Godfather è il nuovo album del padrino del grime. Ritratto dell'uomo a cui si deve “la più importante innovazione della musica inglese dai tempi del punk”.
Wiley non è uno da rimanere lontano dalle cronache musicali per troppo tempo. Al contrario, è sempre stato un tipo prolifico, al punto che stargli dietro è faccenda impervia persino per il più accanito dei fan. Per dire, del suo ultimo album Godfather si è cominciato a parlare già dall’estate scorsa, mentre quello precedente, Snakes & Ladders, risale a non tantissimo tempo fa (è della fine del 2014). In tutto, in poco più di un decennio di attività discografica vera e propria, il rapper inglese ha pubblicato 11 album, 13 mixtape, e un’imprecisata quantità di materiale scaricabile in solo formato digitale: è oggettivamente un sacco di roba. Eppure la retorica attorno all’uscita di Godfather è stata esplicita nell’adeguarsi a uno dei più classici topoi della mitologia pop: quello del “grande ritorno”.
“Lunga vita al Re”, ha titolato il NME in copertina, sottolineando come “la leggenda del grime è tornata per reclamare il genere che ha inventato”. A Godfather, il Guardian ha dedicato non una ma due recensioni, corredate da uno speciale che ripercorre cinque momenti-chiave nella carriera di un uomo a cui nel 2015 è stata pure dedicata una speciale targa posta all’ingresso della sua vecchia scuola (tempo fa girava anche una petizione che proponeva di erigere a Wiley direttamente una statua). Persino gli MC che fanno capolino tra una traccia e l’altra dell’album – Skepta, JME, Flowdan, Ghetts, Devlin… – sembrano stare lì non in qualità di ospiti ma di officianti di un rito, come a rendere omaggio all’indiscusso maestro del genere che ancora il Guardian ha definito “UK’s most invigorating and polemical musical innovation since punk”. E poi c’è ovviamente quel titolo, Godfather, che ribadisce una volta per tutte che stiamo parlando del padrino: di un genere musicale, certo, ma anche di tutta una narrazione che quel genere lo accompagna sin dagli albori.
Insomma, c’è poco da fare: se dici Wiley, dici grime. E adesso che il grime è tornato a eccitare l’immaginazione di ascoltatori e stampa specializzata, figuriamoci se non diventava tema caldo il nuovo album del tizio che del grime è l’epitome stessa, o meglio ancora dell’uomo che il grime l’ha inventato più o meno da solo – o almeno così vuole il mito. E va bene, come tutti i miti anche quello di Wiley non è esente da distorsioni ed esagerazioni belle e buone: quando si parla di generi musicali, è sempre impossibile stabilire diritti di primogenitura e decidere una volta per tutte “chi ha inventato cosa”. Ma tocca anche ammettere che, nel caso di Wiley, è un mito che per una volta rischia di non allontanarsi troppo dalla realtà.
Se dici Wiley dici grime, dunque. Il che, alle nostre latitudini, non spiega né i titoli del NME, né le targhe all’entrata di scuola, né le le statue, né tantomeno l’abusatissimo ricorso alla categoria del mito. In effetti, per essere “l’innovazione musicale inglese più eccitante dai tempi del punk”, il grime resta un fenomeno dall’impatto circoscritto quasi esclusivamente oltremanica, almeno fino a tempi recentissimi. È per intenderci una storia tutta inglese, o meglio ancora londinese: prende forma a inizi anni 2000 come ultimo anello di quella catena che va sotto il nome di hardcore continuum, ed è uno strano e originalissimo incrocio tra rap e i generi che di quel continuum hanno scandito le tappe – la jungle, il drum & bass, la UK garage, il 2 step.
A dirla tutta, lo stesso accostamento tra grime e “rap all’americana” suonerebbe come un anatema ai cultori del genere: di fatto, il grime è un parto di quella rave culture che si sviluppò a Londra da inizi anni 90 in poi, quando le gioiose tinte house della Second Summer of Love vennero spazzate via dalla cupezza darkside della primissima jungle. A sua volta, la jungle riannodava i fili con la sound system culture di origine caraibica che a Londra e dintorni aveva già generato quelle specie di proto-rave che furono i blues, le feste clandestine a base di dub e reggae. Ed è appunto al tipico toasting di impronta giamaicana che, del tutto naturalmente, si ispirarono i primi MC impegnati a “rappare” su basi jungle tra un rave e l’altro. Tra questi, già a metà anni 90, c’era un giovanissimo Wiley. Lo potete ascoltare (e vedere) in un breve frammento d’epoca qui:
“Senza la jungle non esisterebbe il grime”, ha ribadito Wiley in persona, ed è già questa una filiazione che dovrebbe fare piazza pulita di quel fraintendimento che riduce il grime a una “risposta inglese al rap americano”, con quel bizzarro accento cockney che sembra maldestramente fare il verso all’originale USA (che pure, a sua volta, trovò nel toasting giamaicano un precedente immediato, oltre che un’ispirazione). Semmai il parallelo più diretto resta quello, ancora tutto londinese, col dubstep: entrambi i generi presero forma più o meno negli stessi anni come esito e assieme superamento della diaspora rave che seguì ai trionfi commerciali della UK garage, con il suo immaginario tutto champagne e vestiti firmati; ed entrambi furono suoni risolutamente e orgogliosamente di periferia, nati tra i panorami distopico-brutalisti dei council estates, e che tradivano un fortissimo legame identitario coi rispettivi luoghi di provenienza: South London – con epicentro l’area di Croydon – per il dubstep, East London – in particolare il distretto di Bow, codice postale E3 – per il grime.
Ma se il dubstep era ombroso, quasi pensoso, striato di un’inquietudine adagiata su dei 140 battiti per minuto che ancora sapevano di skunk, nel grime quegli stessi 140 BPM diventavano l’ossatura di un suono nervoso, aggressivo, più prossimo alle movenze tutte scatti di una gang di karateki psicopatici che alla minacciosa eleganza del suo cugino più a sud. Quel suono, il cui prototipo viene dai più individuato nella Pulse X di Youngstar/Musical Mob, Wiley lo immortala in una leggendaria traccia uscita in formato 12” nel luglio 2002: “Eskimo”. Fredda e tutta angoli cauti, minimale al limite della più spartana essenzialità, “Eskimo” è nulla più che una scheletrica architettura che pare concepita in un videogioco andato in crash e ambientato tra i ghiacci di un improbabile Oriente techno-medievale spazzato dal blizzard: nient’altro che un rudimentale, ultrastilizzato riddim interamente strumentale, che però – ricorda chi c’era – rappresentò per una scena che ancora non era tale il proverbiale gamechanger.
La consacrazione di Wiley come rapper ed MC, e l’attenzione che comprensibilmente ha preso a concentrarsi sui suoi versi e la sua figura pubblica, hanno forse un po’ oscurato l’importanza del Wiley producer e artefice del cosiddetto eskibeat, che poi è la sua peculiare versione dell’originario suono grime. Ma la verità è che con tracce come “Eskimo” e i suoi strumentali a tema “artico” (i vari “Igloo”, “Ice Rink”, “Frostbite”, “Avalanche” eccetera), il Godfather of Grime ha messo la firma su nientemeno che una delle ultime, grandi innovazioni stilistiche del suono elettronico tutto. Lo si è capito soprattutto negli ultimi anni, quando la cosiddetta new wave of instrumental grime è ripartita proprio dalle atmosfere gelide e ultrasincopate del primissimo Wiley per ipotizzare alcune delle traiettorie che più stanno caratterizzando l’attuale estetica hi-tech: produttori d’avanguardia come Logos e Mumdance devono a Wiley non dico tutto ma quasi, ed echi eski li ritroviamo persino nelle concettosità molto artsy di una Fatima Al Qadiri.
Certo, il suono di quei primi 12” usciti tra 2002 e 2003 era rozzo, lo-fi, minimale più per necessità che per scelta: ma anche questo si rivelò funzionale a una vera e propria epica grime che raccontava di basi fatte con la PlayStation, suonerie di cellulari antidiluviani, beat appiccicati alla bell’e meglio con versioni crackate di Fruity Loops (il cui tempo di default era, guarda caso, 140 BPM), radio pirata, tute sportive Akademik, ed MC che rappavano in un incomprensibile patois improvvisando acrobazie degne di un incontro di kung fu – o di una partita di Mortal Kombat, che è meglio.
Non che il grime fosse esattamente un gioco: come ricorda Crazy Titch, autore di un classico hardcore come “I Can C U” e forse la figura più drammatica tra i prime movers della scena (nel 2005 fu condannato all’ergastolo per omicidio), “grime is about aggression, anger and pain”. Per il padre di Wiley, la musica di suo figlio è nata “in un posto brutto: accoltellamenti, rapine, sparatorie, ragazzini che spacciano, genitori cattivi”. Il curriculum dello stesso Wiley prevede un passato da spacciatore e una ventina di coltellate subite (su quelle inflitte, lui non si sbilancia) i cui segni sono tuttora visibili – e non solo dal punto di vista spirituale. In questo, la biografia di Wiley è simile a quella di numerosissimi altri protagonisti della prima ondata grime, e in qualche misura ne certifica l’appartenenza a una comunità dai principi molto precisi e connotati, come a questo punto si sarà capito.
Ma le vicende personali e brani come “Eskimo” ancora non bastano a spiegare quel nomignolo, godfather, né la reverenza che la (quasi) totalità della comunità continua a dimostrare nei suoi confronti. D’accordo, già prima del 2002 Wiley si era trovato al centro di alcuni dei più importanti snodi per quello che sarebbe arrivato poi: abbiamo visto che negli anni 90 era stato un protagonista attivo della scena jungle; nel 2001 sarà invece tra i membri della crew Pay As You Go, considerata un momento di passaggio cruciale tra ultimi fuochi UK garage e nascita del grime per come oggi lo conosciamo; subito dopo Wiley fonda un’altra crew, la Roll Deep, tra i cui ranghi militano futuri pesi massimi come Tinchy Stryder e soprattutto un giovanissimo Dizze Rascal; e se è vero che, un po’ beffardamente, è proprio a quest’ultimo che si deve il primo album importante della scena (il capolavoro Boy In Da Corner del 2003), è altrettanto vero che Wiley risponde già nel 2004 con Treddin’ On Thin Ice, un disco forse non dirompente come quello del suo ex protetto, ma pur sempre classico tra i classici di un’era.
Insomma, sottovalutare il peso di Wiley nelle dinamiche e nell’evoluzione di un genere di cui è protagonista dalla primissima ora, più che impossibile sarebbe demenziale. Eppure è di nuovo altrove che bisogna guardare se si vuole comprendere la pura e semplice devozione che ancora lo circonda. Per arrivarci, prendiamo qualche passaggio da This Is Grime, il libro di Hattie Collins uscito appena l’anno scorso che, attraverso testimonianze raccolte dalla viva voce dei protagonisti della scena, prova a fornire una prima storia orale di quella vicenda nata a East London oramai quindici anni fa.
Le testimonianze che riguardano Wiley sono com’è ovvio numerose, ma più che il numero a colpire è il tono, che oscilla perennemente tra l’iperbole e l’idolatria pura. Per la giornalista Chantelle Fiddy “il suo cervello non è umano”. Per un altro prime mover come Kano, “è un pazzo, un vero visionario”. Per Ghetts, “è una leggenda nel verso senso del termine”. E poi, ancora: “la sua mente è incredibile” (Slan Anderson); “è lo Steven Gerrard [il fuoriclasse del Liverpool, ndr] del grime” (Danny Weed); “non conosco nessuno al suo livello. È il migliore” (Dj Target); “è l’incarnazione della scena” (Mikey J). Ma soprattutto: “se non fosse per lui, nessuno di noi sarebbe qui” (Riko Dan); “il modo in cui ha creato e modellato le crew e in cui ha insegnato alla gente un’etica del lavoro, ha ispirato un sacco di persone” (JME); “è la ragione per cui siamo tutti qui, punto” (Scratchy).
Wiley quindi non è tanto quello che ha “inventato il grime”. È quello che l’ha fatto accadere. Prima ancora che a un suono, ha dato forma a una comunità: scoprendo talenti, incoraggiando i colleghi, dando una mano a chiunque dal suo punto di vista meritasse un briciolo di visibilità, e in generale spendendosi per una causa che pure egli stesso ha tradito a più riprese (ci arriveremo). JME ricorda come Wiley “ha sempre voluto aiutare tutti, a volte anche rimettendoci in prima persona”, e la prova più eclatante di questo spirito missionario sono i due nomi che, a torto o a ragione, hanno finito per incarnare passato e futuro del grime, ovvero Dizzee Rascal e Skepta. Entrambi in qualche misura allevati dall’autore di “Eskimo”, il primo ha sempre rifiutato la qualifica di allievo per rivendicare un’autonomia orgogliosa e sincera, il secondo (che è tra l’altro in giro da una decina d’anni, e quindi proprio un novello non è) non ha al contrario mai smesso di pagare tributo al suo mentore e scopritore.
Wiley d’altronde sarà pure noto per i suoi atteggiamenti bizzarri e per il rapporto conflittuale che da sempre intrattiene con l’industria discografica; ma per essere uno che ha intitolato il suo ultimo disco Godfather, è anche un tipo inusitatamente… ma sì, modesto. Ancora oggi, anziché – come suggerisce il NME – rivendicare un ruolo da venerato maestro, preferisce felicitarsi per il successo che stanno conoscendo i giovanissimi emersi dalla scena negli ultimi tre anni; ringrazia colleghi come JME per aver tenuto acceso la fiaccola del grime in anni in cui il grime sembrava non interessare quasi più a nessuno; quando The Fader gli chiede qual è il traguardo più grande raggiunto nella sua carriera, lui risponde “il successo di Skepta”; e nell’annunciare che Godfather sarà il suo ultimo album (fino a prossima smentita, si intende), afferma senza troppi patemi che il testimone è ormai passato alla “next generation”, perché “i giovani hanno i loro eroi” e questi adesso si chiamano Stormzy e Lady Lashurr. Diciamo che è un tipo a cui piace minimizzare.
Atteggiamenti del genere – oltre all’indubbio ruolo nella creazione e affermazione della comunità di cui sopra – sono anche quelli che gli hanno permesso di restare relativamente immune da critiche nei suoi periodi di cedimento commerciale e conseguente “tradimento della causa”. Va bene, va anche detto che la causa per qualche tempo se l’è passata male: più o meno attorno al 2007-2008, la fama del grime come genere “violento”, le guerre tra bande interne alla scena (o postcode warfare, per restare al lessico locale), la crescente criminalizzazione da parte di stampa e politica ufficiale, e un generale calo di creatività unito all’allontanamento di molti protagonisti dai codici originari, hanno portato a quello che è generalmente considerato il periodo più buio dell’epopea grime, prima che la rinascita degli ultimi anni sfociasse nel provvidenziale rilancio.
Wiley non è certo stato l’unico tra i pionieri del grime a tentare la carta del pop, e ogni tanto gli ha pure detto bene: singoli come “Wearing My Rolex” del 2008 e la cafonissima “Heatwave” del 2012 sono stati in patria incredibili successi di classifica, e quantomeno il padrino avrà avuto modo si sfamare come si deve sua figlia (che è la motivazione ufficiale che Wiley ha fornito per le sue prove più mainstream: vedete, è anche un uomo di famiglia). Ma bisogna anche dire che per ogni “Heatwave” c’è sempre stata almeno una “Flying”, micidiale staffilata electro virata UK uscita ad agosto 2013.
Certo, nel momento in cui scrivo il video ufficiale di “Flying” conta in tutto 167.918 visualizzazioni. Quello di “Heatwave”, oltre 19 milioni. Ma nel 2013 la rinascita grime era ancora in divenire, Skepta non aveva ancora fatto uscire “Shutdown”, e Drake e Kanye West non si atteggiavano a estimatori del genere in un misto di malcelato paternalismo, gusto per l’esotico e interesse sincero (almeno si spera). È anche il motivo per cui, almeno credo, un disco tutto tranne che accomodante come il penultimo Snakes & Ladders è passato più o meno in sordina, almeno a confronto del nuovo Godfather. Che è il disco del “grande ritorno” di un tipo che non se ne è mai andato, quindi “Lunga Vita al Re”: il futuro apparterrà magari ai vari Stormzy e Novelist, ma almeno per il presente il Padrino c’è.
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, ha scritto tanto in giro. Il suo libro "Superonda - Storia segreta della musica italiana" è uscito per Baldini & Castoldi nel 2016.