Il padre della saga di culto Monkey Island è tornato con Thimbleweed Park, un giallo che ammicca ai tempi d'oro dei punta-e-clicca LucasArts e rilancia il genere degli adventure vecchia scuola.
Vista la sua dipendenza dai progressi e dai virtuosismi della tecnologia, la decima arte – i videogiochi – sembrerebbe quella più attrezzata e incline al cambiamento. Almeno in superficie.
Ad un esame più approfondito, invece, lo scenario muta: dal retrogaming (ormai tanto popolare da aver reso il NES Classic Mini un bestseller) al culto degli arcade, passando per le riedizioni dei classici e la moda del vintage, è evidente come vi sia una fetta di mercato ben diversa dagli stereotipi dei tecnofili. Si tratta di un pubblico nostalgico, affezionato ai fasti di un passato in cui la fisionomia dell’industria videoludica era assai differente.
Nel corso degli ultimi dieci anni tale pubblico ha prima mantenuto in vita, e poi riportato in auge, molte tipologie di giochi ritenute a lungo obsolete. Il caso più interessante è quello dell’avventura grafica: amatissima tra gli anni ’80 e i primi ’90 e successivamente oscurata da generi più dinamici, è sopravvissuta fino ai giorni nostri non solo grazie ai giocatori della vecchia guardia, ma anche alle nuove generazioni che l’hanno ripescata tra le pieghe del web e, in alcuni casi, revisitata. Del resto, i suoi grandi protagonisti non erano certo scomparsi: uno su tutti, il Tim Schafer di Day of the Tentacle e Grim Fandango, forse oggi più noto per Psychonauts e Brütal Legend, che con la sua Double Fine ha compiuto operazioni archeologiche anche audaci.
Molti si saranno invece domandati le ragioni del lungo silenzio di Ron Gilbert, ex pilastro della LucasArts cui si deve Monkey Island, pietra miliare dell’adventure nonché forse il titolo più celebre in assoluto. Cos’è successo a lui e al genere cui ha dato un contributo così fondamentale?
Prima di rispondere a questa domanda, sarà utile fare una sintesi della storia del genere: l’avventura grafica matura a partire dalla metà degli anni ’80, giungendo all’apogeo nel corso del decennio successivo grazie soprattutto alla prolifica Sierra e all’eterna seconda (per cifre) LucasArts (ma non soltanto: penso alla Revolution Software di Broken Sword, a Westwood Studios, a Discworld della Psygnosis…). Il capolavoro di Tim Schafer, Grim Fandango (1997) ne rappresenta indubbiamente uno dei massimi vertici, ma al contempo segna l’inizio di un inesorabile declino. Nei primi anni Zero le principali concorrenti hanno abbandonato il campo e il genere sembra essere caduto in un sonno profondo, relegato nella soffitta dell’indie a basso budget (tra le poche eccezioni, l’ottimo Syberia della Microids). È come se l’industria videoludica avesse completamente smarrito la fiducia nell’intelligenza dei giocatori. L’adventure, in effetti, non premia la prontezza di riflessi o la rapidità delle dita. Servono ingegno, immaginazione, capacità logiche. Muovendo il cursore accompagni l’avatar attraverso varie schermate; puoi dialogare con altri personaggi, esplorare le ambientazioni, scoprirne i segreti e raccogliere oggetti. Gli oggetti così raccolti possono essere recuperati, manipolati e in certi casi combinati tramite l’inventario. Scopo fondamentale del gioco è mandare avanti la storia tramite la risoluzione di enigmi.
Nel 2004 Kevin Bruner, Dan Connors e Troy Molander, tre transfughi della Lucas, fondano la Telltale Games e raccolgono la sfida improba di infondere nuova vita in un corpo (quasi) esanime. Acquistano le licenze di due franchising Lucas molto cari al pubblico, rispettivamente Sam & Max e Monkey Island, ed escogitano una pubblicazione periodica che scandisca i giochi in “episodi” e “serie”, scimmiottando il medium televisivo; la narrazione episodica e i franchising celebri diventeranno i loro marchi di fabbrica. Già da Sam & Max: Season One (2006-2007) e Tales of Monkey Island (2009) la svolta narrativa è evidente. La lunghezza dei dialoghi, la sapiente costruzione dei personaggi e la tessitura della trama tradiscono un’attenzione primaria per il racconto, come il nome stesso dell’azienda dichiara.
Nel 2012 la rivoluzione si compie: esce The Walking Dead, dove gli enigmi decadono definitivamente per far strada all’avventura narrativa, sebbene declinata in modo del tutto personale. La formula, che l’azienda battezzerà “Telltale Story”, vede il giocatore sempre a un bivio, sul filo del rasoio di drammatiche scelte “a tempo”, e implementa sequenze action da risolvere con quick-time events. Il successo della serie consente alla Telltale di raggiungere il grande pubblico e di dedicarsi all’elaborazione del suo nuovo genere.
Gli esordi
Ma facciamo un passo indietro. Prima del punta-e-clicca viene l’avventura testuale, dove la narrazione fluisce interamente attraverso il testo e il giocatore impartisce i comandi con la tastiera. Il programma, denominato parser, impone di digitare i nomi dell’azione e dell’oggetto scelti. Il primato va a Colossal Cave Adventure (1976), ma è Zork della Infocom a sdoganare il genere nel 1979. Il panorama videoludico degli anni ’80 non è ancora dominato dalle grandi multinazionali, ma brulica di idee brillanti e piccole realtà; in questo humus fertile nasce la fortunata Sierra (poi Sierra On-Line), fondata letteralmente in cucina da una coppia di coniugi. La Sierra compie il passo ulteriore: accosta al testo l’immagine. Nel 1984 pubblica King’s Quest, storia di dame e cavalieri che, oltre a dare un volto all’azienda, segna la nascita dell’avventura grafica come la conosciamo oggi. Il gioco catturerà l’attenzione di un futuro dipendente della LucasArts: Ron Gilbert.
Nato il 1 gennaio 1964 sotto il segno della grafica, al college scrive un’estensione al linguaggio Basic – Graphic Basic – che permette di accedere al comparto grafico del Commodore 64, altrimenti blindato. La vende ad un’azienda che gli offre un impiego e fallisce nel giro di sei mesi. Dopodiché abbandona la California per tornarsene nel natio Oregon. Si appresta a riprendere gli studi quando riceve una telefonata nientemeno che dalla LucasFilm: sono alla ricerca di un programmatore per Commodore 64. Gilbert non se lo fa ripetere due volte e torna di corsa in California. Inutile dirlo, è assunto. Gilbert lavora come programmatore a Koronis Rift, uno strategico, e PHM Pegasus, un gioco d’azione. Il programmatore degli albori è un po’ un tuttofare: non si limita all’area di sua competenza, ma scrive soggetti, sceneggiature, cura il design e gli aspetti grafici. Lui non è da meno, e non è mai stato un gregario: desidera cimentarsi col design. Nel 1985 scrive una sceneggiatura, I was a teenage lobot, la storia di un adolescente la cui mente viene impiantata in un automa, recentemente pubblicata sul suo blog. Il progetto viene cestinato. A contatto con Gary Winnick, grafico della Lucas e suo intimo amico, Gilbert elabora una nuova idea. I due condividono la passione per il cinema horror, specie per pellicole come Reanimator, La mosca e Creepshow: vogliono raccontare la storia di un gruppo di adolescenti intrappolati in una casa sinistra e mortifera. Il soggetto c’è, è il gioco a mancare. Gilbert sta meditando su come realizzarlo quando, in pausa per le vacanze natalizie, vede suo cugino giocare a King’s Quest.
È una folgorazione. Gilbert non pensava di fare del suo horror un’avventura narrativa. In primis perché l’immagine è indispensabile; poi perché lui detesta il parser, lo trova noioso e ridondante, e lo spelling non è certo il suo forte. Bisogna a tutti i costi eliminare quell’ingombrante intermediario e portare il giocatore a interagire direttamente con la grafica. Serve una nuova interfaccia. Qualcosa di simile è già stato messo a punto per Labyrinth, la prima avventura LucasArts ora in cantiere. Così, Gilbert individua i verbi più utilizzati negli adventure (“aprire”, “raccogliere”, parlare”…) e li dispone nella parte inferiore dello schermo, con l’inventario a destra; il personaggio si muove in quella superiore. È sufficiente selezionare le azioni e gli oggetti desiderati col cursore per interagirvi.
Lo scatto in avanti richiede un’ulteriore innovazione. Scrivere Maniac Mansion direttamente in assembly (molto vicino al linguaggio macchina) si rivela un’impresa ai limiti del possibile per via della densità di contenuti del gioco. Gilbert si rimbocca le maniche e, con l’aiuto di Chip Morningstar, comincia a lavorare all’ambiente di sviluppo e all’engine SCUMM (“Script Utilities for Maniac Mansion”). Il sistema gli costa due anni di duro lavoro, ma rappresenterà lo standard per oltre sette anni a venire.
Maniac Mansion esce nel 1987 per Commodore 64, Apple e DOS, con un’accoglienza più che positiva. Il gioco si ambienta nella casa degli Edison, dove vive e prospera il Dr Fred Edison con moglie e figlio al seguito. Lo schianto di una cometa in cortile muta il dottore in uno scienziato pazzo, dedito a macabri esperimenti sul cervello umano. Quando Edison rapisce la giovane Sandy, il suo ragazzo Dave irrompe in casa Edison nel tentativo di salvarla.
La trama è succinta, la caratterizzazione dei personaggi scarna. La forza del gioco sta nell’atmosfera, surreale e sinistra, ma soprattutto nell’innovazione, nelle trovate brillanti: il maniero ha più di venti stanze; gli oggetti abbondano; i personaggi giocabili sono sette, ciascuno dotato di caratteristiche proprie da utilizzare in modo differente. Gli enigmi sono vari, impegnativi, talora astrusi e richiedono spesso una tempistica perfetta (gli eventi del gioco sono scanditi da un timer interno). Scompaiono il narratore e i lunghi dialoghi tipici delle avventure precedenti. La varietà di tempo e luogo viene sacrificata a beneficio dell’approfondimento di un singolo ambiente e di una narrazione concisa.
Pur essendo un titolo epocale, le sue pecche sono molteplici: gli enigmi troppo arbitrari e cervellotici, i vicoli ciechi, la difficoltà decisamente elevata. È Gilbert stesso a fare il mea culpa in un articolo ormai celebre, Why adventure games suck, pubblicato su The Journal of Computer Game Design nel 1989. Tra le sue pagine, Gilbert depreca molte caratteristiche tipiche soprattutto dei prodotti della concorrente, Sierra: il giocatore muore troppo spesso ed è costretto a salvare continuamente; la difficoltà ai limiti del sadismo rende i giochi più longevi ma troppo ostici, a spese del divertimento. L’articolo, più che un j’accuse, è un vero e proprio manifesto; è l’adventure secondo Gilbert, fissa le caratteristiche del gioco ideale.
La prerogativa assoluta è preservare la sospensione dell’incredulità, quel particolare stato di grazia in cui si dimentica la realtà per farsi assorbire dal mondo di gioco. Ecco dunque le regole auree: in primo luogo, chiarezza. L’obiettivo finale dev’essere definito, il giocatore non va costretto a vagare alla cieca. Il gioco dovrebbe poter essere concluso senza morire, preservando la tensione e il fattore di rischio (purché i pericoli siano ben segnalati). Gli enigmi devono essere lineari, sensati, e poter essere risolti in ordine relativamente libero. È necessario che facciano avanzare la storia e gratifichino il giocatore in modo da spingerlo a proseguire la partita. Niente vicoli ciechi: nessun oggetto si riveli indispensabile, se non si può tornare indietro a riprenderlo. Meglio rinunciare a un timing interno e servirsi di tempistiche “hollywoodiane” (sic), con sezioni a tempo di più facile risoluzione. Un vero e proprio vademecum, come si vede, che non sarà destinato a rimanere su carta.
Il successo di Maniac Mansion consente alla Lucas di alzare l’asticella. Nel 1988 esce Zak MacCracken; Zak, giornalista di tabloid, deve salvare il mondo da alieni che instupidiscono la gente con trasmissioni radio. La paternità del gioco si deve a David Fox, che avrebbe voluto conferirgli un tono più sostenuto; il registro comico viene scelto invece da Gilbert, che ritiene l’umorismo più adeguato agli adventure. Dall’incontro di due visioni differenti emerge un prodotto interessante, intelligente ma scanzonato, e senza dubbio più maturo del precedente. Putroppo, Zak soffre ancora di una struttura troppo ondivaga e di una dispersività eccessiva del mondo di gioco. Insomma siamo ancora lontani dalle aspirazioni di Gilbert.
Il successo
Il 1990 è l’annus mirabilis della LucasArts Games. Brian Moriarty, ex programmatore di avventure testuali, realizza il bellissimo Loom (1990), primo capitolo di una trilogia fantasy rimasta incompiuta, anticipando per certi versi le moderne avventure narrative. Gilbert, dal canto suo, lavora a Secret of Monkey Island. È rimasto irretito dalle atmosfere dell’attrazione disneyana Pirates of the Caribbean e ha appena letto On Stranger Tides (1987) di Tim Power (cui si deve l’elemento del fantastico). L’idea è particolarmente felice: una storia di pirati degna di Stevenson che gioca con le convenzioni del genere, si prende in giro e non risparmia sberleffi nemmeno al giocatore. I personaggi godono di una caratterizzazione memorabile (la damsel in distress ha più risorse del protagonista), le gag sono strepitose e i dialoghi di un umorismo scoppiettante. Dopotutto, del comparto scrittori fa parte Tim Schafer (Grim Fandango, 1998), re indiscusso della comicità videoludica. Certe trovate (il celebre pollo di gomma con la carrucola in mezzo), certe battute (“Look behind you, a three-headed monkey!”) sono destinate a rimanere per sempre impresse nella memoria collettiva. La storia non serve da mero sfondo all’azione, ma è proprio parte integrante del design.
Secret of Monkey Island è costruito osservando pedissequamente le regole di Gilbert. Per la prima volta, il gioco si struttura in capitoli, in modo tale da consentire ampia libertà di movimento in ciascuna sezione e al contempo portare avanti la trama in modo lineare. La difficoltà non è eccessiva; una manciata d’ore è più che sufficiente a giungere alla conclusione. Gli enigmi sono di qualità a dir poco eccellente. Il titolo, insomma, possiede “la leggerezza e l’esattezza di un classico”. Per questo è sopravvissuto al tempo e gode di continue nuove infusioni nel fandom, omaggi e riedizioni: la Special Edition (uscita nel 2010 per PS3, Xbox 360, PC, Mac e dispositivi mobili) ne ha dimostrato la vitalità a distanza di vent’anni. Potrà sembrare poco, ma in termini videoludici è un’era.
Lo stesso, infaticabile team (con alcune componenti aggiuntive) comincia a lavorare al sequel prima ancora che la notizia del successo li raggiunga. Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge (1991) non ha nulla da invidiare al suo predecessore sul piano narrativo: ha una trama più articolata, un protagonista “evoluto” (Guybrush è ormai adulto, è un pirata a tutti gli effetti), un mondo ampio e connotato sin nei minimi dettagli. L’uso dello scanner consente di implementare i magnifici disegni di Steve Purcell e Peter Chan. I toni sono più cupi e oscuri. Il set di verbi è stato snellito e reso più agile. Stavolta sono previsti due livelli di difficoltà, e quello hardcore è veramente tosto soprattutto perché Gilbert gioca sporco, infrangendo più di una volta le premesse di linearità e sensatezza che si è posto. In compenso, gli enigmi sono più numerosi e di qualità sempre molto alta. Il gioco non gode forse del miracoloso equilibrio del suo predecessore, ma aggiunge qualcosa al discorso e, soprattutto, non si rassegna ad essere un semplice epigono, ma rilancia la posta.
Incredibilmente, proprio adesso che soffiano venti propizi Gilbert decide di abbandonare la nave. Un anno dopo lui e la collega Shelley Dave lasciano la Lucas per fondare una casa produttrice di giochi per bambini. Tra le varie esperienze post-Lucas, particolarmente degno di nota è il passaggio di Gilbert per la Double Fine di Tim Schafer: qui fa da consulente per un’operazione ambiziosa, il tentativo di creare un’avventura grafica “vecchio stile”: Broken Age (2015). Il progetto, finanziato tramite Kickstarter, raccoglie una pioggia di consensi, anche illustri (per dirne una, dei doppiatori fa parte Elijah Wood). Il risultato è interessante, ma non del tutto aderente alle aspettative.
L’industria videoludica, nel frattempo, è molto mutata. Il settore è cresciuto, il panorama è dominato da grosse software house e coinvolge ormai investimenti enormi, rendendo praticamente impossibile lavorare con piccoli team. Soprattutto, non consente di sperimentarsi. “Sapete,” dice Gilbert a Greg Kasavin, caporedattore di GameSpot, in un’intervista del giugno 2006, “il successo è al 90% fallimento e, se non hai l’opportunità di fallire, non potrai far niente d’interessante. Credo questo sia uno dei problemi attuali dell’industria videoludica – non c’è più spazio per quel fallimento, per provare cose nuove”.
Il ritorno: Thimbleweed Park
Gilbert, però, vuole riprovarci. L’unica strada libera da vincoli è quella già percorsa da Schafer; serve solo un passo diverso. Il 18 novembre del 2014 lui e Gary Winnick lanciano il loro progetto su Kickstarter: promettono un adventure “vecchia maniera” per i nostalgici, che serva al contempo da introduzione al genere per i neofiti. Si chiamerà Thimbleweed Park. Raggiunto e superato l’obiettivo prefisso, la coppia e la loro terribile scatola dei giochi (Terrible Toybox è il nome della loro compagnia indipendente) si mettono all’opera e documentano amorevolmente la realizzazione del gioco su un apposito blog.
Thimbleweed Park esce il 30 marzo del 2017. È una storia bizzarra, che ingrana lentamente: nel 1987 (anno d’uscita di Maniac Mansion) due agenti dell’FBI, Ray e Reyes, si recano nella desolata cittadina di Thimbleweed Park per indagare su un omicidio; gli sviluppi sono alquanto singolari. Tra gli abitanti, spiccano il locale magnate Chuck Edmund, fabbricante di cuscini; sua nipote Delores, aspirante programmatrice di videogiochi alla MmucasFlem (vi ricorda qualcuno?); il clown Ransome dalla parolaccia facile. La grafica è retrò, ma curatissima per cromatismi, animazioni, effetti visivi e luminosi. La colonna sonora è invece piuttosto sottotono, forse per scelta. Il gameplay è il solito meccanismo a orologeria: gli enigmi sono congegnati con l’inventiva, la chiarezza, l’onestà e il gusto del nonsense tipici di Gilbert, che solo occasionalmente pecca di sciatteria. Come in Maniac Mansion, vi sono diversi personaggi giocabili, ma la gustosa novità è che stavolta dovremo coordinarli e passare dall’uno all’altro al momento opportuno per progredire. Il gioco di rimbalzi funziona bene, escluse alcune sequenze decisamente farraginose.
Che c’è di nuovo sotto il sole? Anzi: cosa c’è di vecchio? Molto. Più delle meccaniche di gioco, più dei contenuti, è l’anima stessa di Thimbleweed Park ad essere smaccatamente nostalgica. Fioccano le citazioni (soprattutto di Maniac Mansion e, in misura minore, Monkey Island), le autocitazioni, i rimandi, persino i dettagli biografici degli autori: Delores è esplicitamente un “doppio” di Gilbert, che ad un certo punto ritroviamo pure tra i personaggi. Il giocatore non è invitato solo a sbirciare nell’officina del designer, ma a entrarci dentro (sorpresa: i backer del progetto sono tutti abitanti della cittadina – almeno sull’elenco telefonico!). Non si sfonda la quarta parete: si grida proprio che la quarta parete non esiste, sin dalle primissime battute: il cadavere non inizia a decomporsi, ma a “pixellarsi”. Sembra chiara la volontà di instaurare un dialogo col fruitore e coinvolgerlo attivamente nel processo creativo, proprio accordandogli quella fiducia che l’industria videoludica, coi suoi atteggiamenti paternalistici, gli ha spietatamente negato. Gilbert ci dimostra di saper realizzare un adventure classico ineccepibile nel 2017, cosa, di per sé, affatto scontata: il genere può sopravvivere senza necessariamente snaturarsi. Ma può sopravvivere senza guardare al passato? Al fatale quesito Gilbert non vuole rispondere: è troppo preso dalla magia dei ricordi. Sembra però dirci che l’epoca d’oro degli adventure è oggi più che mai lontana e i suoi cultori, lui incluso, vivono nel passato. Eppure, nel dircelo, compie un’operazione che solo un genere della maturità e della raffinatezza dell’adventure consentirebbe. In questa (potenzialmente infinita) successione di scatole cinesi il videogioco è forma d’arte e finestra sul mondo di dignità pari agli altri discorsi, e la vita stessa si fa gioco: il nostro margine di libertà d’azione sta nello spezzare il loop che ci costringe a rivivere gli stessi eventi partita dopo partita, radendo al suolo il mondo preconfezionato e costruendone uno nuovo tra i tanti possibili. Parafrasando Jacques in Come vi piace, potremmo dire che “tutto il mondo è gioco”. Forse dobbiamo cominciare a porre al videogioco nuove domande per ottenere risposte nuove.
Classe 1990. Laureata in lettere classiche, studia comparatistica, traduce e scrive per lavoro e per diletto. Tra i suoi interessi, il fumetto, il gaming e il femminismo da battaglia. Vive in Toscana, ma è spesso nomade per tutta Italia.