uscito da E/O (e ancora in lettura mentre sto scrivendo il pezzo), col quale Énard pare aver scelto, da parte sua, la direzione indicata da Sebald.
(3) A parte, forse, qualcosa dall’opera di Maylis de Kerangal, che ha fatto dell’azzardo del punto di vista una cifra di poetica.
(4) Vale la pena ricordare che esiste anche un’altro filone, quello che riparte da Proust, piuttosto che da Joyce e dai postmoderni, con autori come Knausgård o Ferrante.
(5) E al di là della piena digestione dell’opera di Pynchon da parte di Cărtărescu, altro passaggio cruciale finora mancato alla narrativa europea.
(6) Più volte l’ho raccontato e più volte ho intervistato l’autore, ma a recensirlo c’è riuscito Giovanni Bitetto su Ultima Pagina.
(7) Quel Luciano Funetta il cui Dalle rovine è incidentalmente citato in un bel pezzo di Alcide Pierantozzi, che vede in esso, così come nell’altro notevole esordio Il grande animale di Gabriele di Fronzo, un segnacolo di nuove possibili direzioni per la nostra narrativa.
(8) Che comunque, con parsimonia, si permette a volte anche Volodine, come nella scena sconcertante della furia di una delle figlie di Soloviei.
(9)Omonimo, si noterà, di uno degli eteronimi dello stesso Volodine.

Vanni Santoni
Vanni Santoni (Montevarchi, 1978) è uno scrittore. Il suo ultimo romanzo "Muro di casse" è uscito per Laterza nel 2015 ed è dedicato alla cultura rave dagli anni Novanta a oggi.

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