A dieci anni dal capitolo precedente, la serie di RPG Atlus si chiude con quello che è più di un semplice gioco: è il ritorno nei videogiochi dell’estetica, della sensibilità e della cultura giapponese contemporanea.
Persona 5 è stato definito all’unanimità un capolavoro: un gioco che sfrutta al meglio le qualità tradizionali dei JRPG, ma che al contempo compete tranquillamente con titoli tecnicamente ben più moderni. Difficile dissentire. Eppure, al netto della concordanza sui giudizi strettamente ludici, sento che al discorso manca qualcosa. Qualcosa che si presenta sotto forma di adolescenti che si sparano in testa, minestroni mitologico-religiosi e colori accesissimi; qualcosa che merita di essere sviscerato per comprendere davvero i motivi che rendono questo gioco effettivamente straordinario e unico. E per farlo il miglior punto di partenza è la città più bella del mondo per un fanatico di videogiochi e nerderie: Tokyo.
Una volta arrivati nella capitale del Giappone, il primo shock culturale si concretizza nell’inevitabile battaglia con i suoi trasporti pubblici. Non importa da che città dello stivale proveniate: nulla è paragonabile al labirinto di linee colorate della metropolitana della capitale nipponica, e sventolare con orgoglio il proprio Japan Rail Pass serve a poco quando si è dispersi in cunicoli immensi zeppi di colletti bianchi. Perfino chi ha molta esperienza alle spalle necessita sempre di un iniziale ricondizionamento mentale per orientarsi, perlomeno fino a quando non scopre la rassicurante forma circolare della Yamanote Line e, con essa, una specie di prima bussola per esplorare la città.
Nel complesso, orientarsi a Tokyo è un’esperienza che è impossibile non collegare alle quest più pedestri dei giochi di ruolo: “trova la mappa per fare shopping ad Akihabara”, “ferma un passante con sufficienti competenze linguistiche per indicarti il Gundam Café”, e così via. L’unica cosa che le manca per essere un JRPG a tutti gli effetti sono tonnellate di statistiche con cui misurare il proprio progresso, un combat system a turni e una storyline ingarbugliata.
Negli anni mi sono recato spesso in Giappone, e a ogni visita mi sono sempre più convinto che le complessità della sua vita quotidiana e dei suoi costumi si ritrovino in tutta la produzione ludica locale. Ciò detto, secondo me esiste però solo una serie che possa dirsi genuinamente giapponese: Persona. Non solo per la presenza di specifiche tematiche o l’adozione dell’estetica manga, bensì soprattutto per la profondità formale e la ricercatezza espressiva con cui il gioco presenta la cultura che lo ha generato; in tal senso, l’intera saga di Atlus (nata come costola degli Shin Megami Tensei, ma che ormai ha superato la saga madre per vendite e popolarità) è la miglior guida al Giappone sotto forma di videogame mai concepita. E l’eccezionale Persona 5 non fa che confermare questo giudizio.
Rating M?
I Persona affondano le loro origini in Shin Megami Tensei If…, un titolo del 1994 per Super Famicom stilisticamente affine ai classici dungeon crawler, in cui un liceale si trova alle prese con un’invasione demoniaca nella sua scuola. A decretarne il successo in patria non furono però tanto le meccaniche – invero non così distanti da quanto visto negli Shin Megami fino a quel momento – quanto l’ambientazione, inedita per allora, quella scuola superiore Karukozaka che catturò fin da subito l’immaginario dei giapponesi. Considerata la positività del responso, Atlus fece un paio di calcoli e due anni dopo pubblicò Megami Ibunroku Persona con l’evidente intento di dar vita a una vera e propria saga con ambientazione “high school” indirizzata a un pubblico di giovani amanti dei JRPG.
Ecco: prima di passare a qualsiasi altra analisi, è il caso di sottolineare un punto fondamentale che, purtroppo, sfugge a chiunque non sia infoiato per tutto ciò che il Giappone ci dona: Persona non è un gioco per adulti. Non in patria, almeno.
Con ciò non intendo dire che le meccaniche della serie siano concepite per essere un passatempo da bambini (non lo sono affatto e, anzi, richiedono impegno), bensì che la vulgata secondo cui la narrativa di questi giochi sarebbe “matura” – come indicato sulle confezioni destinate ai mercati occidentali – è profondamente sbagliata. Certo, la serie di Atlus tocca effettivamente tematiche forti come il bullismo e gli abusi sessuali e, del resto, non mancano sangue, violenza e antagonisti di rara cattiveria… Senonché si tratta di roba reperibile da sempre nei manga shōnen, ovvero quei fumetti indirizzati specificamente a un pubblico giovane: per una controprova basta dare una sfogliata a qualche volume di Full Metal Alchemist, Great Teacher Onizuka o un’infinità di altre serie, spesso reperibili anche in inglese o italiano. Insomma: se a noi occidentali temi simili appaiono “maturi” è solo perché quando si tratta di parlare alle nuove generazioni siamo tradizionalmente più conservatori e pudici rispetto al popolo nipponico. Non stupisce quindi che lo stesso direttore della saga, Katsura Hashino, abbia ripetuto in più occasioni (segnalo in particolare questa interessantissima videointervista) di cercare proprio nei manga l’ispirazione per i Persona, confessando di passare ore a leggere fumetti nel suo ristorante preferito per assorbirne le idee più interessanti e capire quale direzione seguire dal punto di vista narrativo.
Chiarito l’equivoco, si può dunque affermare che Persona è uno shōnen sotto forma di videogame e come tale va considerato, con tutti i lati positivi e negativi del caso. Sotto il profilo narrativo abbiamo infatti da un lato un ritmo eccellente, costellato da momenti cool da eroe fumettistico che ringalluzziscono non poco il giocatore; dall’altro, però, questa “shonenizzazione” ha un costo sul versante dell’approfondimento, in quanto l’avere un target giovane impedisce di sfruttare appieno le enormi potenzialità del background narrativo e degli eventi (non a caso, i più critici ritengono che il miglior capitolo della saga sia il secondo, in quanto la seconda metà del gioco si distacca dall’ambientazione liceale e riprende i protagonisti in età adulta).
Comunque la si voglia pensare, è però un fatto innegabile che i Persona navighino nel mondo della narrativa “giovane” con grande eleganza; in particolare l’ultimo capitolo vanta personaggi ben caratterizzati e, soprattutto, capaci di emanciparsi dagli archetipi del genere a cui qualunque amante di manga e anime si è ormai rassegnato (tsundere, kuudere, yandere e via banalizzando). Inoltre, questo attaccamento alle pagine dei manga, unito all’ambientazione semi-realistica ed estremamente vicina alla Tokyo reale (mostruosità mitologiche permettendo), ha anche il pregio di rendere la serie esteticamente unica nell’affollato panorama dei JRPG e, onestamente, nel mondo dei videogiochi tout court: merito della direzione artistica, curata a quattro mani da Shigenori Soejima e Masayoshi Suto, ma soprattutto di una cultura aziendale che ha permesso a talenti simili di esistere e crescere mentre altrove – ciao Square Enix! – si preferiva tirare in barca i remi della creatività.
Atlus mon amour
Quando si parla di Atlus bisogna chinare la testa. Nella imprevedibile industria videoludica giapponese è una delle poche software house ad aver portato avanti con coerenza la propria visione perfino mentre la società madre stava andando gambe all’aria. Questa unità d’intenti non dipende tuttavia solo dall’esperienza accumulata nel tempo, ma anche dal particolarissimo equilibrio che si è creato tra i suoi membri di spicco.
Il game director e produttore Katsura Hashino, per esempio, è un individuo piuttosto quieto, privo dell’ego esplosivo di un Hideo Kojima o del carisma di un Suda51, ma non per questo privo di determinazione (sempre nel mezzo della crisi finanziaria del 2013, sottolineò la necessità di “fare un bel gioco” anche in tempi duri). Anche senza gli eccessi dei personaggi sopracitati riesce quindi a imprimere il proprio marchio su ogni titolo di cui si occupa; il suo controllo sulle produzioni è totale e al contempo rispettoso del prossimo, come dimostra la sinergia creativa con gli altri membri del team, tra cui i direttori artistici Shigenori Soejima e Masayoshi Suto.
Al primo si deve molto dell’amore per Tokyo espresso nei Persona e, soprattutto, la capacità di trasmetterlo anche agli stranieri. Nato nella prefettura di Kanagawa, si stabilì nella capitale giapponese solo in tarda età, dopo numerosi trasferimenti a seguito del padre e un’adolescenza passata all’insegna dello spaesamento personale. Lì riuscì finalmente a mettere radici, e da queste esperienze nacque l’affetto per la città che traspare con così tanta evidenza nei suoi lavori. Nelle prime fasi di Persona 5, infatti, il giocatore rivive lo smarrimento iniziale dell’artista tramite a una missione il cui scopo consiste semplicemente nel trovare la Ginza Line e raggiungere la nuova scuola del protagonista: è una scena quasi impensabile in qualunque altro gioco, e di primo acchito sembra un omaggio inutile ai fini dell’avventura. Al contrario, serve a evidenziare il legame tra il gioco e la città reale, nonché a rafforzare quello tra la Tokyo fittizia e il giocatore, che, guidato dalla mano di Soejima, imparerà a riconoscere e apprezzare i dettagli del mondo esattamente come fece l’autore anni prima.
Meno emotivo è invece l’apporto del collega Masayoshi Suto, se non altro perché è un individuo schivo che raramente ha rilasciato dichiarazioni. Malgrado ciò, la sua incredibile visione artistica rappresenta ormai da anni il contorno perfetto all’estro di Soejima e Hashino: il suo approccio all’arte grafica – dalla scelta dei font al design delle icone, passando naturalmente per le scelte cromatiche – mescola un’estetica manga classica a forme e colori perfettamente adeguati al motif del gioco. È evidente che le idee di Suto sono molto vicine a quelle di Soejima (quest’ultimo voleva fare il mangaka, ma si è reso conto di apprezzare molto di più il lavoro di concept artist), e del resto gli elementi visivi degli ultimi Persona si sposano talmente bene da sembrare opera di un’unica mano.
Nel complesso, quindi, il trio Hashino-Soejima-Suto condivide una forte volontà di legare personaggi e situazioni al Giappone reale, ama i manga e la loro estetica, e non piega la testa in base alle volontà del mercato. Un’idra a tre teste di questo tipo può solo migliorarsi di anno in anno. La perfezione della loro unione è sottolineata con ancor più forza dai “colori tematici” che contraddistinguono i titoli della serie a cui hanno lavorato: blu per Persona 3, giallo per Persona 4, rosso per Persona 5 e viola per lo spin-off Persona Q. Formalmente, l’uso di un colore primario – come ha spiegato Soejima in varie interviste – è correlato ai temi del gioco e alle emozioni che il team desidera trasmettere al giocatore, ma personalmente l’ho sempre visto come una firma, una sorta di marchio di fabbrica del gruppo atto a indicare che un particolare gioco è una loro creatura. D’altronde, il codice cromatico, seppur presente anche nel primo e nel secondo capitolo della serie, è divenuto davvero marcato ed evidente solo a partire da Persona 3, guardacaso il primo in cui ha ha lavorato Soejima e in cui Hashino ha svolto le mansioni di game director.
Ma per quanto abili siano le figure appena descritte, non sono ovviamente le uniche a gestire i processi produttivi di un titolo poliedrico come Persona 5. Atlus tutta è infatti ricca di programmatori e designer talentuosi, e sebbene l’industria nipponica funzioni in modi abbastanza particolari, la competenza dell’intera squadra traspare da numerosi elementi. Esteticamente, per esempio, un’ambientazione così vicina alla Tokyo reale non offre grandi chance creative: la città è certamente ricca di quartieri unici e innumerevoli stimoli visivi, ma se si parla di videogame proprio questa ricchezza rappresenta una limitazione alla fantasia degli autori. Persona 5 aggira perciò il problema con furbizia, trasformando i palazzi nei dungeon del gioco e reinterpretandone l’estetica secondo la visione distorta della città nipponica vista dagli occhi degli antagonisti. Costruendo le fasi giocate nelle menti dei cattivi, e piegando quindi gli ambienti alla loro personalità anziché al realismo, designer e artisti sono riusciti a mettere in campo ambientazioni di una suggestività e un’immaginazione spaventose, gestendone inoltre gli spazi in modo tale da massimizzare il divertimento del giocatore (i dungeon procedurali del passato erano stati criticati per la loro scarsa raffinatezza, Atlus ha dunque preso le dovute contromisure).
Il modo in cui tutte le possibilità offerte dall’ambientazione e dal background sono state sfruttate al meglio mi ha lasciato davvero senza parole. Soprattutto perché una cosa è ammirare un palazzo magnifico edificato con i mezzi più potenti in circolazione; un’altra è ammirare lo stesso edificio ma constatare che chi l’ha costruito ha usato solo vanghe e martelli. Fuor di metafora, infatti, va detto che sul piano tecnico Persona 5 è estremamente limitato (tant’è vero che è uscita una versione anche per PlayStation 3), ma ha una struttura talmente brillante e aggira i suoi confini con tale grazia da non farlo minimamente pesare. Un risultato ottenibile solo grazie a una progettazione certosina – roba da migliaia di post-it attaccati alle lavagne e da cervelli fumanti che lavorano alla soluzione dei problemi – il cui risultato è un gioco costruito attorno a un preciso calendario di eventi, che sviluppa la sua avventura con un misto di dungeon complessi, battaglie a turni, e attività giornaliere a tratti in grado di avvicinarlo alle visual novel nipponiche (o anche ai gal game, visto che è possibile far partire relazioni con un bel po’ di donne nel gioco, tra cui anche compagne sensibilmente più mature del protagonista).
Rinascimento
Persona 5 rappresenta dunque lo zenit di un genere: non tanto per l’evoluzione che vi apporta – pressoché nulla dal punto di vista delle meccaniche e concentrata più sullo stile visivo e sul level design – quanto per la sua capacità di sfruttare in modo eccellente tutta la sua giapponesità. È un po’ JRPG classico e un po’ visual novel; mescola con leggerezza tutta nipponica teorie e simboli junghiani (le “ombre” della serie che ricalcano il concetto di inconscio in cui sono racchiusi i lati inconfessabili della persona, le maschere, il titolo stesso) a ogni genere di figura storica e mitologica (si va da Zorro a Lucifero, not kidding); sfruttando la sua vicinanza ai manga shōnen e la sua ambientazione liceale si propone come il limite massimo dei giochi di ruolo per ragazzi nati nella terra dei samurai.
In fondo, questo era da sempre l’intento della serie. Non sorprende perciò che oggi, avendo raggiunto il risultato, Hashino e i suoi abbiano deciso di buttarsi su Project RE:Fantasy, un gioco in cui potranno dare totalmente sfogo alla loro immaginazione, un po’ come avevano fatto in modo diverso con l’ottimo Catherine (quello sì adulto, a livello di tematiche).
Impossibile del resto accusarli di arroganza: Persona 5 è esattamente il traguardo che dovevano raggiungere, e ormai è stato influenzato dall’esterno almeno quanto a sua volta ha influenzato altri prodotti e sviluppatori. La serie è diventata il ragazzino figo del circondario, il forziere che racchiude l’essenza del cool Japan: sfrutta ogni costrutto creato e ammirato dai giapponesi negli anni – dai personaggi esteticamente stereotipati alle waifu da conquistare – mantenendosi però a distanza dal sottile confine che separa la rispettabilità formale di quell’immaginario dall’imbarazzo dovuto alle sue manifestazioni più becere. In Persona 5 convergono stili, tropi e linguaggi che si ritrovano tanto nei pionieristici manga di Osamu Tezuka quanto in Neon Genesis Evangelion; opere da cui traspaiono con evidenza le proprie origini culturali, ma che, a differenza del tanto ciarpame prodotto nel corso dell’ultimo decennio, hanno saputo abbattere le barriere culturali con l’occidente grazie all’universalità dei temi proposti. Ecco: P5, oltre a essere il lavoro migliore di Atlus – l’ultima tappa dell’evoluzione di una serie che ha indiscutibilmente raggiunto il suo apice – è soprattutto una delle migliori espressioni culturali prodotte dal Giappone del nuovo millennio.
Il cerchio si è chiuso, insomma, e dopo un’ottantina di ore di gioco resta solo la curiosità di vedere cosa saranno in grado di combinare i suoi creatori, ora che devono costruirne uno nuovo da zero.
Ex caporedattore di Spaziogames, ora scrive di videogiochi per Multiplayer, di fumetti per GQ e di barbe per se stesso.