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Le rovine della civiltà industriale ci circondano e da anni definiscono l’estetica contemporanea, ma noi non ce ne accorgiamo. E i videogiochi non fanno eccezione.

Nel duello finale dell’ultimo Die Hard (2013), Bruce Willis si salvava dalle fiamme tuffandosi in quel che resta della piscina coperta di Pripjat, a un paio di chilometri dal reattore numero 4 di Chernobyl, dove le agenzie di viaggi organizzano anche safari radioattivi con tanto di contatore Geiger attaccato al collo. Un anno prima, l’isola di Hashima veniva replicata in Skyfall, dopo essere stata riscoperta da Yves Marchand e Romain Meffre (già autori di fotoreportage su Detroit) e candidata dal governo giapponese a un posto nel patrimonio Unesco. Qualche mese fa, poi, abbiamo visto ambientare una delle scene chiave di Gone Girl in un dead mall, mentre la piramide del Ryugyong Hotel (che non è più quella di una volta) ha fatto capolino in alcune scene di The Interview. In una delle ultime stagioni, persino Top Gear ha girato una sfida fra supercar in mezzo a un quartiere fantasma alla periferia di Madrid, di quelli costruiti prima che la grande festa speculativa finisse. Il tema tira così tanto che la redazione di Grantland, coprendo il lancio di Jurassic World, ha proposto anche un viaggio fra i parchi di divertimento abbandonati d’America che vengono trasformati in set per il cinema.

In mezzo a questa epifania di ruderi rappresentati, qualche settimana fa, proprio su queste pagine, mi sono imbattuto in una citazione di Rem Koolhaas, di quelle che uno pensa di essere l’unico a conoscere: «Abbiamo costruito più di tutte le generazioni precedenti messe insieme, eppure non rientriamo nello stesso metro di misura. Non lasciamo piramidi». Leggendola, mi sono sentito come quando, nel primo Uncharted, di fronte a Nathan Drake si palesa – a mezza montagna, incagliato sotto una cascata, in piena foresta Amazzonica – il rottame di un U-Boot nazista. Boom. Un segno del destino, e l’invito a (ri)provare a scrivere qualcosa sul legame fra rovine e videogiochi.

Una passeggiata fra le rovine
Ho deciso di studiare le rovine dell’epoca contemporanea una sera di febbraio del 2006, prima di dormire: è stato un affioramento mentale improvviso, dal fondo del fondo della memoria, emerso assieme ad altri detriti. Per esempio, io, da bambino, davanti alle dighe di calcestruzzo disabitate che chiudono le nostre valli alpine, misteriose come piramidi rovesciate piovute dallo spazio in un imprecisato prima di me. Oppure le colonie abbandonate del Duce a Riccione, a nord dei Bagni 137 e del parco con gli acquascivoli; i «Magazzini Turate», sventrati come dopo un’esplosione, che sfilavano a lato dell’autostrada Milano-Laghi quando con mio padre scendevo a San Siro per vedere il Milan degli Olandesi, secondo anello arancio. O, infine, le partite a Tomb Raider dell’estate 1996 con i miei compagni della squadra di calcio: Lara Croft che tocca la statua di Re Mida e diventa un lingottone con le tette.

Ho quindi occupato i tre anni successivi a fare scavenging fra biblioteche, siti internet e riviste, raccogliendo un catalogo con centinaia di oggetti, mentre vicino a me nascevano progetti come Incompiuto siciliano, i libri di Antonio Mocciola sui villaggi abbandonati d’Italia e le azioni di Spazi indecisi. Al centro di tutto ciò: le rovine. Tuttavia, a eccezione di qualche paragrafo su Rapture, la città protagonista di Bioshock (2007), i videogiochi erano esclusi dalla versione finale del mio studio. Un’assenza notevole, a cui voglio porre rimedio.

La parole «rovina», al singolare, designa un processo – di decadimento, distruzione o dissesto – e, nel contempo, il suo risultato. I miei studi si sono concentrati solo su questo secondo significato, che in tedesco è espresso dal sostantivo femminile Ruine. La definizione accademica che Aleida Assmann dà delle rovine – plurale! – è questa: «Un oggetto materiale – di regola una costruzione – che trattiene su di sé le tracce del decadimento legato allo scorrere del tempo o della distruzione violenta; deriva dal latino ruinae, che esiste solamente al plurale, e in questa forma si riferisce a un’unità complessa che si dissolve nelle sue singole parti».

Chiarito il senso delle parole, il passo successivo consiste nel costruire una cornice filosofica. A tal scopo mi aiuta un breve saggio di Georg Simmel, pubblicato nel 1911, che contiene tutte le idee generali sul nostro argomento: per il filosofo tedesco, con le rovine assistiamo al trionfo delle forze naturali sull’opera dell’uomo, e il loro fascino più grande sta nell’implicito sovvertimento dei nostri valori. L’”andare in rovina” evidenzia quanto è effimero e fugace il nostro dominio sul cosmo, eppure, al contempo, il degrado di una costruzione è sempre compensato: mentre il progetto originale si perde, qualcosa di nuovo nasce fra le crepe. L’esito del processo è quindi un’opera comune dell’uomo e della natura, che rimane però sempre provvisoria: alla fine, quando l’ordine originale è cancellato del tutto, restano solo macerie. Su questi elementi universali di fascino delle rovine – allusione alla grandezza passata e alla finitudine delle opere dell’uomo, alla transitorietà, alla ricrescita – negli ultimi tre secoli hanno costruito il loro successo un numero enorme di poeti, pittori, cineasti e artisti di ogni tipo, tra cui i programmatori di videogame. Descrivi o dipingi un rudere e stai pur certo che toccherai, nel profondo, la sensibilità del tuo pubblico.

Questo utilizzo scenografico, che non si preoccupa troppo del bagaglio di senso degli ambienti raffigurati, è la faccia più conosciuta dell’estetica delle rovine. In fondo, è intuitivamente figo il pensiero di muoversi fra i resti di antiche civiltà: che si tratti delle architetture monumentali di ICO, dei paesaggi fantasy di Dark Souls, del Medioevo ricostruito dal primo Assassin’s Creed o – più indietro nel tempo – delle Aquatic Ruins postmoderne di Sonic 2 sul SEGA Mega Drive. Portato al limite, questo atteggiamento scivola nella raffigurazione di ruins for ruins’ sake; ce ne accorgiamo quando percorriamo dungeon così grandiosi e assurdi che, nella loro grandiosa assurdità, ci fanno dubitare dell’esistenza di un edificio-generatore. È come se nella testa dei programmatori di videogiochi, a volte, prendesse il sopravvento il richiamo di R’Lyeh; l’incapacità di controllare l’attrazione per le geometrie «anormali, non euclidee e repulsive, che sanno di sfere e dimensioni diverse dalle nostre».

Quando però il meccanismo funziona – come in quel piccolo capolavoro che è Monument Valley o, più indietro nel tempo, in Shadow of the Colossus – il disorientamento moltiplica l’impatto emotivo della progettazione architettonica. Mentre nei paesaggi verosimili (e familiari) di GTA tendiamo spesso ad appoggiarci sulla memoria e a sorvolare su dettagli e finezze del disegno ambientale, la nostra attenzione è invece acuita dall’esperienza di un contesto completamente estraneo, con il risultato di aumentare la profondità della nostra immersione.

Niente è come stare nella (mega)macchina
Fino a qui le rovine in generale e il loro fascino, che dura da tutta la modernità. La nostra idea però è che le «Rovine del Novecento» vadano considerate a parte, come una realtà che inquieta più che lasciarsi contemplare: citando nuovamente Rem Koolhaas, il problema è che non lasciamo Piramidi. E la ragione di questa differenza, che si manifesta grosso modo a partire dall’inizio della Rivoluzione industriale, è l’avvento della Tecnica moderna. Chi rifiuta questa tesi solitamente pensa che il rapporto fra l’uomo e gli strumenti tecnologici sia rimasto lo stesso dalla Preistoria a oggi; che il nostro malessere di fronte alle bombe atomiche equivalga all’emozione che l’uomo delle caverne provò di fronte ai primi strumenti in bronzo. È una posizione legittima e, se la pensate così, potete anche smettere di leggere. Se però avete l’impressione che la Tecnica contemporanea abbia un impatto sostanzialmente diverso da tutto ciò che l’ha preceduta – che non esista continuità fra il mulino a vento e lo sbarramento idroelettrico – facciamo come in una storia a bivi di Topolino e passate al paragrafo successivo.

La tesi è che con la Rivoluzione industriale entriamo nel mondo della Megamacchina. Le analisi di questa transizione sono numerose – da Heidegger in avanti – e hanno diversi gradi di apocalitticità, con uno dei picchi assoluti nel manifesto La società tecnologica e il suo futuro, di Theodore Kaczinsky aka Unabomber. Fra le fonti del matematico-poi-bombarolo c’è un interessante ma oscuro filosofo francese, Jacques Ellul – recentemente riscoperto dai partigiani della decrescita – che così profetizzava: «Ci stiamo rapidamente avvicinando al giorno nel quale non ci sarà più nessun ambiente naturale».

Le rovine dell’epoca contemporanea sono diverse perché il loro bagaglio di senso allude proprio a questa rivoluzione tecnologica – a questo impossessarsi dell’ambiente naturale da parte di una nuova forza – e perché osservarle ci permette di riflettere sul mondo costruito negli ultimi tre secoli: dalla tecnofilia al neoluddismo, l’interpretazione finale di questi «oggetti apocalittici» spetta a ognuno di noi. Possiamo considerarli fallimenti locali di poco conto, che non giustificano la decisione di scendere dal carrozzone, oppure gli ultimi inciampi di un sistema post-umano incamminato verso la perfezione, che troverà la sua piena realizzazione nella seconda età delle macchine. Se invece siamo più critici, possiamo riconoscere in queste rovine un riflesso estremo e distorto del principio economico di «distruzione creativa», un ammonimento contro la hybris dell’uomo moderno, oppure la dimostrazione tangibile che l’agente Smith in fondo aveva ragione.

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Resta il fatto che queste rovine diverse ci interrogano, e che la lingua della contemplazione – quella che parliamo quando descriviamo le eredità del passato preindustriale – non ci permette di formulare risposte adeguate. Eppure sappiamo che troveremo questi oggetti ovunque andremo, sempre più numerosi: dai distributori di benzina abbandonati lungo la Route 66 fino agli scheletri degli esperimenti di architettura modernista in Africa. Per abituare lo sguardo a riconoscerli, ecco quindi tre esempi di «Rovine del Novecento» nei quali tra l’altro – se io fossi un programmatore di videogame – ambienterei di sicuro un livello del mio prossimo FPS:

1) Gli shipyard di Chittagong, in Bangladesh; quelli dove va a morire gran parte delle grandi navi del Pianeta, già visti nelle fotografie di Edward Burtynsky.

2) I Falsche Châlets che punteggiano le campagne della Svizzera: centinaia di bunker costruiti durante tutta la Guerra Fredda, che – per non deturpare l’Heidiland – sono stati mimetizzati con elvetica minuziosità, in modo da somigliare a fattorie, stalle, fienili e altre tipologie dell’architettura rurale. A tal scopo, il Genio svizzero aveva addirittura formato un reparto di specialisti (restauratori, imbianchini, decoratori) incaricato di dipingere finestre e montare vasi di fiori sulle pareti di calcestruzzo armato.

3) La Piramide tronca di Nekoma, nel North Dakota: un impianto radar da miliardi di dollari che risale alle «guerre stellari» USA-URSS e che – a quanto pare – è rimasto in esercizio solo per tre giorni.

Terminare è meglio che contemplare
Ma veniamo appunto ai videogame. La prima indicazione per percorrere a ritroso la storia del rapporto fra rovine e videogiochi me la fornisce un collega e amico, che nel tempo libero è anche il «Papa del retrogaming» della Svizzera italiana. Mi spedisce un articolo di David Chandler, pubblicato un anno fa dalla rivista online Kill Screen, secondo il quale «l’estetica delle rovine ha con i videogame una relazione più intima che con ogni altra forma d’arte». Prendiamo queste parole come un incoraggiamento e concentriamo l’attenzione su un fenomeno particolare, che potremmo chiamare Produzione di rovine immaginate. È un processo che riconosciamo in molti giochi delle ultime generazioni – nello specifico quelli che immaginano un futuro post-apocalittico – ma che in realtà affonda le proprie radici nell’Inghilterra del Diciannovesimo secolo, al tramonto dell’epoca vittoriana.

L’impulso viene fornito nel 1886 dall’esperimento mentale ideato da un naturalista autodidatta, Richard Jefferies, che nel libro After London descrive una passeggiata lungo il Tamigi in una Londra immaginaria, disabitata da anni, che è stata abbandonata dalla popolazione in seguito a una misteriosa catastrofe. Uno spunto così suggestivo da meritarsi numerosi reboot nel corso degli anni: da Guido Morselli e il suo Dissipatio HG a un celebre articolo pubblicato nel 1996 dalla rivista New Scientist, fino alla serie Life After People su History Channel e al saggio best seller di Alan Weisman, Il mondo senza di noi. Ultima, ma non per importanza, è l’intensa rivisitazione del tema fatta dalla Naughty Dog nel pluripremiato The Last of Us.

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Avanti veloce, fino al 2001. Poche settimane dopo gli attentati dell’11 Settembre, un libriccino intitolato L’esprit du terrorisme si attira parecchio livore grazie a una tesi scandalosa (al punto da meritarsi il dubbio onore della fascetta): «Loro lo hanno fatto, noi lo abbiamo sognato». L’autore, il filosofo francese Jean Baudrillard, sostiene che «questa fantasia terrorista (senza saperlo) ci abita tutti», e che l’architetto Mohamed Atta e i suoi compari, «nella loro strategia simbolica, sanno senza dubbio che possono contare su questa complicità inconfessabile da parte nostra». A quattordici anni di distanza, osservata attraverso il prisma di Call of Duty, dobbiamo ammettere che l’analisi di Baudrillard ci sembra molto meno astratta e forzata di quando è stata pubblicata.

«L’attenzione per la partecipazione attiva permette ai videogame di uscire dall’ombra della tradizionale contemplazione delle rovine», scrive il già citato articolo di Kill Screen; in effetti, i videogame hanno superato da tempo i disaster movie come forma d’arte incaricata di mettere in scena il piacere macabro della distruzione. Certo, la distruzione ambientale inaugurata con il GeoMod della serie Red Faction non si è diffusa come sarebbe stato lecito immaginare, eppure la festa iconoclasta apparecchiata da molti FPS rende leciti dei paralleli sinistri, tanto si avvicina alla versione giocabile dei filmati di propaganda girati dall’ISIS nei musei delle città conquistate. Anche tralasciando i casi di piena malafede – di cui scrive Paul Engelhard a proposito di Battlefield: Hardline – dovremmo perciò accettare che il piacere pantoclastico del giocatore, sempre più spesso, venga tematizzato anche da un  punto di vista morale. Le future occasioni per farlo, di sicuro, non mancheranno: il mercato ha già pronto il prossimo capitolo della sua Storia naturale della distruzione, a giudicare dallo stringato prologo di The Division, ambientato in una New York natalizia devastata da un’epidemia, o dalla Boston postnucleare di Fallout 4.

Invecchiare, male
Restando nell’alveo dell’E3, ma spostandoci in un contesto vicino alle rovine che fa molto «meta», una delle notizie più discusse del recente evento losangelino riguarda il remake di Final Fantasy VII. In un’intervista rilasciata a Wired UK, il regista Tetsuya Nomura spiega che la nuova versione non sarà una copia in scala 1:1, né il gioco originale con la grafica del 2015, ma che l’intento è piuttosto di «rifarlo in modo che sia significativo (relevant) per l’era moderna, aggiungendo nel contempo un elemento di sorpresa, [così che] sia fresco e nuovo ma comunque riconoscibile come FFVII». Un gran giro di parole, che spiega bene quali siano le difficoltà con le quali si confronta chi si imbarca nell’impresa di restaurare un classico dei videogame e di adattarlo alla sensibilità di una nuova generazione di giocatori.

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Il che ci porta direttamente al cuore del problema: perché il ciclo di vita dei videogame somiglia alla brutta fine che fa Walter Donovan in Indiana Jones e l’ultima crociata? Perché i videogiochi invecchiano quasi sempre in fretta e malissimo? Un indizio si trova, di nuovo, nell’articolo di David Chandler: «I videogiochi sono ossessionati dalle rovine perché sono il prodotto di una tecnologia che è sempre alla ricerca di un modo per ritardare il proprio inevitabile scivolamento nell’obsolescenza». Questa osservazione mi riporta dritta a me che gioco a Legend of Zelda: Twilight Princess, il primo capitolo sviluppato per la Wii.

Arrivo in un bosco fitto, disseminato di brandelli architettonici in stile gotico dall’aria familiare; l’area si chiama Sacred Grove e il giocatore affezionato si accorge presto che le rovine sono quelle del Temple of Time, attorno al quale ruotava tutta la storia del Videogame-Più-Acclamato-Di-Sempre. Questa ambientazione è una specie di accenno simbolico – fra i molti che punteggiano la saga di Shigeru Miyamoto – all’implacabilità del destino per i classici dei videogame; anche quelli talmente complessi e amati da avere bisogno di una Grande Cronologia Ufficiale per placare le divergenze di interpretazione tra i fan.

È significativo che persino esperienze videoludiche totali come quelle della saga di Zelda abbiano bisogno di continui aggiornamenti tecnici e restyling per rimediare a una velocità di deperimento altrimenti vertiginosa; uno scivolamento nell’oblio che è caratteristico dei videogame, e che non tocca i Grandi classici di nessun’altra forma d’arte. La Gioconda resta un capolavoro anche cinquecento anni dopo che la pittura si è asicugata; per contro, le case produttrici di videogame – anche quando non sotterrano gli insuccessi nel deserto – sono proiettate senza sosta oltre i loro titoli precedenti, in una logica di superamento e continuo mutamento che non potrebbe essere più avversa all’idea stessa di «conservare per tramandare».

Ecco quindi che i periodici remake e aggiornamenti dei giochi somigliano non tanto a restauri, quanto piuttosto a un’operazione di traduzione permanente nella lingua della tecnologia, assecondandone la mutevolezza e il rifiuto di ogni stabilità. Le software house che aderiscono a questa filosofia lo fanno, dunque, per prolungare la fruibilità a lungo termine dei loro titoli, considerati alla stregua di «macchine» più che di opere d’arte.

Il decadimento del supporto e l’emulazione
Accanto all’accelerazione dettata dalle software house, fortunatamente, negli anni si è formata una corrente di pensiero diametralmente opposta: quella dei retrogamer. Partendo dal riconoscimento dei videogame come forma di espressione culturale (sancito ufficialmente dal loro ingresso nella Library of Congress, che oggi conserva circa seimila titoli), questo movimento si è inserito – in maniera più o meno consapevole – all’interno del più ampio dibattito sull’archiviazione dei dati digitali: come conservare questo patrimonio, la cui intrinseca volatilità è stata legata per anni ai supporti fisici originali (schede ROM, floppy disk, cartucce)? Una prima risposta è stata fornita dal progetto MAME.

Nato nel 1997 da un’idea di Nicola Salmoria, il Multiple Arcade Machine Emulator è, nel campo dei videogame, il più famoso fra gli emulatori, ovvero quei software o hardware che permettono di eseguire un programma su una piattaforma diversa da quella originale. La storia e il senso del progetto mi sono più chiari grazie a un paper che mi ha inviato il mio Amico-di-Facebook Riccardo Fassone, docente all’Università di Torino.

Il MAME è figlio di un’ambizione enciclopedica: creare un sostituto per tenere vive tutte le piattaforme di gioco del passato. L’unica cosa che conta, secondo lo spirito dell’iniziativa, è l’integrità del codice: in altre parole, la fedeltà nel riprodurre la programmazione originale. Il fatto di poter continuare a giocare ai vecchi videogame è quindi – paradossalmente – solo una (piacevole) conseguenza, un elemento accessorio del progetto.

Quand’anche l’emulazione riuscisse perfettamente, tuttavia, il problema è che i ricordi dei nostri pomeriggi in sala giochi vanno oltre la mera esecuzione di un codice da parte di una macchina; ogni giocatore porta in sé un ricordo diverso dell’esperienza di gioco, secondo quella che gli accademici definiscono instabilità testuale. Un’esperienza che, se pensiamo alle vecchie sale giochi, è complessa e totale: inizia con la resistenza al tocco dei pulsanti e passa dalla convessità del tubo catodico, comprende le grafiche sulle pareti laterali del cabinato e viene completata dal rumore di fondo che l’insieme delle macchine produce attorno a noi (una commovente cacofonia riproposta oggi in quattro annate – 1981, 1983, 1986, 1992 – da un maniacale progetto di cristallizzazione del tempo, Arcade Ambience). Nel complesso, quindi, ci accorgiamo che un museo tradizionale non potrà mai essere la struttura ottimale per conservare l’esperienza del videogiocare, la cui riproduzione – tenendo conto di tutte le variabili – dovrebbe assomigliare più a una performance che a una semplice archiviazione di un oggetto.

Si tratta di una conclusione che, però, si scontra con la smaterializzazione del supporto alla quale il mercato ci sta portando, grazie alla piena connessione alla rete delle console di ultima generazione. Non ho idea di come spiegherei al me stesso tredicenne – quello che alla fine dell’inverno 1993-’94 acquistava la cartuccia di Sonic 3 a un prezzo che oggi mi vergogno a dire in giro – che i giochi oggi semplicemente si scaricano: senza scatola, senza manuale di istruzioni e senza supporto fisico.

Come la rovina più celebre del pianeta – quella della quale abbiamo parlato in precedenza, quella che tutti ricordano di aver visto in televisione – i videogiochi sembrano insomma destinati a vivere in futuro solo nella loro riproduzione virtuale, sganciati da ogni componente tangibile, proprio mentre riflettiamo su come costruire dei santuari per preservarne la memoria.

Oliver Broggini
Oliver Broggini (1981) è nato e vive a Verscio, nella Svizzera italiana, sede della più famosa scuola europea per clown. Giocava a calcio, nelle leghe regionali. Una volta ha segnato una tripletta su punizione, come Sinisa Mihajlovic.

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