Justin Bieber che sfoggia una t-shirt dei Nirvana e i siti che vendono merchandise anni 90 a prezzi stellari: cosa significa “indossare il vintage” negli anni del tramonto del rock.
L’ultima volta che ho incontrato il mio amico Francesco, in un pub della nostra città, sfoggiava una t-shirt dei Nirvana totalmente inguardabile: una texture a cuori rosa e neri giganteschi, sparsi lungo tutto il tessuto, e in primo piano un’immagine presa dalla copertina del singolo di Heart Shaped Box. Una cosa psichedelica da far male agli occhi, che non so come possa essere venuta in mente di associare ai Nirvana, manco l’ultimo bagarino sul pianeta sarebbe stato capace di tanto cattivo gusto. Mi scappa un commento, ovviamente: qualcosa di classista sul prendere una cosa che era bella e rimetterla in commercio decontestualizzando alla cazzo di cane, il tutto a uso e consumo delle nuove generazioni di scenester. Sorride un po’, poi mi risponde che in realtà la t-shirt è un originale dell’epoca, un pezzo molto raro trovato online. E che l’ha pagata 380 euro.
È una storia vera. Ordino un altro bicchiere di birra e me la faccio raccontare dall’inizio. Pare che avesse considerato l’acquisto già mesi prima: Francesco è una specie di “hipster consapevole” e ha cognizione del mercato internazionale di vintage rock tees. Rivenditori più o meno accreditati, spesso adiacenti al mondo del fashion di prima forza, che trattano pezzi “originali” a prezzi diciamo importanti. Ci sono siti di riferimento, come elevatedvintage.com e tyrannyandmutation.com. Il mercato è fatto di gente sparsa in giro per il pianeta, disposta a pagare centinaia di dollari per una maglietta dell’epoca.
Le ragioni sono tante, non ultima il fatto che la “t-shirt” non è un capo d’abbigliamento rimasto uguale dalla sua invenzione ad oggi. I tagli, i materiali di fabbricazione e le tecniche di stampa si evolvono nel corso del tempo; una volta arrivato il nuovo, il vecchio cessa di esistere. Così i pezzi originali in buono stato non sono così tanti, e basta poco perché le logiche di domanda e offerta si mettano a lavorare e facciano salire il prezzo. La prima volta che Francesco ha visto la t-shirt dei Nirvana, avrebbe potuto portarla a casa pagando intorno ai 200 euro, ma ha deciso di desistere; poi Justin Bieber si è fatto vedere in pubblico con una versione custom della stessa maglietta, e il prezzo sul mercato degli originali è salito alle stelle. Qualche mesetto dopo, trovare la stessa maglietta a “solo” il doppio del prezzo è un’occasione, in cui buttarsi senza pensarci due volte.
Vivere su internet ti impone visite piuttosto frequenti a concezioni sempre più ardite di quella che viene chiamata cultural appropriation. Si tratta della pratica secondo cui gli appartenenti a culture predominanti inglobano al loro interno elementi delle culture di minoranza, decontestualizzandoli e svilendoli a vari livelli. Se ne parla più che altro quando un cantante pop di estrazione WASP gioca con la cultura black, ad esempio il famoso twerking di Miley Cyrus. È una concezione che, riveduta e corretta, sta alla base di un sentore diffuso secondo il quale, ad esempio, Justin Bieber non dovrebbe indossare t-shirt dei Nirvana. Non è in grado di capire il significato di ciò che sta indossando, in breve.
Justin Bieber è un personaggio interessante, sebbene la sua storia non sia la più originale del pianeta. Canadese di origine, overnight sensation fin da adolescente, viene messo davanti allo schermo di un computer e si pone come l’evoluzione della specie-boyband: l’incarnazione di tutto ciò che c’è di sbagliato nel pop, la cosa più fiacca in commercio, il bravo ragazzo con l’immagine giusta che fa sognare le tredicenni. L’astio nei confronti del personaggio e della sua musica, fino a qualche anno fa, era uno dei concetti ruock (cit.) più condivisi e orizzontali, una specie di terreno comune da cui partire: non è detto che un fan dei Protest the Hero apprezzi i Foo Fighters, ma i fan di entrambi i gruppi sono accomunati dall’odio per Justin Bieber.
Non ci è dato sapere perché Justin Bieber indossi t-shirt dei Nirvana o dei Metallica. È probabile che lo faccia per il LOL.
Fa sorridere, quindi, che nel recente restyling del personaggio-Bieber (che da ininfluente idolo per teenager decerebrati si è trasformato in una sorta di Jovanotti del pop internazionale: un disco percepito come bello, collaborazioni di pregio, outfit controversi) la popstar canadese sia diventata uno dei principali veicoli di riscoperta di una certa estetica. Non ci è dato sapere perché Justin Bieber indossi t-shirt dei Nirvana o dei Metallica. È probabile che lo faccia per il LOL, o perché è un autentico fan di quei gruppi, o perché qualcuno gli dice di farlo, o perché si è messo in testa di fare una mossa alla Kanye West e riportare in auge il rock duro. È abbastanza chiaro, invece, perché non esista una legislazione che impedisce alle popstar di indossare il cazzo che gli pare e piace; questo non impedisce di leggere periodici status FB (o anche articoli ufficiali di testate musicali blasonate) in cui si accusa Bieber di aver inferto l’ultima pugnalata al cadavere di Kurt Cobain.
Il senso di appartenenza a una cultura basato sulla musica che si ascolta non è più così diffuso, forse per via del modello dell’ascoltatore “a trecentosessanta gradi” che si è imposto nei tardi 90. Gli articoli su Justin Bieber che indossa il merch dei Nirvana sono articoli contro Justin Bieber più che articoli a difesa dei Nirvana: li si può comprendere sulla base di un certo revanscismo tipico della critica rock contemporanea, che tende ad accanirsi su bersagli abbastanza innocui. Ma se anche riesco a comprendere l’indignazione di facciata per una teenage star che indossa la maglietta di uno dei miei gruppi rock preferiti, non riesco a comprendere come si possa entrare nella mentalità di spendere centinaia di euro per la t-shirt originale di un gruppo rock, soprattutto di un gruppo rock da milioni di copie, di cui indossare la maglietta non conferisce alcun grado di street cred. Oltre ovviamente al fatto che le t-shirt col faccione di Kurt Cobain le trovi pure al mercato sotto casa a una quindicina di euro scarse. Il tutto in un’epoca nella quale, secondo ogni buon articolo in materia, il rock sta morendo.
“Penso di avere una collezione di 150, 200 t-shirt vintage che ho (odio questa parola) collezionato in maniera organica lungo tutta la mia vita. Alcune di queste le ho dagli anni 90. Non sono mai stato un amante delle t-shirt con una grafica; mi sembrava una cosa troppo arrogante. Ma c’è qualcosa di speciale in queste t-shirt vintage dei gruppi che, anche quando la grafica è molto chiassosa, non sono così intrusive. E ovviamente il fatto che siano rare e difficili da trovare è una cosa che senz’altro aggiunge valore al tutto. E si può andare anche oltre, la fattura, la vestibilità, la forma e le proporzioni così diverse. Sono tutte queste cose a creare la magia di una t-shirt vintage”.
Sono parole di Jerry Lorenzo, fashion designer e creatore del marchio Fear of God. Che oltre ad essere un brand di abbigliamento con una propria collezione, si occupa di customizzare e piazzare un marchio su alcune t-shirt d’epoca. È sua la t-shirt indossata da Justin Bieber agli American Music Awards.
Prosegue Lorenzo: “Penso che Justin Bieber stia davvero facendo un buon lavoro. Penso davvero che sia cool ora, e gli piacciono le mie cose. È maturato tantissimo e personalmente amo che i miei vestiti riescano ad aiutarlo a comunicare quello che fa in qualche modo. È conscio del suo grado di influenza e sa di essere cool, ma non ha bisogno di vestiti per esprimerlo. Credo che Fear of God sia soltanto questo: non lo usa per farci qualcosa, ma è figo. Credo che Bieber sia un grande esempio di quello che Fear of God possa fare per lo stile di una persona. Dire qualcosa, ma non dire troppo.”
È ragionevole supporre che i fanatici del cosiddetto ruock, ai quali ancora sento di aderire con un briciolo di inopportuno orgoglio patrio, le sentiranno addosso come pugnalate. Qualcuno potrebbe persino liquidarla come una supercazzola, un bisogno di giustificare una scelta di Justin Bieber che è assolutamente legittima e non bisognosa di giustificazioni: sta solo andandosene in giro con addosso una maglietta dei Nirvana.
Se io a 22 anni fossi andato in giro vestito come Sid Vicious, nessuno mi avrebbe accusato di mettere il becco in una cultura che non era mia. Anzi, sarei stato guardato con gli stessi occhi con cui i primi punk venivano guardati a Londra.
Una cosa che mi colpisce molto è che i Nirvana siano morti (nella persona del loro cantante) un mese dopo che Justin Bieber nascesse. Io sono nato nell’ottobre del ’77, circa una settimana prima che uscisse Never Mind the Bollocks, un evento che molti vedono come la pietra tombale del primo punk inglese. Justin Bieber ha 22 anni: se io a 22 anni fossi andato in giro vestito come Sid Vicious, nessuno mi avrebbe accusato di mettere il becco in una cultura che non era mia. Anzi, se avessi indossato la divisa da punk londinese nella provincia romagnola di fine anni 90 sarei stato guardato con gli stessi occhi con cui i primi punk venivano guardati a Londra a metà anni 70. E nonostante quasi tutti i residuati bellici del punk originale che nell’Italia di quegli anni parlavano di spirito originario mi sembrassero poco più che vecchie scorregge, quell’estetica è riuscita a sopravvivere più o meno intatta, o quantomeno rintracciabile, fino ai giorni nostri. Merito tra l’altro dell’interesse del mondo del fashion. Perché per Justin Bieber – e i suoi coetanei che da lui prendono spunto – lo stesso meccanismo viene vissuto come cultural appropriation?
Ci sono tante ragioni, quasi tutte facili da demolire. La prima è che i tempi sono cambiati, e con essi gli atteggiamenti delle persone: 25 anni fa un artista poteva avere un profilo di nicchia pur vendendo milioni di copie, oggi no. Secondo, anche se ci fosse, non sarebbe Justin Bieber: le premesse mainstream (un grandioso concetto anni 90, certo) su cui si fonda la sua figura pubblica fin dagli esordi, lo rendono del tutto alieno a questo mondo. La terza è che se dici “Justin Bieber” pensi a un pubblico di ascoltatori composto perlopiù da ragazzine tredicenni, quindi a una certa estetica di riferimento, e qualsiasi scampagnata fuori da quell’estetica – anche una maglietta – è percepita come pura e semplice exploitation (un altro grandioso concetto anni 90).
Infine, c’è il fatto che un certo gruppo sociale – i trentacinquenni occidentali, una categoria che almeno per quanto riguarda il giornalismo musicale è tutt’altro che incline ad accettare l’invecchiamento – associa ancora a dei logo come quelli di Nirvana e Slayer il richiamo a una certa purezza intellettuale che chiunque sia solito bazzicare il red carpet non capirà mai. Da questo punto di vista, il reporter attempato che spala merda su Justin Bieber su Buzzfeed non è diverso dai residuati punk quarantenni che blateravano di purezza culturale quando io ne avevo venti. È piuttosto bizzarro, perché non è più possibile vedere alcuna purezza culturale in Nirvana e Slayer: i primi hanno una discografia postuma sterminata e macchiata da decenni di battaglie legali, i secondi sono da anni una ditta intestata a Kerry King, con tutti gli altri membri assunti a contratto. E il logo di entrambi i gruppi è posizionato bello in grande su magliette che è possibile acquistare sul sito di H&M.
In fondo non è così diverso il concetto per cui agli albori del primo movimento hipster italiano (il winter of love milanese benedetto dalle foto dei party marchiate DiedLastNight) era possibile vedere party girls quasi-trentenni che si spaccavano ammerda nei locali con addosso vestiti ricavati dalla maglietta di qualche gruppo death o black, magari trafugata dall’armadio dell’ex-fidanzato ex-metallaro ed ex-obeso. Considerando questi comportamenti-limite, di certo, l’idea che quelle magliette non siano così invasive nell’estetica generale della persona non è così vera, e anzi definisce la persona come appartenente a (o sfruttatrice di) una sottocultura ben precisa, che parla un linguaggio compreso fino in fondo solo da chi aderisce ad una certa sottocultura, magari esprimendo idee totalmente contrarie a quella sottocultura.
Esistono tumblr tematici e pagine facebook che listano centinaia di “cattivi utilizzi”, non so, della copertina del primo disco dei Joy Division (che in senso stretto, tra le altre cose, è essa stessa un rip-off). Guardare alle foto pubblicate su Vedo la gente Joy Division provoca sensazioni simili a quelle che si provano quando qualche rappresentante di partito della vecchia guardia si misura con l’uso degli hashtag, con in più un certo qual senso religioso che – pur trattandosi di musica pop, roba tutto sommato innocua – a volte fa sentire quasi violentati della propria fede.
L’interpretazione classica del “rock” lascia abbastanza sullo sfondo la t-shirt, e in generale gli artwork. Oggigiorno, a maggior ragione, il principale packaging della musica sono gli schermi dei telefonini e la sequenza di immagini che mandano a getto continuo e solo di rado coincidono con la copertina del disco; ma credo che esista comunque un certo margine di errore in questa teoria, e che qualcuno si trovi ancora a conoscere l’artwork di Peter Saville prima della musica dei Joy Division.
Una volta era quasi la regola: si veniva a contatto con la musica dei Megadeth dopo aver visto le immagini di Ed Repka sulla maglietta di qualche ragazzino più grande fuori da scuola. E molte di quelle grafiche (sempre Ed Repka, ma anche molti altri: si pensi ai lavori di Derek Riggs per gli Iron Maiden) oggi sono molto più disturbanti ed estreme della musica che illustravano: indossate in pubblico creano ancora un certo grado di disagio, che la musica da tempo non crea più. Allora forse non è sbagliato dire che in molti casi l’arte visuale legata al rock tende a essere un modo più esatto di raccontare diverse fasi dell’estremismo, e che raccontare le varie fasi di evoluzione di un certo tipo di musica potrebbe essere fatto con maggior efficienza a partire dall’impatto estetico di copertine e magliette, che è anche quello la cui riproduzione interessa di più le persone.
In questo, senza dubbio, l’arte visuale non accompagna la musica, ma è destinata a superarla, a impersonare un concetto nuovo totalmente slegato da quello audio. Una volta era impossibile isolare l’opera di Raymond Pettibon dalla musica dei Black Flag, oggi considerarli divisi è quasi una premessa del discorso, una premessa che serve soprattutto a spiegare come sia possibile sfogliare gallerie in cui ultradivi del pop come Fergie o Ryan Gosling indossano una t-shirt con le quattro barre, o appunto come sia stato possibile paparazzare Justin Bieber con addosso una t-shirt disegnata da Pushead, senza che nessuno abbia preso una mazza da baseball. L’operazione di customizzazione effettuata da Jerry Lorenzo, in quest’ottica, è perfettamente in linea con questo discorso del superamento. Nelle sue parole: “Alcuni si sono lamentati del prezzo delle t-shirt che vendevamo su Fear of God, ma non avevano idea di quanto rare e speciali fossero quelle magliette. Non erano t-shirt ristampate che potresti trovare su Hot Topic. Non è come se avessi messo delle bruciature di sigaretta in una t-shirt nuova e l’avessi chiamata ‘vintage’. Erano il real deal, ed è questo che paghi”.
Il concetto di real deal è un concetto tipicamente statunitense, che permette una visione consapevole del fashion e della cultura popolare come se fossero una versione della cultura europea per Playstation2.
Ammetto di trovare divertente il modo in cui l’americanità si va spesso a inserire nelle questioni ideologiche. Il concetto di real deal, ad esempio, è un concetto tipicamente statunitense, che permette una visione consapevole del fashion e della cultura popolare come se fossero una versione della cultura europea per Playstation2. Il real deal in questo è l’ultimo mostro, quello impossibile da sconfiggere, il motivo per cui sei lì, l’obiettivo finale che solo gli introdotti al culto riescono a visualizzare (un po’ come in Scientology). Occorre individuare delle premesse: chi indossa la t-shirt di un gruppo? Chi si riconosce in un certo sistema di valori: in breve, il cosiddetto rock’n’roll. Rock’n’roll inteso come pop giovanilista, quasi sempre di massa e probabilmente segnato da un certo grado di ribellione al sistema, poco importa che sia fatto con le chitarre e il ciuffo (su Tyranny and Mutation le t-shirt più costose sono indifferentemente di gruppi metal o rap, anche se quasi tutti ultra-major). Il real deal del padre di Fear of God è un’adesione al gruppo talmente profonda che porta a scavare negli archivi per riportare alla luce quello che era vestire un gruppo nella sua incarnazione più mitica. Gli Slayer del 1986, il Wu Tang del ’95: alternative plausibili sul mercato.
Al contempo il real deal impone l’esistenza di svariate tipologie di fake deal: comprare magliette a due lire nei merch online, comprare la maglietta dei Metallica a un concerto del 2016, comprare una maglietta usata ma non risalente a quell’epoca storica, impone un certo grado di finzione nella rappresentazione dell’oggi, e quindi una certa qual falsità colpevole. In questo, il lavoro del mercato hardcore-vintage è soprattutto un lavoro di archeologia, volto a tirare fuori un’estetica originale che non sia adulterata dall’affastellarsi delle fonti, da un modo di raccontare la storia che non corrisponde necessariamente ai fatti. Indossare una maglietta originale di Kill ‘Em All significa anche e soprattutto indossare i Metallica di quel periodo e per certi versi negare l’esistenza dei Metallica successivi.
Ci si trova insomma di fronte a una concezione molto lapidaria. La premessa su cui si muove il mondo della t-shirt vintage è una premessa di non-replicabilità, e si fonda su alcuni assunti che non vengono messi in discussione. Uno: gli Slayer del 2016 non sono buoni e potenti quanto gli Slayer di trent’anni prima. Due: nessun gruppo, nel 2016, può essere indossato nello stesso modo in cui indossavamo gli Slayer nell’86. Sono entrambe ovvietà, ed entrambe sono grosse argomentazioni a favore di chi sostiene le teorie millenariste sulla fine del rock e del pop.
Ma in fondo il rock non morirà mai davvero. Non finché Justin Bieber riuscirà a impedirlo.
Consulente editoriale di PRISMO. Ha fondato Bastonate, scrive per Rumore, Noisey e altre cose in giro. Di tanto in tanto disegna.