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Cosa hanno in comune narrativa horror, nichilismo e filosofia realista? Proviamo a svelare la “cospirazione contro l'umanità” attraverso le opere di Thomas Ligotti, Ray Brassier ed Eugene Thacker.

“There is nothing to do and there is nowhere to go/There is nothing to be and there is no-one to know”: in queste due righe dello scrittore horror Thomas Ligotti, avrete probabilmente sentito echeggiare l’ispettore Cohle che in True Detective pronuncia l’assai simile “There is no point: nowhere to go, no one to see, nothing to do, nothing to be”. Ed effettivamente Nic Pizzolatto, creatore della fortunata serie TV, ha a più riprese confessato di aver messo in bocca al cinico e disilluso Rust molteplici citazioni provenienti da The Conspirancy Against the Human Race, il primo saggio (è uscito nel 2010) dell’autore di Teatro Grottesco, la raccolta di racconti recentemente tradotta in italiano da il Saggiatore.

Ben prima di True Detective, recensendo una delle prime raccolte di Ligotti (Grimscribe: His Lives and Works, 1991), il New York Times commentò: “Se esistesse un genere letterario chiamato ‘horror filosofico’, Thomas Ligotti vi apparterrebbe di diritto”. Da allora è passato molto tempo: anche grazie allo “sdoganamento” di Pizzolatto, l’horror filosofico un genere lo è diventato per davvero, e i libri di Ligotti – originariamente pubblicati in pochi esemplari per editori perlopiù underground – sono infine stati ristampati da un colosso di prestigio come Penguin Classics.

Ma questo non è tutto. L’horror filosofico in effetti non è solo un genere letterario di cui Ligotti è iniziatore e True Detective appendice per le masse. A firmare la prefazione di The Conspiracy Against the Human Race è dopotutto Ray Brassier, uno dei principali filosofi realisti contemporanei, già ascritto a suo tempo a quella corrente che ha preso il nome di realismo speculativo.

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I'd consider myself a realist, but in philosophical terms I'm what's called a pessimist.

Vale la pena ricordare che in The Conspiracy Against the Human Race, Ligotti delinea delle personali (e lucidissime) analisi sulla condizione umana, che lo portano ad affermare che la miglior cosa che la nostra specie possa fare è smettere di riprodursi per causare la propria estinzione. A sua volta, Ray Brassier è l’autore del citatissimo Nihil Unbound, un saggio del 2007 il cui sottotitolo è nientemeno che Enlightment and Extinction. Dietro il pensiero popolarizzato da Rust Cohle, c’è quindi non tanto un genere letterario ma una filosofia intera, a metà strada tra narrativa horror e pensiero pessimista o nichilista – due filoni autonomi e apparentemente slegati, le cui strade si sono recentemente incrociate. Vediamo come.

Cominciamo con l’horror, quel genere in cui la vita dei personaggi è messa a repentaglio da entità soprannaturali (dai vampiri ai fantasmi, dagli zombie a non meglio precisati “esseri aberranti”) la cui esistenza contraddice le leggi della natura, o per meglio dire le leggi che assicurano limiti insuperabili tra i vivi e i morti, tra l’umano e il non-umano, tra il possibile e l’impossibile. In altre parole, nelle storie dell’orrore ciò che spaventa è l’innaturale: un potere sconosciuto che mette a rischio l’ordine universale, ovvero la condizione di possibilità della nostra esistenza.

Esempi di “filosofia dell’orrore” li troviamo però anche nelle descrizioni del sentimento del sublime, dove il soggetto sperimenta – non senza un certo piacere – la manifestazione di una potenza soprannaturale che mette a rischio la sua esistenza mentre solletica il suo ego: il che spiegherebbe per quale motivo ci piacciono gli horror. Ma troviamo un certo gusto filosofico per l’orrore anche in alcune forme di nichilismo o di filosofia pessimista, quando il soggetto si confronta col sentimento di angoscia che nasce nel momento in cui dubita della verità delle narrazioni metafisiche che forniscono un senso all’esistenza.

La guerra contro l’irrazionale ci ha lasciato in un mondo ancor più terrificante: una realtà senza anima, senza ragione, senza vita, senza finalità e, in definitiva, senza senso.

La filosofia dell’orrore sarebbe pertanto un effetto collaterale del progetto illuminista: svelata l’irrazionalità delle credenze soprannaturali, la ragione ci ha liberato dal timore di Dio o di altre potenze misteriose; spiegato il funzionamento del meccanismo naturale, la scienza ha identificato i limiti del possibile, assicurandoci contro l’insorgere dell’impossibile.

Tuttavia, questa guerra contro l’irrazionale ci ha lasciato in un mondo ancor più terrificante di quello dove forze magiche potevano ancora manifestarsi: una realtà senza anima, senza ragione, senza vita, senza finalità e, in definitiva, senza senso. Da una parte quindi, c’è l’orrore di una vita sorretta da superstizioni e false credenze; dall’altra, l’orrore di una vita sorretta dal puro calcolo delle cause e degli effetti. Orrore che pensatori come Schopenhauer e Nietzsche hanno saputo cogliere per convincersi che, dopo tutto, una soluzione era ancora possibile: vuoi come ascesi compassionevole, vuoi come creazione finalizzata all’affermazione di una potenza vitale originaria, al di là del bene e del male.

Potremmo quindi dire che le semplici “narrativa dell’orrore” e “filosofia dell’orrore” non permettono di fare esperienza del terrore nella sua forma più radicale: quella cioè che si manifesta una volta eliminato qualunque antidoto contro il dolore che si accompagna all’insensatezza del mondo. Nei racconti dell’horror classico, infatti, la lotta contro le forze misteriose del male fornisce un senso agli sforzi dei personaggi la cui vita, strenuamente difesa, assume un valore positivo. Nella filosofia dell’orrore, invece, perduto il proprio fondamento universale, il senso dell’esistenza viene recuperato nell’ambito di un’iniziativa individuale che consiste, per esempio, in un saggio sottrarsi all’assurdità del processo storico, o in una creativa operazione di sovvertimento dello stesso, nella convinzione che nuovo sia comunque meglio, anche se non necessariamente bene.

Ora: si dà il caso che l’horror filosofico di Thomas Ligotti sia il terrificante effetto della radicalizzazione più estrema dei due filoni menzionati, che hanno finito per incontrarsi e per partorire un ibrido più spaventoso di quanto non fossero spaventosi i suoi genitori. Nei racconti di Ligotti, ai topoi dell’horror classico si sostituisce un’atmosfera rarefatta e inquieta, in cui nulla è umanamente afferrabile e i personaggi sembrano muoversi in una dimensione impalpabile e al tempo stesso fin troppo concreta, irrimediabilmente satura di nichilismo. Naturale, innaturale o soprannaturale, sono definizioni che a questo punto significano poco: perché il terrore di Ligotti è un terrore realista, esattamente come la filosofia del già citato Ray Brassier. Può sembrare un controsenso: come può un genere per definizione “fantastico” come l’horror, ambire a qualsivoglia “realismo”?

La copertina di In the Dust of This Planet, Zero Books, 2011.

Una prima spiegazione ce la dà Eugene Thacker in In the Dust of this Planet, un libro del 2011 diventato bizzarramente celebre perché la sua copertina è finita in un video sulla giacca da motociclista di Jay Z. Nell’introduzione al libro, Thacker spiega: “Il mondo è sempre più impensabile [unthinkable]: un mondo di disastri planetari, nuove pandemie, smottamenti tettonici, clima strano, paesaggi marini ricoperti di petrolio, e la minaccia – furtiva ma sempre  incombente – dell’estinzione”.

I cambiamenti climatici, i disastri naturali, le crisi energetiche e la scomparsa di intere specie animali, secondo Thacker hanno fatto sì che “siamo sempre più consapevoli che il mondo in cui viviamo è non-umano”: un pianeta cioè in cui la nostra presenza è puramente accidentale. “Confrontarsi con questa idea”, spiega il filosofo americano, “significa confrontarsi con l’assoluto limite della nostra capacità di capire il mondo in maniera adeguata: un’idea che, per molto tempo, è stato uno dei temi centrali del genere horror”.

Torniamo quindi a Ray Brassier e al suo Nihil Unboud, il cui sottotitolo, Enlightenment and Extinction, ci fa già un po’ tremare. Secondo Brassier, il compito fondamentale della filosofia è quello di essere assolutamente razionale, ovvero così coraggiosa da assumere la verità paradossale che il nichilismo aveva intravisto nel progetto illuminista. L’assoluta e paradossale verità in questione è la seguente: “Gli interessi della ragione non coincidono con quelli del vivente; di conseguenza questi possono essere e sono stati usati contro quelli di quest’ultimo”.

Gli umani devono rassegnarsi all’evidenza che la loro esistenza non ha alcun valore e alcuno scopo che possa essere fondato diversamente che su una forma pietosa di orgoglio.

Detto in parole povere, la conoscenza razionale della realtà, attuata dalla scienza, ci ha rivelato che la natura è un meccanismo regolato da semplici leggi che non hanno nessuna finalità; gli umani devono quindi rassegnarsi all’evidenza che la loro esistenza non ha alcun valore e alcuno scopo che possa essere fondato diversamente che su una forma pietosa di orgoglio. La ragione ci ha chiaramente indicato che la vita, il pensiero e le produzioni effimere del nostro agire, non possono essere inscritti in un processo universale di cui rappresenterebbero il compimento; né tantomeno possono essere considerati come una serie di atti capaci di prolungare il volere di una “potenza creatrice” di cui non abbiamo bisogno per spiegare il movimento degli astri, l’interazione tra le particelle subatomiche e quello che ci ostiniamo a chiamare “il miracolo della vita”.

Per Brassier, la sola condizione che permette alla ragione di esercitare la sua funzione conoscitiva è la consapevolezza della natura accidentale della specie umana: il reale non ha bisogno dell’uomo e il pensiero nemmeno; quest’ultimo si troverebbe al contrario limitato nel suo esercizio dal bisogno troppo umano di fornire “un senso all’esistenza”.

Possiamo allora immaginare Thomas Ligotti che nel 2007 legge Nihil Unbound e pensa annuendo: “Questo sì che fa paura. Forse è meglio che mi dia anch’io alla filosofia”. Già da prima di mettersi su The Conspiracy Againts the Human Race, Ligotti era un esperto del pensiero pessimista del filosofo norvegese Peter W. Zapffe, e per anni aveva popolato i suoi racconti di personaggi che lottano contro un male che abita in primo luogo le loro menti. Deve quindi aver trovato illuminante la maniera in cui Brassier ha spietatamente spogliato la vita di qualunque diritto, il tutto in nome della ragione.

2010 Bram Stoker Award Nominee.

Ad ogni modo, per giustificare la prefazione di Ray Brassier a The Conspirancy Against the Human Race, dobbiamo anche immaginare che il filosofo abbia trovato nel saggio di Ligotti un’opera di non-fiction degna d’attenzione nella migliore tradizione accademica. Se Eugene Thacker, per delineare quella che lui chiama “the philosophy of horror”, analizza dischi black metal e racconti satanici, per Brassier l’horror filosofico di Ligotti sembra essere lo strumento che, in maniera assolutamente lucida e con giustificazioni ragionevoli, provoca un senso di angoscia senza nemmeno bisogno di personaggi o trama.

Ci convince cioè che la razza umana è un’aberrazione che va cancellata, un errore che non avrebbe dovuto prodursi perché un animale dotato di autocoscienza, in un mondo privo di senso e di scopo, non può che soffrire senza alcuna possibilità di redenzione: l’unica soluzione spaventosamente assennata risulta allora quella di indurre l’estinzione della specie. Soluzione suggerita anche dal detective il cui furbo creatore ha ben capito che ciò che l’uomo deve temere di più è il proprio pensiero, e che se il sonno della ragione genera mostri, lo stato di veglia prolungato spinge invece a desiderare l’ancor più terrificante eterno riposo.

E questo senza nulla togliere né all’opera di Ligotti, né a quella di Brassier, che ci forzano a pensare la reciproca implicazione della vita e della ragione in un momento in cui gli interessi dell’una sembrano davvero non coincidere più con quelli dell’altra.

Anna Longo
Anna Longo è dottore di ricerca in Filosofia Estetica all'Université Paris 1 - Panthéon Sorbonne e SUM. Si occupa del rapporto tra conoscenza estetica e conoscenza scientifica.

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