Carico...

Oltre la trovata promozionale, al confine tra il vero e il falso: operazioni come Blond di Frank Ocean e The Life of Pablo di Kanye West sono il risultato di un nuovo modo di intendere quello che una volta chiamavamo “disco”.

Nel 1997 i Flaming Lips pubblicano un cofanetto intitolato Zaireeka. Il gruppo ha già la reputazione di un’accolita di fricchettoni irrecuperabili, ma Zaireeka è una classe a parte anche per i loro standard. Si tratta di un box di quattro CD, contenenti parti diverse della stessa canzone, concepiti per essere suonati contemporaneamente in quattro impianti diversi.

Zaireeka segna reazioni contrapposte. Da una parte c’è chi lo considera, ancor oggi, la cosa più importante a cui i Flaming Lips abbiano mai messo mano, un’opera concettuale di grande significato; dall’altra stanno quelli che lo liquidano come la prima di una serie interminabile di buffonate pretenziose e senza senso di cui il gruppo si renderà protagonista di lì a poco. Entrambe le fazioni sono utili a tracciare lo spettro percettivo della musica popolare di un’epoca storica, e capire quali siano i suoi limiti; in questo Zaireeka è senz’altro un successo, un album che fa discutere anche prima di entrare nel lettore.

“Ascoltare Zaireeka”, in effetti, significa porsi un problema procedurale: bisogna munirsi di quattro player e farli partire contemporaneamente, oppure accontentarsi. Il gruppo in effetti ha pensato i quattro CD in modo che l’ascolto stia in piedi anche ascoltandone uno singolo; in questo modo Zaireeka può essere ascoltato, virtualmente, in quindici versioni: quattro CD singoli, sei combinazioni di due CD, quattro combinazioni di tre CD e il play simultaneo di tutti e quattro. E poi bisogna considerare le microvariazioni, le piccolissime differenze di runtime da un player all’altro, la precisione nel riuscire a far partire tutte le tracce nello stesso momento; e poi ci sono il volume puro di ogni impianto da cui la musica esce, e le caratteristiche del suono che esce dagli amplificatori di ogni impianto. Il numero di variabili fondamentali coinvolte nel processo rende Zaireeka un disco radicalmente diverso ogni volta che lo si ascolta.

carico il video...
Tutto Zaireeka in versione quattro dischi assieme.

Non è una rivoluzione copernicana: come detto parliamo di uno spin-off della discografia del gruppo, un esperimento che può legittimamente suonare fine a se stesso. Naturalmente non viene dal nulla: decenni di musica sperimentale e di esperimenti pionieristici sui supporti fonografici hanno fornito l’ossatura ideologica e tecnica per arrivare al disco, e in un certo senso il gruppo di Wayne Coyne è solo arrivato a mungere la vacca del situazionismo rock con un’idea da terza elementare. Ma d’altra parte il disco non rifiuta nemmeno per un minuto la sua natura smaccatamente pop, e questo contribuisce a creare un gioco di specchi affascinante.

In effetti la cosa che più mi interessa di Zaireeka, parlando a titolo personale, è un episodio di cui il disco diventa involontariamente protagonista qualche anno dopo. La sua circolazione fisica è piuttosto limitata: decine di migliaia di copie vendute, e personalmente non l’ho mai visto in un negozio di dischi. “Fortunatamente” nel 2000 ho comprato il mio primo computer, e armandomi di pazienza e di una connessione a 56k, un giorno ho deciso di scaricare i quattro CD da Napster e provare ad “ascoltarlo”. A quel punto, tuttavia, il disco aveva subito un upgrade: qualcuno aveva importato le tracce su un computer, le aveva mixate insieme con qualche banalissimo software di editing musicale, e aveva gentilmente condiviso il risultato alla comunità dei downloader illegali. Si può pensare che questo anonimo utente di Napster sia stato un benefattore o un malfattore, ma sta di fatto che se cercavi “Zaireeka”, la versione di gran lunga più condivisa era la versione “mixed”. Un singolo disco che, ogni volta che lo metti su, suonava uguale.

La storiella ha due lezioni. La prima: è possibile creare un’opera che, per sua natura, sia in continua evoluzione. Un vero e proprio live album, alla faccia di quelli che vengono chiamati così e contengono soltanto la registrazione di un concerto. La seconda è che la natura di quest’opera è subordinata alla rilevanza del formato audio in cui è concepita. Zaireeka nasce e muore come compact-disc. Non era possibile concepire Zaireeka in vinile, perché è quasi impossibile far partire quattro giradischi contemporaneamente e le differenze di velocità tra un giradischi meccanico e l’altro sono più marcate – in altre parole, sarebbe concepibile solo come opera impossibile. Non è possibile concepire Zaireeka in mp3, perché chiunque ha accesso alla banalissima tecnologia necessaria per metterli insieme in un singolo formato.

Passare a un nuovo formato di ascolto significa anche, e soprattutto, passare a una musica diversa e più adatta a quel formato.

È una cosa a cui non si pensa spesso. Anche nel corso di uno dei dibattiti più accesi (e a ragione) su quello che potrà essere IL formato in cui la musica verrà ascoltata nei prossimi anni, raramente si ragiona sul fatto che passare a un nuovo formato di ascolto significa anche, e soprattutto, passare a una musica diversa e più adatta a quel formato.

Un esempio banale: se avete ascoltato musica negli anni ’90 ricordate senz’altro un periodo in cui tantissimi CD contenevano una traccia nascosta. A volte era una traccia non riportata nella tracklist, altre volte era nascosta dopo venti minuti di silenzio alla fine della traccia 12. Ascoltare gli album era una caccia al tesoro: lo mettevi su, dimenticavi di spegnerlo e dopo mezz’ora partiva un pezzo che non avevi mai sentito. Non è possibile nascondere tracce su un disco in vinile, al massimo si può evitare di listarle in copertina: quello che hai sono venti minuti e qualcosa disponibili per ogni lato. In un CD puoi settare una traccia al numero ordinale “-1”, e per ascoltarla devi mandare manualmente il disco indietro: senza informazioni, potrebbero volerci anni per scoprire che il tuo disco ha una canzone in più. Con un disco in mp3 non puoi farlo: scarichi i file e li ascolti. E non è un caso che oggi i CD con una hidden track siano pochissimi.

Ok, la maggior parte delle volte si trattava di gag ridanciane dall’impatto artistico diciamo limitato. Ma prima dell’avvento del CD, ad esempio, era impossibile pensare un disco che consistesse di una sola traccia lunga 70 minuti. E questo limite strutturale, in certi generi, è stato un limite artistico. Non è infrequente che escano dischi di elettronica sperimentale, o metal estremo, composti di una sola traccia che occupa tutto lo spazio disponibile, opere che ai tempi del vinile erano inconcepibili o limitate al mercato delle cassette. Allo stesso modo, il file musicale ha oltrepassato il limite di durata del CD: quello che una volta era limitato a un’ora e dieci ora può potenzialmente scorrere ininterrottamente per dieci o venti ore.

carico il video...
Dieci ore di epic sax guy.

La discriminante diventa anche e soprattutto la resistenza dell’ascoltatore. Se all’epoca del vinile le tracce di quindici minuti sembravano una sorta di sfida alla resistenza, oggi gli appassionati di certi generi ascoltano quotidianamente opere concepite in un solo blocco da un’ora. Per testare la loro resistenza ormai occorre rivolgersi ai numerosi esempi di musica automatica caricati sul tubo. Il mio preferito si chiama Epic Sax Guy 10 Hours, ad esempio: un sample di 7 secondi preso da un’esibizione particolarmente tamarra di un terribile gruppo pop esteuropeo sul palco dell’Eurovision, messo in loop e riproposto identico per dieci ore di fila, con le immagini che si ripetono in una sorta di visual permanente.

Il video (caricato nel 2011) al momento ha 22 milioni di visualizzazioni, quasi tutte generate da gente che lo posta per sfottere qualcuno, ma la “canzone” alle mie orecchie ha qualità artistiche in sé: la sfiancante ripetizione dello stesso riff senza alcuna variazione finisce per stimolarmi il cervello e dopo una decina di minuti di fastidio inizia a salirmi addosso una sensazione di empatia dinamica con la musica, un po’ simile a quella che provai ascoltando le prime volte i dischi di Jeff Mills. Ok, non mi sono mai spinto ad ascoltarlo per dieci ore, ma una volta credo di aver superato le due.

Quello che non molti avevano previsto era il modo in cui lo streaming avrebbe irrimediabilmente cambiato la natura di quello che fino ad oggi, nei diversi formati, abbiamo continuato a chiamare disco.

Nel 2016 anche l’mp3 è superato. Lo streaming legalizzato ha fornito un’alternativa dinamica allo scambio peer to peer, che sta velocemente/inesorabilmente abbattendo lo strapotere del formato, relegato ormai a una sorta di nicchia di appassionati ossessivo-compulsivi talmente ridotta nel numero da rendere inutile, di fatto, la caccia ai pirati (vedere ad esempio l’articolo di Sebastien Wesolowski sulla strana storia di Soulseek). Lo streaming ha apportato un importante cambiamento rispetto all’mp3: non è più necessario “possedere” una canzone per ascoltarla. Essendo una notevole semplificazione del lavoro dell’utente, era logico e prevedibile che prendesse piede. Quello che non molti avevano previsto era il modo in cui avrebbe irrimediabilmente cambiato la natura di quello che fino ad oggi, nei diversi formati, abbiamo continuato a chiamare disco.

Il 14 febbraio 2016 esce in streaming esclusivo su Tidal il nuovo album di Kanye West, The Life of Pablo. Il rapper dichiara di non essere intenzionato a fare uscire il disco fuori da Tidal, e che con tutta probabilità non produrrà mai più dischi fisici. Kanye West non è nuovo a dichiarazioni del genere, e non ha molto senso mettersi lì a fare la tara. Il disco rimane comunque in streaming esclusivo su Tidal (una piattaforma di cui, ricordiamo, West è socio) per un mese e mezzo: dopo 400 milioni di ascolti, arriva anche su Apple Music, Spotify e Google Play. È il primo aprile del 2016. Il problema è che, in realtà, non è lo stesso disco.

Non esattamente, almeno. Kanye West ha effettuato la prima correzione al disco nel mese di marzo: la tracklist è cambiata, e in una decina di pezzi ci sono alcune modifiche – guest vocals inserite o eliminate, tracce separate in due, testi diversi, arrangiamenti diversi… Il 31 marzo, il giorno prima della release di Pablo sulle altre piattaforme, viene fatta ascoltare persino una nuova traccia al release party dell’ultimo disco di Yo Gotti. La traccia si intitola Saint Pablo e leakka su internet, finendo per un breve lasso di tempo su Apple Music. A questo punto il disco è uscito in tre versioni diverse. A commento della nuova versione, un executive di Def Jam dichiara al New York Times che il disco continuerà a subire continui cambiamenti nel corso dei mesi successivi. Lo stesso Kanye chiama Pablo “un’opera d’arte contemporanea vivente”.

carico il video...
Da The Life of Pablo.

La musica e il temperamento di Kanye West gli hanno permesso di lavorare in una dimensione del pop che non è proprio inedita, ma che nel suo caso sembra settarsi su un livello completamente nuovo. Sembra animato da evidenti psicosi e da numerosi problemi ad adattarsi al mondo reale, che uniti alla capacità di produrre musica di pregio creano una sorta di paradosso che si autoalimenta: le persone attendono nuova musica dell’artista e nuove mattate dell’uomo. È opinione diffusa sul mercato (e condivisa dall’artista stesso) che Kanye West sia un “genio”. Occorrerebbe fare uno studio della definizione e tornare qui a dibatterne, ma suppongo che sia un argomento noioso: l’ha affrontato in parte Birsa Alessandri in un articolo su Noisey, ed è un argomento che va anche a comporre l’ossatura della recensione di Pablo che Simon Reynolds ha scritto per The Wire.

È piuttosto difficile definire Kanye West un innovatore puro, in effetti trovo difficoltà a definirlo anche solo un “artista” in senso classico; la più rilevante creazione artistica di Kanye West è Kanye West stesso, nel senso del formato-Kanye: un contenitore di situazioni potenziali che accoglie indiscriminatamente musica di ogni qualità, oltre a qualsiasi temperamento umano e a qualsiasi proiezione sociale. In questo senso, The Life of Pablo è senz’altro il disco che più gli somiglia: costruito su una struttura basata su una blanda negazione di se stesso e rimodellato a getto continuo secondo uno schema libero i cui estremi cognitivi sono intuibili solo da Kanye stesso.

Mi sono trovato a essere, in maniera incidentale, un fanatico di Kanye. La ragione principale è che, a differenza della maggior parte delle popstar a lui paragonabili, è impossibile pensarlo in qualsiasi altra epoca se non la nostra. L’aumento progressivo del tasso di randomness e schizofrenia attivatosi dai tempi di The College Dropout ha prodotto una discografia tra le pochissime adatte a raccontare l’evoluzione del mondo occidentale per come l’abbiamo conosciuta. Non necessariamente la musica in sé, quanto la percezione della musica come strumento di ricerca per la personalità. All’atto pratico, del resto, un’opera come The Life of Pablo non potrebbe essere nemmeno pensabile prima di oggi.

Il The Life of Pablo che sto ascoltando ora su Tidal è quello che Kanye West (l’unica persona titolata a farlo) identifica in questo momento come il vero The Life of Pablo. Tutti gli altri The Life of Pablo dislocati sugli hard disk degli utenti sono, di fatto, un altro disco.

La prima cosa che serve per rendere Pablo realizzabile è appunto la scomparsa del formato fisico. Qualora il “disco” fosse inchiodato a una forma materiale concreta, cioè a un vero e proprio disco (vinile, CD o mp3, poco importa), la sua esistenza sarebbe segnalata da una fattualità misurabile sia in termini di economie di scala che di impatto sulla cultura popolare. Modificare un disco che si trova solo in streaming costa la fatica di cancellare le vecchie tracce e caricare le nuove. Modificare un disco che sta fisicamente sul mio scaffale sarebbe possibile solo in termini simili a quelli con cui Apple cambia le batterie difettose dei computer portatili: ti mando il corriere a casa, ti consegno la nuova copia del disco di Kanye West, tu consegni al corriere la tua copia obsoleta e io pago quel che c’è da pagare.

Oltre a questo, un’operazione come Pablo può permettersi di funzionare soprattutto in uno stato di guerra tra le piattaforme di streaming. Esempio: personalmente, come si può intuire, rimango parte della minoranza che continua a evitare di consumare la musica via streaming, e preferisco comprare i dischi o scaricare gli mp3. Se lo faccio da una piattaforma p2p, però, con un disco come The Life of Pablo non posso avere la garanzia che la versione che sto scaricando sia la versione attuale del disco: le persone che condividono la loro cartella musicale non hanno un vero interesse di categoria a indicizzare la musica, e all’atto pratico mettono in condivisione contemporaneamente diverse versioni dello stesso disco.

The Life of Pablo però non è semplicemente un disco concepito come opera vivente e fondata su una componente aleatoria. E non è nemmeno un ardito esperimento di software music come poteva essere ad esempio l’assurdo Infinity dei K-Space: è un disco pop, e per giunta di rima rilevanza. A differenza degli esperimenti che l’hanno preceduto, è concepito per espandersi al massimo entro i limiti del formato che lo contiene.

All’atto pratico, insomma, il giorno 16 maggio 2016 esisteva un solo The Life of Pablo, ed era quello da ascoltare in streaming. In questo caso, tra l’altro, il plus di Tidal è reale: non è legato a noiosissime questioni di fedeltà del suono o di redistribuzione delle royalties: con The Life of Pablo Tidal diventa il garante della legittimità dell’opera. Il The Life of Pablo che sto ascoltando ora su Tidal è quello che Kanye West (l’unica persona titolata a farlo) identifica in questo momento come il vero The Life of Pablo. Tutti gli altri The Life of Pablo dislocati sugli hard disk degli utenti sono, di fatto, un altro disco. Un rough mix, un pre-master, o qualcosa del genere: roba per appassionati di bootleg e stranezze. Forse, per certi versi, persino un fake.

Al confine tra il vero e il falso.

Nel giugno del 2008 il mensile italiano Rumore elesse disco del mese Narrow Stairs dei Death Cab For Cutie. La recensione, firmata da Sara Poma, era molto precisa nel raccontare i dettagli del disco: inserti di pianoforte qui, siparietti rumoristici lì, eccetera. Qualcuno su un forum si curò di puntualizzare che il disco dei Death Cab For Cutie, in realtà, non aveva inserti di pianoforte in quel punto o siparietti rumoristici in quell’altro. Era possibile ascoltarli, invece, in un fake che aveva girato moltissimo via peer to peer. Il quale era in realtà il disco di un gruppo tedesco chiamato Velveteen, similissimo ai Death Cab For Cutie, in cui le tracce erano state taggate alla perfezione; per sgamare il falso c’era voluto molto tempo. Sul momento, nel circuito degli indieblogger (a quei tempi ancora molto attivo) era montato un caso su cui in tantissimi s’erano curati di dire la loro. Che al netto dei pareri più pesanti, suonava più o meno come: “potevamo cascarci tutti quanti”.

Erano anni di adolescenza tecnologica. Passato il periodo in cui il peer to peer ci convinceva di stare scaricando il disco non ancora uscito degli Slipknot, che poi si rivelava l’album di qualche pessimo gruppo death floridiano in cerca di autopromozione (ok, sempre meglio che gli originali), stava iniziando a venir fuori questa cultura del “leak verosimile”. Successe ad esempio con Cosmogramma di Flying Lotus: venne condiviso su internet un fake che ci vollero giorni a identificare come tale. Al contempo le grosse etichette si trovarono a dover limitare quanto più possibile la circolazione degli mp3 prima dell’uscita fisica dei dischi, con il risultato di sentirsi costrette a proibire l’accesso a una copia promozionale alle riviste cartacee. Per non bucare la recensione, i collaboratori si mettevano a cercare un leak su internet, tacitamente avallati dalla direzione.

Si parla di fake in riferimento a un album che pretende in qualche modo di essere un disco ufficiale, ma di fatto non lo è. Se oggi rileggessimo la recensione di Life of Pablo uscita su Rumore, probabilmente ci troveremmo di fronte ad un altro caso Death Cab For Cutie: arrangiamenti che non ci sono, parti vocali che non ci sono, guest appearance non considerate. In questo caso però, è la natura stessa del disco a far cadere in fallo il giornalista musicale. Oltre che, ovviamente, a costringere un qualsiasi ascoltatore “medio” ad ascoltare lo stesso singolo in due forme diverse.

The Life of Pablo, anche in questo un disco estremamente 2016, risponde con grandissimo intuito ad uno dei più grandi bisogni dei dischi pop che escono oggigiorno: monetizzare su un hype istantaneo.

Comunque la si pensi dell’operazione in sé, è un formato che costringe i consumatori a ripensare la loro modalità di fruizione della musica, almeno in una prospettiva temporale; e anche le loro concezioni di vero e falso. Del resto successe anche con il disco dei Death Cab For Cutie: in molti all’epoca si sbilanciarono a dire che il fake dei Velveteen era qualitativamente migliore. Anche io, personalmente, la prenderei male se Kanye West decidesse di eliminare da Famous le vocals astratte di Rihanna. La quale, tra l’altro, fu vittima in proprio di un altro disservizio giornalistico del genere: a fine novembre 2015 uscì una recensione di Anti su Mic/Yahoo, firmata da Chris Riotta. O per essere esatti uscì il format preconfezionato di una recensione del disco, che avrebbe dovuto essere completato una volta che Riotta avesse davvero ascoltato l’album. Un coccodrillo fatto e finito.

La recensione venne tolta dopo pochissimo, non abbastanza per evitare gli screenshot e veder montare la solita polemica sulla fine della critica musicale. Questi episodi continuano a venir bollati come cattivo giornalismo, ma se avessimo abbastanza visione potremmo essere portati a considerarli con più attenzione. In fondo si tratta soprattutto di tentativi pionieristici (e spesso molto goffi, certo) di “sopravvivere” all’interno di un sistema promozionale sempre più serrato, che per i grandi nomi sta sempre più settandosi su una strategia del silenzio ad oltranza che si conclude con una release improvvisa su canali più o meno controllati. Non è l’attesa del piacere, essa stessa, il piacere? Stocazzo, direbbe Beyoncé.

Per certi versi, l’esatto opposto della concezione alla base del disco di Kanye West, la cui natura prevede una continua “falsificazione” di se stesso. The Life of Pablo, anche in questo un disco estremamente 2016, risponde con grandissimo intuito ad uno dei più grandi bisogni dei dischi pop che escono oggigiorno: monetizzare su un hype istantaneo. Il clamore generato dal disco oggi batte il tempo del totale disinteresse che la gente manifesterà dopodomani: per allora tutti si saranno fatti un’idea della musica, l’avranno espressa sui social o avranno pubblicato una recensione da qualche parte. Non potendo contrastare la tendenza dell’hype a durare sempre meno giorni, l’artista pop si attiva per moltiplicarlo in più episodi temporalmente scansionati. Le continue ri-pubblicazioni di Pablo costringono il fan fedele a continui riascolti, quantomeno per il dovere di cronaca e/o nell’ottica di sgamare la prossima mattata di Kanye West. Come detto, è un meccanismo che si autoalimenta, costruito tra l’alternanza tra paradossi e verità artistiche.

Frank Ocean, Blond.

Uno schema mentale abbastanza simile è alla base di un episodio ancora più recente. Qualche settimana fa abbiamo assistito a uno spettacolo che a questi livelli è del tutto inedito: un artista che invece di vedere circolare il fake del suo prossimo disco, l’ha prodotto in prima persona. Si chiama Frank Ocean e appartiene grossomodo allo stesso giro di Kanye West. La storia del suo ultimo disco è complicata al punto che non siamo nemmeno sicurissimi di come si chiama.

I lavori per il successore di Channel Orange, il disco che l’ha proiettato nell’olimpo delle popstar, iniziano nel 2013. Si parla già da subito di una parata stellare di collaboratori (Pharrell, Danger Mouse e altri ancora), di registrazioni in location inusuali e di possibili wishlist; l’anno successivo annuncia che il disco è quasi finito, dopodiché se ne torna a lavorare per un altro anno e annuncia la release nel luglio del 2015. Le dichiarazioni vengono fatte quasi tutte tramite il tumblr dell’artista, perlopiù in forma di semi-slogan (“I got two versions”) o comunque senza dare la possibilità a qualsivoglia giornalista di chiedergli di preciso di cosa si tratti.

La scadenza di luglio 2015 passa in cavalleria. Ocean si rifà vivo a un anno di distanza, come al solito dovizioso di particolarità e informazioni: l’immagine di un foglio di quelli che si usavano per i libri della biblioteca, con una serie di date stampate sopra (ragionevolmente, le date di uscita del disco bucate dall’artista) e una data finale che implica un’uscita entro il mese. E sotto la scritta “Boys Don’t Cry”, cioè verosimilmente il titolo del disco. Il 31 luglio, tuttavia, il disco non è ancora arrivato. La notte successiva però apre il sito boysdontcry.co, con un live streaming di Ocean che fa cose e suona tracce quasi inintelligibili che sembrano prese da un disco Rune Grammofon.

Dopo qualche ora sembra abbastanza chiaro che il live streaming non è il supposto disco. Inizia a girare la notizia per cui il fantomatico Boys Don’t Cry verrà pubblicato la settimana successiva, ma bisogna aspettare il 18 per ascoltare il disco di Ocean, messo in streaming esclusivo su Apple Music. Solo che non si chiama Boys Don’t Cry, bensì Endless, ed è definito un visual album (personalmente l’ho solo ascoltato, ma mi hanno descritto la parte visual come le immagini di una camera fissa puntata su un posto in cui non succede nulla). A un primo ascolto Endless sembra una raccolta di canzoni molto umorale, composta di “singoli” per nulla facili e skit di trenta secondi per creare un senso di album a cazzo di cane in maniera un po’ artsy.

Da Endless, il visual album di Frank Ocean uscito lo scorso 18 agosto.

Tutt’altro che un brutto disco, sia chiaro, ma lì per lì Endless dà l’impressione di una montagna che ha partorito un topolino. La gente fa appena in tempo a schierarsi a favore o contro il disco: il giorno successivo viene pubblicato il video ufficiale della canzone designata ad essere il singolo del disco. La canzone si chiama Nikes, ma su Endless non è presente. Al contempo viene annunciata la creazione di quattro temporary shops in altrettante città (Londra, New York, Chicago, Los Angeles) che si sarebbero curate della distribuzione fisica di un numero non precisato di copie di una rivista prodotta da Frank Ocean. Che si chiama, questa sì, Boys Don’t Cry. E contiene la copia fisica del “vero” disco di Frank Ocean. Che si chiama Blond, a quanto si legge sulle tre variant cover allegate alla rivista, e che verrà reso disponibile qualche ora dopo su Apple Music e iTunes. Però qui impariamo che il disco in realtà si chiama Blonde.

Nel momento in cui scrivo sono passati pochi giorni dalla release. In parecchi si sono già sbilanciati e hanno definito Blonde (o Blond) il disco dell’anno. Anche qui, si tratta soprattutto di un tentativo di sopravvivere in un mondo in evoluzione. Di sicuro Blonde o Blond è un disco ambizioso, che ha fatto sobbalzare i cuoricini di fanatici e reporter per un mesetto abbondante. Molte cose comunque sono ancora piuttosto oscure. Per prima cosa c’è il ruolo di Endless. La teoria che sta prendendo piede, senza che – mentre scrivo – nessuno dei diretti interessati abbia confermato direttamente e con nome e cognome, è quella secondo cui Endless è un disco farlocco realizzato in 46 minuti, allo scopo di liquidare frettolosamente il contratto con Def Jam/Universal e permettere che Blonde o Blond uscisse da indipendente per la neonata etichetta personale di Ocean (la quale si chiama Boys Don’t Cry).

A seguito del fattaccio, del resto, pare che i piani alti di Universal abbiano deciso seduta stante di non concedere mai più streaming esclusivi dei propri artisti a una piattaforma o all’altra, il che significa ripercussioni nel mercato dello streaming, probabilmente sbilanciate a favore di Spotify, tanto per sancire l’influenza capitale di Frank Ocean nell’economia di breve periodo della musica pop.

carico il video...
Frank Ocean, Nikes.

I gossip di marketing e le analisi economiche oggigiorno finiscono spesso per eclissare i discorsi sull’arte e farli sembrare un po’ naif. La probabile guerra tra Frank Ocean e Universal sta facendo molto più rumore delle considerazioni legate al disco, e il fatto che i pareri siano quasi tutti istantanei e più o meno precotti non aiuta. D’altra parte Endless Blonde or Blond è un disco che sembra cucito, consapevolmente o meno, per massimizzare il profitto generato dalla confusione degli ascoltatori, che questo sia voluto o meno. Tanto per dire, non esiste un solo Blonde: la versione in streaming è radicalmente diversa dalle copie fisiche allegate a Boys Don’t Cry (nelle seconde, per dire, non è presente il singolo Nikes).

È una caratteristica importante: in qualche modo l’aver distribuito una copia fisica sicuramente incompleta toglie la certezza che il magazine distribuito sia in qualche modo il director’s cut del tutto. Magari sono le two versions di cui aveva parlato Ocean un anno fa, o magari anche Endless e Blond(e) sono un’opera vivente e destinata a subire mutazioni nel corso dei prossimi mesi. O magari sono due opere distinte, concepite per vivere in autonomia e incidentalmente uscite a un giorno di distanza. Oppure uno dei due è un fake. L’atteggiamento laconico del musicista rende ideale lo sviluppo di una forma mentis inedita attorno al disco, che in qualche modo ci costringe ad ascoltarlo senza la certezza di sapere che cosa sia.

Una cosa è sicura: sia The Life of Pablo e il disco di Frank Ocean, comunque si chiami(no), sono discorsi identitari che stanno su un altro piano rispetto alle trovatine promozionali del lancio improvviso e del disco a buffo e dello streaming esclusivo a sorpresa. L’impressione è che, per una volta, qualcuno si sia deciso a fare dell’arte. La polvere della guerra per il monopolio del sistema musicale (chiamiamo le cose col loro nome) è ancora lontana dal posarsi, ma nel frattempo la musica sta cambiando forma e sembra che il pop dei grandi numeri sia finalmente disposta ad assecondare la sua natura mutante.

Francesco Farabegoli
Consulente editoriale di PRISMO. Ha fondato Bastonate, scrive per Rumore, Noisey e altre cose in giro. Di tanto in tanto disegna.

PRISMO è una rivista online di cultura contemporanea.
PRISMO è stata fondata ad Aprile 2015 all’interno di Alkemy Content.

 

Direttore/Fondatore: Timothy Small

Caporedattori: Cesare Alemanni, Valerio Mattioli, Pietro Minto, Costanzo Colombo Reiser

Coordinamento: Stella Succi

In redazione: Aligi Comandini, Matteo De Giuli, Francesco Farabegoli, Laura Spini

Assistente di redazione: Alessandra Castellazzi

Design Direction: Nicola Gotti

Art: Mattia Rinaudo

Sviluppatore: Gianmarco Simone

Art editor: Ratigher

Gatto: Prismo

 

Scriveteci a prismomag (at) gmail (dot) com

 

© Alkemy 2015