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Dopo i fasti della scorsa estate, oggi arriva il primo grande update di Pokémon GO, che promette di riportare in strada milioni di utenti che ormai hanno cambiato le proprie abitudini, spesso senza accorgersene.

Primi di settembre. Sono in strada, di ritorno dal lavoro. L’estate sta finendo (un anno se ne va) e Bologna si sta preparando a tornare a vestire i panni di una qualsiasi città italiana in inverno, con i suoi ingorghi, i mezzi pubblici pieni e i passanti intabarrati. Ecco, così. Mentre esco dall’Iper squilla il cellulare e sento partire le prime note di More Dance Music di Kid Koala: visto che probabilmente si tratterà di una di quelle finte bazze a cui non puoi dire di no, meglio partire con una buona disposizione.

“Pronto”

È la redazione giornalistica di un canale nazionale. Sono invitato a partecipare a uno speciale su Pokémon GO in qualità di esperto, una qualifica che mi lusinga e che nasce dal fatto che è un po’ che parlo in pubblico e scrivo di applicazioni ludiche geolocalizzate, di giochi pervasivi, di cultura ludica. “The more you dance, the more you romance!”, come dice Kid Koala. Ma ogni entusiasmo iniziale viene abbattuto dalla richiesta che segue l’invito: sottolineare i rischi legati all’utilizzo di applicazioni come queste e in generale del videogioco, strumento controverso e potenzialmente nocivo.

“Prego?”

A quanto pare serve qualcuno che sostenga una posizione del genere per creare una qualche forma di contraddittorio. Prima di chiamare me hanno contattato – tra gli altri – l’Arcivescovo di Noto, che avrebbe avuto il “pregio mediatico” di aver lanciato strali deliranti contro il titolo Nintendo/Niantic, salvo rendersi conto che il prelato non ha la stessa attendibilità degli studiosi di media. E così la redazione sta facendo il giro delle sette chiese per trovare qualcuno che abbia le competenze e, al contempo, il pelo sullo stomaco sufficiente per dichiarare che Pokémon GO! è una cosa brutta.

Anche se il ruolo di “riserva dell’Arcivescovo” mi riempie di orgoglio, rifiuto, ringrazio e saluto. Perché, infatti, parlarne male senza che vi siano i presupposti?

Probabilmente perché la macchina mediatica del panico morale si era avviata e non si poteva più tornare indietro. D’altronde non sarebbe la prima volta. Il timore che un oggetto dedicato all’intrattenimento o alla comunicazione possa generare comportamenti antisociali ha investito diverse vittime negli anni; restando in ambito videoludico, tra gli esempi più eclatanti vanno citati Death Race (1976, obiettivo: investire più pedoni possibile), Mortal Kombat (1992, obiettivo: picchiare l’avversario, magari sfilandogli la colonna vertebrale), fino alle più recenti serie Mafia o GTA (obiettivo: creare un impero del crimine fatto di violenza e coercizione). Titoli controversi come questi hanno sempre portato in dote un cospicuo chiacchiericcio molto fruttuoso, sia per gli sviluppatori sia per i giornalisti, traducendosi in un numero infinito di dibattiti in televisione e sulla stampa accompagnati da guerre sante sui social, interrogazioni parlamentari, mamme in paranoia e via dicendo. Nel caso di Pokémon GO!, però, l’intervento del panico morale presenta almeno due differenze rispetto alla prassi.

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Pillola rossa o pillola blu? SVEGLIAAAA cit. Alex Jones

Innanzitutto non si appoggia alla sua argomentazione ricorrente (lo sviluppo di comportamenti aggressivi e violenti), sostituendola invece con un vecchio adagio meno battuto: l’anestetizzazione dell’attenzione. Il gioco non è quindi un trigger emotivo che trasforma minorenni in killer, bensì una “new entry fra gli strumenti distrattivi che catturano la mente”, che genererebbe orde di esaltati che camminano per le città con gli occhi incollati allo smartphone oppure pecoroni che per trovare un Pokémon sono disposti a farsi derubare andando da soli in luoghi poco raccomandabili. In secondo luogo, Pokémon GO è un gioco pervasivo e un’applicazione ludica geolocalizzata: di conseguenza, il fatto che la gente esplori l’ambiente mescolando mondi virtuali, spaziali, sociali e fisici non è una conseguenza del gioco, ma la sua meccanica principale, nonché il motivo per cui la sua ricezione da parte dei media è stata spropositata rispetto all’impatto concreto che ha avuto sul pubblico.

Giocare, giocare ovunque
Quello che però è interessante non sono tanto le reazioni di pancia del pubblico, quanto il fatto che l’app ci dice cose sul potenziale della sua piattaforma (i dispositivi mobile geolocalizzati) e sulle sue possibili applicazioni future. Non solo: è anche un oggetto in grado di parlare dell’orizzonte mediale in cui viviamo oggi, esso stesso pervaso dal gioco e circondato da un’aura “semi-ludica” che si spinge al di là del singolo titolo o prodotto. È, insomma, un cosiddetto pervasive game.

Partiamo dalla definizione: un pervasive game è “un gioco con una o più caratteristiche che espandono dal punto di vista spaziale, temporale o sociale il cerchio magico contrattato”. Da quasi un decennio questa idea fa da liquido di contrasto a una vasta serie di prodotti accostabili a Pokémon GO: per esempio Invizimals di Novarama, i lavori di Haunted Planet Studio, Boktai della Konami (con sensore di luce solare nella cartuccia da ricaricare per cacciare i vampiri del gioco), Plundr e ConqWest di Area/Code, Shadow Cities dei finlandesi Grey Area e, soprattutto, Ingress, il predecessore spirituale di Pokémon GO sempre ad opera di Niantic.

Tornando alla definizione, vale la pena chiarire un altro concetto su cui esso si appoggia e che è da tempo al centro dei game studies: è il “cerchio magico”, una metaforica membrana che separa la situazione ludica dalla realtà, e che nasce dalla rielaborazione di un passaggio del testo Homo Ludens dello storico olandese Johan Huizinga in cui si sostiene che gioco e vita vera sono due cose separate in termini spazio temporali. Per un certo periodo il cerchio magico è stato adottato dagli studiosi di giochi e videogiochi come un paradigma interpretativo standard, una metafora analitica di partenza per descrivere il confine fra realtà e mondi virtuali (per esempio negli MMO come World of Warcraft): quando si gioca si è dentro limiti dettati da strutture di regole e si agisce al loro interno in funzione di ostacoli e obiettivi, facendo cose che nella realtà non si farebbero per tutta una serie di motivi.

Homo Ludens, l’opera fondamentale del tanto citato Johan Huizinga.

Sebbene l’idea sembri sensata e condivisibile, questa supposta separatezza è stata messa in discussione molte volte, al punto da suscitare reazioni infastidite da chi continuamente era usato come paragone negativo nel dibattito. Per esempio, una questione significativa riguarda l’approccio con cui si parla di giochi e video giochi: se vestiamo i panni dei designer parliamo di game e siamo d’accordo nel dire che quando giochiamo ci immergiamo in strutture ludiche fisse e separate dalla realtà; se vestiamo invece i panni dei sociologi e parliamo di play, accettiamo l’idea che le pratiche ludiche, soprattutto nella loro versione digitale, non hanno barriere riconoscibili perché queste sono generate e rimodulate dai giocatori mentre giocano. Inoltre, nell’ultimo decennio le interazioni con i mondi di gioco parallele alla classica fruizione joypad alla mano (guide, forum, wikia, modder, youtuber) hanno espanso gli universi finzionali di riferimento, portando a esperienze che travalicano continuamente la classica distinzione tra realtà e finzione. In questo ecosistema ludico i pervasive game come Pokémon GO aggiungono poi un ulteriore tassello che riavvicina i due approcci: sono giochi progettati esplicitamente per allargare il cerchio magico, agendo sul mondo reale.

In relazione a queste idee, Pokémon GO è dunque importante innanzitutto per aver sdoganato il location based gaming e il pervasive gaming (più della realtà aumentata che, diciamolo pure, è presente nella sua versione meno intrigante). Un percorso in parte già avviato da Ingress, che ha avuto il merito di creare una base di utenti tech addicted e sci-fi lover attraverso la capacità di farli muovere nel mondo reale e l’interessante progetto di mappare i luoghi significativi di parte del globo: a partire da un set predefinito di rilevanza storica e sociale, oltre cinque milioni di altri portali sono stati proposti dagli utenti, finendo per avere effetti positivi inattesi, come per esempio l’accresciuta visibilità per alcune opere di street art.

Sulla sua scia, il titolo Nintendo/Niantic ha conferito significati alternativi a luoghi già in possesso di una storia (il loro nome, gli eventi accaduti lì, eccetera) e di un vissuto personale, costruendo su di essi una struttura ludica. In altre parole, tali luoghi sono stati ricontestualizzati all’interno di pratiche sociali di gioco che coinvolgono gruppi di persone, fungendo da arena e da ostacolo, poiché fisicamente esistenti e collocati in uno spazio abitato e vissuto da altri esseri umani che non stanno giocando.

Ripensare il gioco
La rimessa in discussione dei confini del cerchio magico porta con sé anche il ripensamento dell’idea stessa di gioco, del suo scopo, dei suoi limiti e delle sue ambizioni. Da un lato è immediato interpretare Pokémon GO come l’evoluzione digitale del nascondino o di altre pratiche ludiche tradizionali; dall’altro, dentro la situazione ludica, il giocatore accede a un processo meta-comunicativo (il gioco parla di se stesso e della sua natura) contrattandone i limiti e confermando così la mobilità del cerchio magico.

Tutto questo ci porta all’idea di semi-ludico: l’atto di giocare, inteso come pratica connaturata all’essere umano, è una costante presente in forme molto diverse nel vivere quotidiano (cos’altro è, se no, il tiro a canestro nel cestino della cartaccia?). Connettività e portabilità delle piattaforme hanno permesso a questo giocare di strutturarsi  in pratiche interstiziali che polverizzano i confini del gioco stesso. Questa categoria ibrida e semi-ludica, sia chiaro, non è priva di effetti collaterali: per esempio, la pervasività del gioco nei tempi e nei luoghi del lavoro non ha come conseguenza solo il supposto alleggerimento dell’attività lavorativa, ma, più subdolamente, l’appesantimento dell’attività ludica, che spesso esige dal giocatore una costanza tale da rendere il tempo libero costellato di scadenze e urgenze molto simili a quelle lavorative. In tal senso, è significativo che Pokémon GO abbia inizialmente suscitato reazioni molto polemiche in nome dello spreco di tempo: gli utenti si sono arrabbiati a più riprese perché gli aggiornamenti del gioco spesso vanificano le ore passate sulla versione precedente, oppure perché costringe a ore di duro lavoro per raggiungere gli obiettivi che propone.

Altra conseguenza del semi-ludico è la manifesta esigenza di accrescere il significato del proprio agire, anche quando esso è fine a se stesso o funzionale a qualcos’altro. L’esempio principale di questo tipo di attività è lo spostamento quotidiano nello spazio, per esempio da casa a lavoro, cui attribuiamo, tramite sovrastrutture digitali come Pokémon GO (o Foursquare e simili), un significato che lo spostamento in sé non possiede. Questo tuttavia assume una valenza positiva e incoraggiante nel momento in cui si accompagna a un’esperienza sociale: il mondo reale acquisisce livelli di complessità che, se condivisi con altri individui, di fatto ci connettono con loro.

‘Fare piazza’ con lo smartphone

Da queste considerazioni generali, si può provare a chiedersi se conferire significati aggiuntivi ai luoghi sia sempre una buona idea. Alcuni pokestop e palestre sono stati collocati in luoghi problematici, da abitazioni private ad aree museali dedicate all’olocausto. La forbice è abbastanza ampia e la discussione sull’opportunità di escludere alcune aree dal gioco è già in atto. A corollario di questo, è evidente che Pokémon GO ha le potenzialità per influenzare i percorsi dei suoi utenti nello spazio: senza sforzarsi troppo, diversi esercizi commerciali hanno iniziato a posizionare esche al loro interno in determinati orari per attirare clienti.

Gioco e potere
È inevitabile infine accennare al fatto che Pokémon GO abbia accesso e immagazzini una mole consistente di dati personali, altra modalità di sfondamento dei confini fra gioco e realtà. Anche evitando di parlare del rapporto fra il CEO di Niantic e la CIA, che a tratti  assume i contorni della suggestione distopica, e soffermandoci solo sul contratto di utilizzo, dove si specifica che i dati personali potrebbero essere condivisi con le forze dell’ordine o con terze parti allo scopo di prevenire infrazioni della legge, la questione merita di essere trattata. Come per molti altri servizi online, la grande maggioranza degli utenti non si pone il problema, cedendo parte della propria privacy in cambio della fascinazione tecnologica e dell’accrescimento di significato della propria esistenza. L’incubo panottico di non essere mai soli e sempre sotto osservazione, cede il posto al desiderio di non essere mai più soli, in fondo non si ha nulla da nascondere. È l’idea di sorveglianza liquida, diffusa oltre le telecamere a circuito chiuso e le perquisizioni negli aeroporti e negli stadi, una sorveglianza autoimposta che si riverbera nella commistione di lavoro e tempo libero accennata prima: dipendenti che autoregolano le proprie scadenze, di fatto non staccando mai dal lavoro, ma immettendovi la propria creatività e il proprio tempo libero convinti di contare come soggetti individuali. È anche l’idea di sorveglianza come social sorting, che si sostituisce a quella di sorveglianza come controllo: da “verifico che tu non faccia niente che va contro la legge e nel caso ti sanziono” a “verifico che tu corrisponda a determinati canoni etici, estetici, comportamentali e ti do accesso a determinati prodotti, luoghi (reali e virtuali) e privilegi”. Chi non corrisponde ai canoni è escluso irrimediabilmente dalla normalità ed entra in una spirale di svantaggi cumulativi che lo identifica come soggetto pericoloso e minacciante la sicurezza altrui. Tuttavia, anche dall’interno dello status privilegiato, e con la convinzione di non aver nulla da nascondere, “non c’è modo di sapere quando le categorie a rischio potranno accidentalmente includerci o, più precisamente, escluderci per mancanza dei requisiti necessari a entrarvi o a restarvi”.

L’episodio ‘Nosedive’ di Black Mirror è, in questo senso, eloquente

Queste considerazioni servono ovviamente solo a grattare la superficie della portata socioculturale di Pokémon GO e dei suoi simili. Sono tuttavia questioni chiave che il moral panic tende a relegare sullo sfondo in favore di polemiche ridondanti che sono spesso considerate il focus centrale del dibattito sul prodotto mediale che attaccano. Pokémon GO è da un po’ fuori dai radar, nonostante mantenga oltre ventitré milioni di utenti attivi nei soli Stati Uniti. Cessate le polemiche e normalizzato il fenomeno, ora è finalmente possibile concentrarsi sul quadro generale e sui punti che è bene tenere d’occhio e approfondire.

Mauro Salvador
Progetta giochi con il collettivo Dotventi e insegna game design all'università. Ha scritto diversi articoli e libri sul videogioco e il suo rapporto con altre forme di comunicazione, per esempio In gioco e fuori gioco (Mimesis, 2015) e Conoscere i videogiochi (Tunué, 2014). A weekend alterni è temibile pirata™ e hall of famer NBA.

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