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Per rispondere alla minaccia populista, la classe creativa urbana e progressista ha scoperto una nuova, formidabile arma. Quale? Un’altra forma di populismo, ovvio.

Tiriamo un sospiro di sollievo, amiche e amici che leggete queste righe, e che per dimenticare i cupi tempi in cui ci è toccato in sorte di vivere siete passati da una seduta di binge watching alla lettura completa di tutti i longform che avevate lasciato in sospeso da giugno 2016 a oggi: finalmente i populismi che vanno infettando mezzo pianeta dopo Brexit e Trump hanno trovato pane per i propri denti. All’attacco frontale portato da questo rozzo manipolo di prepotenti fascistoidi, è seguita la ferma reazione di quella parte sana che non ci sta a farsi mettere all’indice né tantomeno relegare in un angolo. E all’offensiva reazionaria infarcita di turpiloquio e alternative facts che da soli suonano come un insulto all’intelligenza di chi le cose le sa, risponde indomita la voce degli assediati e degli emarginati. Tenetevi forte ragazzi, perché Trump, May, Grillo e Le Pen hanno i giorni contati: è arrivato il momento della riscossa! Basta sensi di colpa e sindrome da accerchiamento: l’ora è scattata, tiriamo fuori le pal… cioè no, scusate, facciamo vedere di che pasta siamo fatti e rispolveriamo un po’ di sano e combattivo orgoglio di classe, anzi che dico, di ORGOGLIO ÉLITE!

So che sapete di cosa sto parlando. È un sentimento che cova da tempo, ma che solo da qualche mese sembra aver individuato una sua narrazione coerente. L’intervento che può valere come simbolico inizio di questa (curiosa? Grottesca? Preoccupante?) deriva identitaria, è probabilmente quello che lo scorso 2 febbraio Eliane Glaser ha pubblicato sull’Independent: intitolato I am a member of the intellectual, liberal elite – it’s time we stood up for ourselves and our ideas, l’articolo rivendicava i valori e le competenze di quel segmento sociale che si sente minacciato dal prepotente “anti-intellettualismo” della non meglio precisata “gente ordinaria”, e di cui personaggi come Trump sono al tempo stesso conseguenze e portavoce.

Il segmento in questione è, appunto, quello delle moderne élite “intellettuali e liberali”: due aggettivi che a loro volta riportano all’originaria definizione che di creative class diede Richard Florida. Anche per Florida quella che a inizi anni 2000 comincia ad emergere nei centri urbani da una parte e dall’altra dell’Atlantico è una “classe” che si raccoglie attorno a una serie di valori molto precisi e che di nome fanno merito, cosmopolitismo, tolleranza nei confronti dell’altro, oltre che naturalmente “creatività” e “cultura”; ma se di classi bisogna parlare, sappiamo che queste si riconoscono in quanto tali solo nel momento in cui individuano un insieme di interessi distinti (e a volte contrapposti) a quelli delle restanti classi in cui si costituisce una società. In questa chiave, quel “it’s time we stood up for ourselves and our ideas” evocato dall’Independent ha proprio il sapore della chiamata alle armi nella più gloriosa tradizione dell’ormai semidimenticata lotta di classe. Solo che ecco: dall’eterno conflitto tra sfruttati e sfruttatori, si sarebbe passati allo scontro senza esclusione di colpi tra creativi e “ordinary people”. O se vogliamo, tra élite e popolo – solo che a ruoli invertiti, pare di capire. Come siamo arrivati a tanto?

In realtà, nonostante il titolo, l’articolo della Glaser puntava perlopiù a sottolineare come i nuovi populismi avessero sottratto alla sinistra alcuni dei suoi argomenti storici, per sostituirli con una retorica del tutto disinteressata a qualsivoglia aspirazione egualitaria: “alla lotta di classe, hanno sostituito una guerra culturale”, sostiene la giornalista inglese; l’anti-intellettualismo ha “rimpiazzato la battaglia contro le disuguaglianze” senza in alcun modo scalfire gli interessi delle oligarchie economiche e finanziarie, vale a dire delle élite quelle vere. Basta d’altronde contare quanti uomini Goldman Sachs siedono sulle poltrone dell’amministrazione Trump.

Qualora servisse ribadirlo: la Glaser ha senz’altro ragione, e la nuova destra populista è tutto tranne che anti-establishment – anzi. Ma è vero che l’articolo dell’Independent si chiudeva su una nota ambigua: identificando una serie di valori – competenza, idee complesse, buongoverno – per loro natura elitari, suggeriva infine di “inventare nuove istituzioni, standard e autorità che non siano associate ai decrepiti […] modelli del passato”. In tempi in cui ci si domanda se abbia ancora senso insistere con la democrazia, e in cui si vagheggiano modelli che prevedono il diritto di voto su base meritocratica, è un invito che – al di là delle reali intenzioni della Glaser – rischia di suonare sinistro. E infatti.

L’allucinazione della classe creativa
In Italia, l’articolo dell’Independent è stato tra gli altri ripreso da un altro intervento che ha suscitato reazioni oscillanti tra lo sconcerto e l’approvazione incondizionata: su Pagina 99, Flavia Gasperetti semplificava ulteriormente il messaggio della Glaser per dipingere un “ceto medio progressista […] chino sotto il peso del proprio senso di colpa secolare verso gli svantaggiati” – senso di colpa da cui, va da sé, è arrivato il momento di sbarazzarsi, per ribadire una volta per tutte che “siamo meglio di loro”.

Nel suo articolo, dai tratti molto emotivi e dall’andamento non proprio lineare, Gasperetti sorvola su quella che in fin dei conti resta pur sempre la tesi di fondo della Glaser: la distanza che separerebbe le cosiddette “élite intellettuali” (buone) dalle loro omologhe economiche e finanziarie (cattive). Questa dimenticanza, o meglio questa confusione che è al tempo stesso semantica e concettuale, non mi sembra casuale: l’ostinazione con cui il “ceto medio progressista” evocato dalla Gasperetti tende da qualche tempo a questa parte a identificarsi con l’ambigua categoria dell’élite, da una parte sembrerebbe celare un desiderio nemmeno tanto inconscio (l’aspirazione a scalare i piani alti delle gerarchie di classe), dall’altra tradisce una natura ideologica che tenta a suo modo di risolverne le contraddizioni di fondo.

Torniamo all’influentissima nonché controversa definizione di creative class fornita a suo tempo da Richard Florida: intrisa com’è di valori borghesi (il merito, la competizione, l’individualismo disruptive ecc.), questa supposta classe avrebbe in effetti tutti i profili dell’élite. Ma c’è un’altra élite a cui i membri della classe creativa quasi mai appartengono: quella economica. Al contrario: come ricorda Francesco Guglieri in un altro articolo ancora su Pagina 99, le “élite culturali sono socialmente ed economicamente disagiate tanto quanto gli indignati di turno”. Detta altrimenti: i giovani professionisti urbani e progressisti che pure in questi mesi hanno interpretato la parte dei più esagitati apologeti dell’orgoglio elitista, sono una figura ricorrente al limite dello stereotipo di quel mondo di mezzo fatto di lavori precari e malretribuiti, incertezza sul futuro e sfruttamento.

Eppure, se c’è una caratteristica che ne contraddistingue l’afflato identitario, è proprio lo slancio con cui queste malridotte élite culturali fanno coincidere le proprie sorti con un imprecisato progresso (anche) economico i cui tratti non differiscono in nulla da quelli che pure le hanno relegate in una posizione di subalternità. Al più, qui e là si avanzano timidi dubbi che si risolvono quasi sempre in un affranto nonché rinunciatario “che fare? Boh” (indicativa in tal senso è la recente riflessione di Vincenzo Latronico sulla querelle tassisti vs. Uber), oppure si azzardano tesi politico-sociologiche dal retrogusto apocalittico – in questo, si veda il solito Raffaele Alberto Ventura con la sua fantasiosa “teoria della classe disagiata” – che rifiutando per principio l’ipotesi che ci sia un’alternativa al presente così com’è, portano diritte all’accettazione acritica di un destino ineluttabile al quale tanto vale adeguarsi, essendo l’unica altra opzione sul tavolo la guerra civile. Per metterla con uno dei segni grafici più amati dai creativi di ogni dove, probabilmente non per caso: ¯\_(ツ)_/¯

Se insomma è vero che, come ricorda la Glaser, la rappresentazione che i populismi di destra danno delle élite intellettuali è un modo per non mettere in discussione i meccanismi che davvero regolano ingiustizie e disuguaglianze, è anche vero che esiste un problema di autorappresentazione tutto interno alle élite in questione. Dopotutto, a cementarne l’identità “di classe” non è quasi mai (togliete pure il quasi) la riflessione sui rapporti coi mezzi di produzione o la consapevolezza della propria posizione economica e finanche esistenziale; e anche la diffusa adesione a un sistema valoriale tendenzialmente progressista, è un collante troppo debole ai fini di quella che una volta avremmo chiamato “coscienza di classe”. Piuttosto, le moderne élite intellettuali si riconoscono come tali in virtù dei consumi che legano tra loro individui potenzialmente sparsi ai quattro angoli del globo, ma idealmente accomunati dai medesimi gusti, codici e linguaggi. Che poi questi consumi siano principalmente culturali, è la naturale conclusione di una classe che, secondo Scott Timberg, in quanto “creativa” può essere definita come “chiunque contribuisca a creare e diffondere cultura”.

Da questo punto di vista, l’élite intellettuale figlia del dibattito sulla classe creativa è quasi letteralmente una variante sul tema del cittadino-consumatore vagheggiato a suo tempo da ordoliberali e fautori della fantomatica economia sociale di mercato. In effetti, se proviamo a elencare i caratteri che gli ideologi del neoliberalismo sociologico proiettavano sulla loro società dei sogni, è facile notare come corrispondano quasi in tutto ai valori delle élite di cui sopra: spirito imprenditoriale, anelito moralizzatore, solidarietà a patto che l’individuo interiorizzi i meccanismi dell’impresa, eccetera eccetera eccetera. Certo, ai tempi per pensatori come Wilhelm Röpke il modello di riferimento erano le piccole aziende agricole delle campagne svizzere. Ma che ne poteva sapere lui di start up e incubatori d’impresa?

L’imprinting che la “terza via al capitalismo”  – o piuttosto, le varie “terze vie” che nei decenni si sono succedute – ha trasmesso all’élite liberal e al modo in cui questa si (auto)rappresenta, ricorre quasi ovunque: dopotutto, il dibattito sulla classe creativa emerge negli stessi anni in cui John Prescott andava allegramente affermando che “we’re all middle class now”, e da cui sarebbero discese interpretazioni come quella secondo la quale “la differenza di classe oggi non deriva tanto da quanti soldi abbiamo, ma da come li spendiamo” – insomma, ancora una volta, dai consumi. È probabile che, a tali di per sé discutibili assunti, la classe creativa si richiami per il semplice motivo che altrimenti non saprebbe configurarsi come classe; ma così facendo, appiattendo l’intera società sul terreno indifferenziato di una middle class trasversale e onnicomprensiva, ha finito per proiettare le proprie logiche interne a un mondo che quelle logiche o non le ha conosciute, o è stato costretto a seguirle pena l’esclusione da qualsiasi diritto di rappresentanza. Sostanzialmente, quella della classe creativa è un’allucinazione: sia in un senso (il modo in cui i suoi appartenenti hanno finito per identificarsi in una costruzione ideologica estranea alla realtà socio-economica da loro stessi vissuta), sia nell’altro (la “fantasia” di un mondo che si pretende coincida con la realtà “così com’è”). Ma da bravo (ex) frequentatore di psicoattivi empatogeni e psichedelici, lasciatemi dire una cosa: anche le allucinazioni più lunghe e intense, a un certo punto svaniscono. E il risveglio, alle volte, può essere talmente brusco da non desiderare altro che ritornare ai rassicuranti panorami del sogno.

Pop(ulismo) d’élite
Nel già citato articolo per Pagina 99, Francesco Guglieri individuava il problema del rapporto tra élite e “ordinary people” nel fatto che si è “rotta la cinghia di trasmissione tra la nicchia e la produzione di massa di più ampio respiro”: in sostanza, le élite non riescono più a comunicare con “il basso”. Ma questo, più che il risultato di filter bubble e camere d’eco, è precisamente l’effetto che si ottiene quando si pretende di applicare al mondo lì fuori i princìpi ordinanti sui quali si è costruita un’identità che altrove ha prodotto null’altro che solitudine e disperazione – e senza nemmeno la rete di protezione della serie TV di turno!

Vero è, come ricorda ancora Guglieri, che negli ultimi anni l’élite culturale si è enormemente allargata nei numeri oltre che nella composizione interna. È insomma diventata una specie di élite di massa, e qui risiede un altro paradosso utile a spiegare lo spaesamento che ha prodotto lo scatto d’orgoglio da cui siamo partiti: l’élite di cui stiamo parlando, non è… elitaria. È al contrario – almeno stando all’autorappresentazione da cui essa stessa prende le mosse – inclusiva, alla mano, e dai gusti tutto tranne che snob. E allora, perché tanto odio?

La cultura di riferimento delle nuove élite, altro non è che la cara, vecchia, a suo tempo vituperata cultura pop. Solo che è un pop depoppizzato, gentrificato, depurato da qualsivoglia scoria popolare.

Ecco, proprio l’accenno di Guglieri alla “produzione di massa di più ampio respiro” è interessante. Di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di “élite culturale”? Di dotti epsitemologi che discettano di falsificazionismo e conoscenza sensibile? Di dantisti che intavolano accesissimi dibattiti sull’allegoresi del IV canto del Paradiso? Forse. Anche. Perché no. Ma se analizziamo ancora una volta i consumi culturali attorno a cui si è andata definendo l’identità della classe creativa, troviamo tuttalpiù rapper milionari che finiscono puntualmente in heavy rotation, telefilm prodotti da network quotati in borsa, supereroi Marvel debitamente psicologizzati e smaliziati comici candidati agli Emmy Awards. In una parola: la cultura di riferimento delle nuove élite, altro non è che la cara, vecchia, a suo tempo vituperata cultura pop. Solo che è un pop depoppizzato, gentrificato, depurato da qualsivoglia scoria popolare.

Questo “pop per le élite” che emerge dalle narrazioni e dalle analisi della classe creativa, e che a conti fatti ne costituisce l’immaginario di riferimento (il “terreno comune” attorno al quale radunarsi in una vaga logica, appunto, di classe) è sintomatico sia dell’implicito disprezzo che i famigerati creativi provano per qualsiasi espressione troppo scopertamente “di massa”, sia della logica parassita con cui l’inclusiva e democraticissima nuova élite si relaziona a fenomeni di cui viene negata tutta la complessità, e che vengono accettati nel proprio pantheon culturale solo nel momento in cui si può ometterne il lato problematico e conflittuale. È d’altronde lo stesso atteggiamento che l’élite liberal adotta quando c’è da rivendicare i diritti e le conquiste sociali che pure tanto le starebbero a cuore: valori di per sé condivisibilissimi come il multiculturalismo, l’antisessismo e il sentimento di appartenenza a una comunità che non si cura più di distinzioni di genere, razza o nazionalità, vengono disgiunti dagli elementi di rottura che a questi valori si sono accompagnati, e che in buona misura li hanno prodotti.

Ovviamente, ascrivendo codici e linguaggi nati “altrove” a un immaginario sganciato non solo dai luoghi quanto dalle dinamiche di provenienza, il risultato è una lettura che priva “il basso” di qualsiasi potere immaginifico. Ne è un esempio la lettura rigorosamente top-down che dei processi culturali viene fornita dalla pubblicistica hip, per la quale è fondamentalmente impossibile che quelle che una volta avremmo chiamato classi subalterne siano capaci di linguaggi propri ed elaborazioni di sorta: piuttosto, è solo quando i germi dell’incolta e cafonissima cultura popolare vengono cooptati dall’alto e ricondotti al (perdonatemi) “gusto borghese”, che questi linguaggi acquistano legittimità. Prima, semplicemente, non esistono.

L’atteggiamento delle nuove élite culturali nei confronti della cultura bassa che pure ne rappresenta il principale serbatoio di linguaggi condivisi, è insomma qualcosa di più che una semplice spia: se nei rapporti con l’élite economica (l’alto), la classe creativa tradisce una sottaciuta aspirazione a condividerne le posizioni e di conseguenza la visione del mondo (nella speranza, chissà, che prima o poi le verrà restituito quell’agio andato perduto proprio a vantaggio delle oligarchie di cui hanno introiettato il, ehm, modus pensandi: quando uno dice introiettare le posizioni del nemico…), nei rapporti con le espressioni pop(olari) questa stessa l’élite opera in un regime di appropriazione che è, stavolta sì, sinceramente elitario. È insomma (anche) qui che emerge quella distanza mista a supponenza che le nuove élite riversano nei confronti di chiunque non abbia gli strumenti per adeguarsi ai gusti e ai consumi di un preciso segmento sociale. Poi d’accordo, la vittoria sul piano politico del nemico giurato della classe creativa – il populismo caciarone che si esprime in font Impact e in un’inconsulta sfilza di punti esclamativi misti a 1 – ha chiaramente esacerbato le posizioni: dalla semplice distanza, si è passati a un più sonoro ANDATE A FARE IN CULO. Ma ehi, è un “vaffanculo” dettato dall’orgoglio, intendiamoci.

Certo, pure questo orgoglio, più passano le settimane più sembra farsi… audace, diciamo. Prendete questo articolo apparso sul New Republic in cui Kevin Baker propone una Bluexit che separi gli stati liberal che hanno votato Clinton, dai buzzurri che hanno scelto Trump. Opzioni del genere sono senz’altro paradossali e provocatorie (almeno per ora), ma è indicativo notare come solo pochi anni fa sarebbero sembrate irricevibili a qualsiasi sincero democratico che crede nei valori della convivenza.

Che poi, un po’ mi viene pure da capirlo: neanche a me piace avere un vicino di casa razzista che quando i condomini bengalesi del piano di sopra cucinano, si affaccia al balcone e urla “aho mica stàmo ner Gange”  (true story). Ma la logica di Baker è la stessa che porta tizi come Peter Thiel ed Elon Musk a immaginare isole galleggianti per miliardari separate dal resto della società. Più passa il tempo, più le sedicenti aspirazioni progressiste dell’élite liberal tradiscono un’assonanza sospetta con i peggiori piani “iperrazzisti” delle oligarchie economiche, tecnologiche e finanziarie. La cosa non stupisce se si pensa a quanto l’aynrandiana Silicon Valley, con la sua retorica permeata di progresso, disruption e meritocrazia hip-friendly, affascini da sempre la classe creativa di ogni genere e grado. Il problema però, è che è da quello stesso brodo di coltura che proviene anche il pensiero neoreazionario che ha fatto da apripista alla alt right e, in ultima analisi, allo stesso Trump. E allora emerge il sospetto: se l’orgoglio esibito con tanta risolutezza dalla nuova élite progressista e intellettuale, altro non fosse che un fenomeno speculare allo stesso populismo da questa così apertamente detestato?

A leggere articoli come quello di Baker, più che un sospetto è una certezza: nel tono, nel linguaggio, nelle motivazioni, la sua Bluexit non è granché distante dai più coloriti deliri della destra separatista. In Italia, un esempio rimasto celebre (si fa per dire) è quello dell’invettiva contro gli elettori del No al referendum dello scorso 4 dicembre lanciata da Anna Zafesova sulle pagine di IL. Era anche quello un articolo mosso dall’orgoglio, e segnatamente dall’orgoglio di chi, anziché “fare il figo in provincia”, ha coraggiosamente deciso di “competere nella metropoli” (ebbene sì). Anche in questo caso, l’articolo della Zafesova ha suscitato polemiche e prese di distanza; ma bastava farsi un giro sui social network per capire come, al di là della violenza del linguaggio, raccogliesse in realtà un sentimento abbastanza diffuso tra quei progressisti che il 4 dicembre avevano votato Sì.

Bizzarramente, che l’orgoglio élite altro non sia che una forma di populismo “dall’alto”, se n’è accorto a suo modo persino un organo ufficiale dell’élite “vera” come il Financial Times. In un articolo intitolato Why populists are gluttons for punishment, Simon Kruper notava ironicamente come “per la gioia dei liberal americani, esiste adesso una versione tutta loro di rabbia populista. Hanno infatti finalmente trovato qualcuno che vogliono punire: Trump”. D’accordo, non c’è nulla di sbagliato nel voler “punire” Trump, e l’idea che tutto si possa risolvere dinanzi a un tavolo da tè mentre la cameriera sparecchia i vassoi, la trovo dubbia oltre che noiosa. Ma è vero comunque che, ciascuno alla sua maniera, tanto il populismo di destra quanto l’orgogliosa élite progressista figlia della classe creativa condividono in fondo un obiettivo comune: semplificando la realtà, appiattendo le complessità dell’esistente, concentrando le proprie requisitorie su obiettivi minimi per quanto facilmente identificabili, nessuno dei due fenomeni si spinge a mettere in discussione i rapporti di forza e i meccanismi alla base dello status quo. E io non so voi, ma spero di sbarazzarmi il più presto possibile sia degli uni che degli altri.

Valerio Mattioli
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.

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