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Blu ha distrutto le sue opere. Ma chi ci garantisce che non sarebbero state distrutte comunque, nel futuro? Magari a furor di popolo? Perché la Storia non è neutrale, e spesso non perdona.

Negli ultimi giorni si è molto parlato della cancellazione delle opere bolognesi di Blu da parte dell’autore stesso e della denuncia degli attivisti che l’hanno aiutato. La street art, di solito cancellata e criminalizzata dalle istituzioni, stavolta viene rimossa dal suo stesso autore per sottrarla a un gioco di speculazione, mentre le istituzioni stesse cercano paradossalmente di difenderla. Ma lo scontro sulle opere di Blu è più grande del solo scontro sulla “mercificazione della street art”. Riguarda il fatto che tutta la storia dell’arte è una storia di scelte sulla distruzione o la permanenza delle opere prodotte. “La tutela del patrimonio culturale” può diventare un’espressione vuota, se non si considera che ogni prodotto della cultura va letto nel contesto che lo produce o che lo ospita. Il gesto di Blu indica uno snaturamento delle opere murali urbane, quando vengono messe in mostra senza consultare gli artisti e le comunità che ne fruiscono, ed estraendole dal contesto in cui sono leggibili come gesti di disobbedienza urbana. Contemporaneamente, riporta all’attenzione il fatto che su ogni opera pesa la scelta di conservarla o di distruggerla, fin dal momento in cui l’artista inizia a pensarla. Il patrimonio culturale, insomma, non si dà mai una volta per tutte. E bisogna dotarci degli strumenti per capire come non darlo per scontato.

Il discorso pubblico sul patrimonio culturale
Un articolo di Fabrizio Federici di qualche anno fa metteva a confronto retorica economicista e retorica identitaria sul patrimonio culturale. Da un lato il concetto di patrimonio culturale come “petrolio d’Italia” da far fruttare e mettere a valore, figlio della politica socialista degli anni ’80; dall’altro quello di patrimonio culturale come intoccabile fondamento materiale della nostra identità collettiva (nazionale, naturalmente). L’autore mostrava quanto numerosi e significativi fossero i punti di contatto tra i due approcci, riassumibili sostanzialmente in “una visione poco o per nulla critica, nostalgica, da cartolina” della nostra storia – o meglio, della storia di cui quel patrimonio è testimonianza. Già tre anni fa, l’autore invocava la necessità di una posizione “terza”, fondata sul riconoscimento dell’alterità del passato e sul “rendere contemporaneo ciò che contemporaneo non è, risignificandolo o meglio aggiungendo ai significati che già ha altri significati, in dialogo con quelli più antichi”.

21 maggio 1972: Laszlo Toth tira una martellata alla Pietà di Michelangelo. I giovani artisti residenti all’Istituto Svizzero di Roma mandano al direttore della Biennale di Venezia un telegramma proponendolo come vincitore del premio annuale indetto dall'Istituto. La pagina raffigurante il telegramma nel catalogo della mostra dell’Istituto viene strappata da ogni copia.

Al di là dello statuto ambiguo della street art in questo contesto (non esattamente esclusa, soprattutto negli ultimi anni, ma in un rapporto con le istituzioni che è già conflittuale perché mette a repentaglio l’intoccabilità del tessuto urbano storico), mi interessa evidenziare come anche in altri ambiti ci sia stato, negli ultimi anni, un tentativo di rimettere mano alle regole del gioco. Circa nel 2013, nella vicenda dei teatri e degli spazi della cultura liberati si metteva in campo – attorno alla nozione, per altri versi fallimentare, di “beni comuni” – anche un diverso approccio al patrimonio culturale, inteso come spazio di cui la collettività raccoglie l’eredità e la storia per trasformarlo secondo le esigenze del presente. In particolare sembrava emergere una domanda fra le altre, rimasta ancora sul piatto: che cos’è la tutela del patrimonio culturale, al di là dello scontro pubblico tra la nozione di tutela e quella di valorizzazione? La seconda nozione, introdotta in anni recenti in quello che poi diventò il codice dei beni culturali, fa problema perché fu messa in piedi per allargare il ruolo dei privati nella gestione pubblica del patrimonio storico-artistico; la vicenda degli spazi della cultura liberati sembrava implicitamente combattere sia questa opposizione, sia la retorica che faceva capo a entrambi i corni del discorso: tutela e valorizzazione andavano in ogni caso rapportate alle attività svolte dentro gli spazi della cultura liberati e in rapporto alla comunità cui facevano riferimento. La storia si trasformava così in genealogia, i beni pubblici e privati in beni comuni. Nel caso dell’ex Asilo Filangieri di Napoli (ora semplicemente L’Asilo), queste considerazioni si sono concretizzate nel riconoscimento del bene come uso civico e collettivo. Un’altra prassi del patrimonio culturale è possibile.

La Storia è neutra?
In entrambi i casi delle due retoriche di cui parlavamo sopra – economicista e identitaria – il patrimonio culturale viene considerato come qualcosa di neutrale, universale, irrinunciabile nella sua interezza. Effetti dello storicismo: non siamo noi a dover decidere cosa tramandare alle generazioni future. La Storia va preservata integra. È un assunto che, di per sé, si può tenere per buono, ma bisogna contemporaneamente tenere conto che, se la Storia va avanti, opererà comunque delle forme di selezione. La Storia, insomma, non è neutra, né universale. L’arte contemporanea, in tutte le sue forme, ci fa i conti ogni giorno, specialmente se si deve inserire nello spazio urbano. Ho provato a riflettere su questo punto ragionando sulla visita di Rouhani in Italia, chiedendomi se non fosse il caso di ripensare il nostro approccio al patrimonio culturale. A chi studia o fa ricerca nel campo delle discipline storiche il problema non suona nuovo: senza dover tornare alla Seconda inattuale di Nietzsche, e senza tirare in ballo l’adagio comune per cui la Storia è sempre quella scritta dai vincitori, si può pensare al problema della storia delle donne o dell’omosessualità, o agli studi post-coloniali, o ancora allo studio della ricezione delle opere d’arte e della reazione alla loro presenza.

Ci scandalizza il gesto radicale di Blu che cancella le proprie opere dai muri bolognesi. Le immagini della Storia e dell'Arte non sono meno “calde” delle immagini della contemporaneità. Davvero possiamo dirci che la Storia è neutra, unica, universale?

Che le opere d’arte del passato siano conservate e venerate per il fatto di avere una storia, più che per la posizione storica e contestualizzata che hanno occupato, è una convinzione fortemente radicata nel dibattito pubblico: esattamente quella che ha – giustamente – scatenato il moto di indignazione per la copertura delle statue alla visita di Rouhani. Il fatto stesso che questo avvenimento si sia verificato, però, rimette in questione il problema cui accennavamo prima: il trattamento delle opere d’arte, specialmente del passato, provoca delle reazioni, spesso scomposte. Il che non depone a favore dell’universalità del patrimonio culturale. Ci scuote la visione della distruzione delle statue a Ninive per mano dell’ISIS, ci indigna l’abbandono dei beni culturali, ci scandalizza una foto-shock in un reportage di guerra. Ci scandalizza il gesto radicale di Blu che cancella le proprie opere dai muri bolognesi. Le immagini della Storia e dell’Arte non sono meno “calde” delle immagini della contemporaneità. Davvero possiamo dirci che la Storia è neutra, unica, universale?

Il potere delle immagini
C’è un filone di studi, nella storia dell’arte, relativo alla storia della ricezione delle opere e della reazione alle opere. In molti casi, ciò che viene trattato è la ricezione pacifica dell’opera d’arte: ci si limita a mettere a fuoco delle caratteristiche dell’opera solitamente lasciate da parte, cioè quei meccanismi che la fanno interagire col contesto per il quale è stata prodotta. È il caso, per esempio, di John Shearman o di Rudolf Wittkower. Anche in questi casi, però, difficilmente si riesce a nascondere il fatto che l’interazione può non essere del tutto pacifica e conserva – com’è normale in ogni interazione – degli aspetti conflittuali. Basti pensare al caso del Perseo di Benvenuto Cellini, che finisce per incarnare uno scontro tra il Granduca Cosimo I de’ Medici e la passata esperienza della Repubblica fiorentina, e tra il Cellini e gli artisti che hanno popolato Piazza della Signoria con le loro statue in marmo, “pietrificate” dalla testa di medusa rivolta dal Perseo contro di loro. Eppure sappiamo che la Storia è piena di conflitti intorno alle opere d’arte: dall’iconoclastia bizantina dell’ottavo secolo d.C. a quella della Riforma protestante, dalle spoliazioni napoleoniche alle mostre di arte degenerata sotto il nazismo. Per non parlare poi dei vari episodi, anche molto frequenti nella contemporaneità, di opere d’arte sfregiate. Un testo piuttosto famoso di David Freedberg, Il potere delle immagini, si occupa esattamente di queste reazioni emotive alle opere d’arte, mentre, in un saggio del 2002, Bruno Latour metteva a fuoco il concetto di Iconoclash. Il fatto più interessante del saggio di Latour è che nel concetto di iconoclash, di “scontro sulle immagini”, rimetteva insieme due aspetti delle immagini solitamente occultati: la loro produzione e distruzione, costantemente implicate l’una nell’altra.

1974: Tony Shafrazi scrive a bomboletta KILL LIES ALL su Guernica di Picasso. Commenta: 'Ho voluto portare l’arte nell'attualità assoluta, per recuperarla dalla storia dell’arte e darle vita. Forse è per questo che rimane difficile confrontarsi con l’azione di Guernica. Ho provato a trapassare quella barriera invisibile che a nessuno è concesso attraversare; volevo espandermi nell’atto della creazione artistica, rimanere invischiato nel creare l’opera, mettere la mia mano in essa e attraverso quell’atto incoraggiare il visitatore individuale a sfidarla, ad averci a che fare e perciò vederla nel suo stato crudo, dinamico, così come è stata fatta, non come un pezzo di storia.'

La storia dell’arte è una storia di iconoclash
Il pregio del concetto di iconoclash è che permette di pensare che tutta la storia dell’arte può essere letta come l’insieme di percorsi molteplici, costellati da esitazioni sulla legittimità dell’esistenza delle immagini. Una storia dell’arte, insomma, che tenga conto del rischio che il patrimonio culturale possa non esistere. Nella mostra curata da Latour, le opere erano raggruppate secondo tre nuclei tematici: immagini religiose, scientifiche, arte contemporanea. Il nesso con una diversa prassi della storia dell’arte può essere verificato subito con un esempio. Qualche anno fa è uscito per Einaudi Mappe un libro di Carmelo Occhipinti sull’arte europea del secondo Cinquecento. Nell’introduzione, l’autore annuncia di voler leggere il periodo storico cui fa riferimento esclusivamente con le fonti dell’epoca ed evitando interferenze col presente. Ma a un certo punto la contraddizione di questo universalismo neutrale diventa evidente nel momento in cui prende, senza se e senza ma, le difese del papato contro gli iconoclasti. Ci sono due cose da notare.

La prima, è che si tratta di un’oggettività di facciata: selezionando soltanto il punto di vista storico-artistico in senso stretto, Occhipinti nasconde completamente le cause dell’iconoclastia cinquecentesca, trovandosi dunque a prendere posizione. La seconda, è che l’universalismo rivela la sua non neutralità: siccome le fonti non sono neutre, mimetizzarsi nelle fonti significa adottare il loro punto di vista; a sua volta, questo punto di vista si aggancia a un punto di vista che si pretende neutrale, ma è condizionato da una visione moderna del patrimonio culturale, che giustifica l’azione repressiva del papato dalla prospettiva (moderna, appunto) della salvaguardia a ogni costo del patrimonio culturale, persino in un momento di evidente iconoclash, in cui la sopravvivenza del patrimonio è oggetto di discussione. Su questo progetto di conservazione impossibile, Raffaele Alberto Ventura ha già scritto un lungo articolo, con particolare attenzione alla legislazione internazionale sul diritto di guerra in materia, e domandandosi: “E se i “nuovi conflitti” segnassero piuttosto la fine di una breve parentesi, caratterizzata dal diritto di guerra novecentesco e dalle sue illusioni? Questa parentesi, ci pare, ha coinciso con il disconoscimento della stretta interdipendenza tra la produzione artistica e la storicità dell’esistenza umana. Che l’arte e la cultura siano politicamente neutre – e che possano essere considerate militarmente neutrali – è il principio da cui muovono i numerosi trattati internazionali che, nel corso del Novecento, ne fissano lo statuto; per non parlare dell’idea di un patrimonio universale talmente neutro da appartenere all’umanità intera, sviluppatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale.”

Parte della genealogia dell'arte contemporanea secondo George Maciunas. Guarda un po' cosa c'è lì.

Rifiuto del lavoro!
Ai temi individuati finora si potrebbe, anche con una leggera forzatura, aggiungere un altro fatto. Essendo le opere d’arte prodotti dell’esistenza umana, si può anche provare a tenere in conto che la loro produzione e distruzione è legata al lavoro e al sistema economico che le producono. Cosa ci impedisce di leggere la controversa realizzazione della Tomba di Giulio II da parte di Michelangelo come una trattativa sindacale lunga circa quarant’anni? Una trattativa che ha degli effetti rilevanti, se consideriamo che influì enormemente sulla forma finale adottata dal monumento. L’uccisione delle immagini potenziali può essere a sua volta letta come un iconoclash. Ogni volta che si è messo in questione il sistema della produzione artistica (nel Novecento, praticamente ogni giorno), si è prodotta un’aporia sull’oggetto artistico, una spada di Damocle che ricorda l’eventualità della distruzione sua e del concetto stesso di “arte” per come l’ha formulato la modernità. Dall’altro lato, questo concetto di arte – nel tentativo di tenere insieme la produzione contemporanea con quella del passato – si fonda su un ricatto dell’opera verso la comunità che l’ha prodotta, tra l’ineluttabilità della propria presenza e l’eventualità della sua distruzione.

Non tutte le distruzioni vengono per nuocere, quindi? Non esattamente: si tratta più che altro di mostrare come il ciclo di produzione e distruzione sia consustanziale a più livelli all'opera d’arte, e al patrimonio culturale in generale.

La perdita dell’aura che Benjamin indicava (e più che altro auspicava) nell’avvento della riproducibilità tecnica dell’arte ha complicato la situazione, più che risolverla: estendendo la storia dell’arte alla storia della cultura materiale, ogni oggetto – anche di produzione industriale – può diventare oggetto di feticismo estetico o storico, e più che con un’aura distrutta abbiamo a che fare con un’aura continuamente ri-prodotta e diffusa. Persino Duchamp ha dovuto piegare i propri ready-made all’aura resuscitata e tenuta in vita come un morto vivente dal mercato dell’arte[1]. Si spiegano bene i tentativi di sottrazione, di distruzione, di dichiarare defunta l’arte, definitivamente. Non tutte le distruzioni vengono per nuocere, quindi? Non esattamente: si tratta più che altro di mostrare come il ciclo di produzione e distruzione sia consustanziale a più livelli all’opera d’arte, e al patrimonio culturale in generale, anche nell’epoca in cui più si è cercato di negare l’eventualità della sua distruzione. L’attentato di Duchamp al lavoro artistico non è l’unico precedente dell’azione di Blu: si potrebbero citare moltissimi esempi, a parte il fatto che lo stesso Blu aveva già rimosso due sue opere a Berlino; penso anche alla grande operazione di sottrazione e rifiuto avvenuta con le proteste intorno alla Biennale di Venezia del 1968. Gastone Novelli, per l’occasione, scrive sul retro di una tela: “la Biennale è fascista”. Oggi la tela è in collezione Prada. Appunto. Non è detto che la sottrazione funzioni in eterno, e come per i ready-made di Duchamp, può arrivare il momento in cui il gesto viene cristallizzato, storicizzato e incamerato.

Ottobre 1972 - dicembre 1973, mostra Reality-Realism-Reality. Tra le opere esposte, Badewanne di Joseph Beuys: una piccola vasca da bagno che l’artista aveva utilizzato durante l’infanzia, valorizzata da alcuni oggetti evocativi - cerotti e garze impregnate di grasso. A mostra conclusa, le opere vengono restituite al collezionista pesantemente danneggiate: Badewanne è privata dei cerotti e delle garze. Partono le indagini, che ricostruiscono l'accaduto: il castello di Morsbroich, una delle sedi della mostra, viene affittato il 3 novembre del 1973 come location per un convegno della sezione locale dell'SPD. In questa occasione, Badewanne viene utilizzata per tenere in fresco le bottiglie di birra e per pulire i bicchieri a fine serata. Beuys commenta: 'Le persone prendono questi oggetti in maniera molto diversa a seconda che essi siano collezionisti, curatori o mercanti, ad esempio. Ognuno può fare quello che gli pare. Una volta che hanno lasciato le mie mani, sono liberi.'

Potlatch: lo brucio perché il dono è nel gesto
L’azione di Blu quindi è completamente interna al discorso artistico contemporaneo: ne fa emergere, se vogliamo, l’aspetto più contraddittorio, che è la sottotraccia di tutta la storia dell’arte ma che arriva a punte di acutissimo paradosso proprio nella nostra contemporaneità. Invochiamo continuamente la conservazione e la tutela della tradizione, invochiamo gli sforzi di resuscitare quella tradizione nella valorizzazione, ma non ci accorgiamo che la posizione e la situazione di ogni oggetto sono l’effetto di una scelta che necessariamente sacrifica qualcosa. Il fatto che gli artisti si scontrino con l’establishment è dovuto contemporaneamente a una rivendicazione professionale e all’idea che l’opera possa morire anche senza essere distrutta come nel caso in cui viene sottratta al suo contesto. C’è chi ha contestato a Blu la richiesta di cachet stellari per la realizzazione dell’opera murale per la Tate Modern, o la collusione col sistema dell’arte contemporanea attraverso la partecipazione a mostre.

Ci sono due elementi che vanno tenuti in conto. Il primo, è che naturalmente non ci troviamo di fronte a una radicale (quanto fallimentare) critica tout court al lavoro artistico come quella che aveva messo in piedi Duchamp, ma a una differenziazione del lavoro secondo la destinazione. Le opere bolognesi “selvagge” sono opere di Blu donate, o al limite realizzate a rimborso spese, perché destinate alla città o agli spazi sociali che la abitano, spesso con l’intenzione di difendere questi ultimi sfruttando la sacralità (l’aura) dell’oggetto artistico. Alle grandi gallerie e ai grandi committenti, Blu chiede giustamente una retribuzione adeguata – non soltanto alle proprie competenze ma alle tasche di chi commissiona. Il secondo, che la licenza creative commons – che Blu usa per esempio per i video delle sue realizzazioni – lascia liberi di copiare, distribuire e mostrare l’opera esclusivamente a fini non commerciali. Per gli usi commerciali, invece, bisogna chiedere il permesso all’artista.

carico il video...
E lui, anche lui è un artista? No.

A chi pensa che sia giusto il contrario, che Blu è ipocrita perché non rinuncia alla responsabilità artistica sulla propria opera, che è ancora preso nella trappola della soggettività autoriale e che il suo sarebbe un gesto narcisista di sottrazione dei suoi doni alla cittadinanza, consiglierei di pensare a come smantellare il mercato artistico nel suo complesso, che si regge interamente sulle firme e sulle responsabilità autoriali. Compresa la mostra Banksy & Co., che di quei nomi si nutre, per di più espropriandoli, e senza chiedere il permesso agli artisti né alla città. Blu si è limitato a differenziare la destinazione delle proprie opere e gli usi che possono esserne fatti, a distinguere due diverse economie – una del dono, l’altra di mercato – e a rimarcare questa distinzione attraverso la scelta in un iconoclash: scelta non neutra, che agisce dove più fa male, ovvero nel grande rimosso della distruzione del patrimonio culturale. Ci sarebbe inoltre, a proposito di cittadinanza e di comunità di riferimento, un altro aspetto da notare[2]. Blu ha cancellato le opere che aveva donato alla città. Esattamente come in un potlatch, elimina fisicamente il dono per rimarcare che il suo valore sta più nel gesto della donazione che nell’oggetto donato. E il gesto è di segno opposto a quello della mostra Banksy & Co. Nel rimarcarlo, probabilmente, Blu è anche meno distruttivo, anche se non meno violento.

 

[1]      Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp et le refus du travail: suivi de Misère de la sociologie (Paris: Les Prairies ordinaires, 2014), trad. it. Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, a cura di Duccio Scotini e Cosimo Lisi (Milano: Temporale, 2014), pp. 45-49.

[2]      Ringrazio Carla Panico per avermi fatto notare la somiglianza.

Enrico Gullo
Nasce a Palermo nel 1990, studia storia dell'arte a Pisa e come tutti i comunisti dei centri sociali è fuori corso. Da grande non vuole fare niente, che già vivere gli fa fatica.

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