La storia della Image di Todd McFarlane, gli anti-eroi dei comics USA: ovvero come un ex-giocatore di baseball canadese ha fatto impazzire il mercato del fumetto americano anni ‘90.
Digitando certi nomi, uno dei primi suggerimenti di Google è: “XY net worth”. Di solito “XY” è un grande attore, un famoso sportivo, un mogul della Silicon Valley o il fondatore di un hedge fund. Molto più raramente, quasi mai, capita che la qualifica professionale di “XY” sia “disegnatore di fumetti”. Il canadese Todd McFarlane, patrimonio da 300 milioni di dollari secondo celebritynetworth.com, è l’eccezione che conferma la regola.
Ho iniziato a leggere fumetti di supereroi intorno al 1991 e, sebbene non abbia mai smesso del tutto, negli anni ‘90 ne ho letta una quantità quasi eccessiva. Ho visto Superman resuscitare con un mullet, Batman combattere Predator (fumetto splendido, il primo), farsi spezzare la schiena da Bane (meno splendido) ed essere sostituito da un iper-violento in corazza dorata dal ridicolo nome di Jean Paul Valley (sempre meno splendido). Ho seguito l’Uomo Ragno e Il Punitore nel 2099, assistito a un’esplosione cromatica di simil-Carnage degna dei Power Rangers e a molte altre assurdità di questo genere. Insomma: gli altissimi e i bassissimi dei supereroi dell’epoca. E nessuno sapeva stare in equilibrio tra questi due estremi meglio di Todd McFarlane.
Ricordo ancora la prima volta che vidi un suo disegno. Si trattava ovviamente di questa copertina, uscita oltreoceano nell’agosto 1990, in Italia qualche anno dopo, e ormai celebre per molte ragioni. La prima: inaugurava Spider-Man, una nuova serie dedicata all’Uomo Ragno interamente curata da McFarlane. La seconda: con due milioni e mezzo di copie stracciò ogni precedente record di vendita per un singolo numero di una collana a fumetti. La terza: con le sue numerose variant, inaugurò una bolla speculativa del fumetto USA durata per tutta la prima metà dei “favolosi” ‘90.
L’ingresso di McFarlane nell’industria dei comics è una di quelle storie di perseveranza che piacciono tanto agli americani. Probabilmente esiste un universo parallelo in cui Todd, un discreto talento da battitore, ha concluso una buona carriera in MLB e, ormai ritirato, si dedica alla sua vecchia passione, il disegno, un po’ come Randy Johnson oggi colleziona scorci di Firenze. Nel nostro universo però, il sogno del baseball sfuma e McFarlane si dirotta quindi verso il fumetto, un’attività che negli anni lo ripaga abbastanza da permettergli di spendere tre milioni di dollari per un cimelio del suo primo amore sportivo. E tutto nonostante inizi non certo confortanti.
Leggenda vuole che, da neo-diplomato, McFarlane abbia collezionato 700 lettere di rifiuto prima di riuscire a illustrare undici pagine di Scorpio Rose, preludio a un posto fisso nello staff di Coyote. È il 1984 e Todd ha appena 23 anni. I successivi sei sono una vorticosa escalation di popolarità che, passando per Batman, lo porta infine ad approdare all’Uomo Ragno. Lì diventa subito un beniamino del pubblico e, nel 1990, Marvel gli affida addirittura una serie tutta sua: appunto la già citata Spider-Man, conosciuta affettuosamente anche come ‘adjectiveless’, rispetto alle già esistenti Amazing Spider-Man e Spectacular Spider-Man.
Non ancora trentenne, McFarlane si trova così nell’invidiabile posizione di deus ex machina del personaggio Marvel più popolare e decide di inaugurare la nuova serie con Torment, una storia su più volumi in cui l’arrampica-muri affronta una delle sue nemesi storiche: Lizard. E questa è anche l’unica concessione che Todd fa alla tradizione. Per tutto il resto fa compiere all’Uomo Ragno un salto in avanti di vent’anni. Fino a quel momento la rappresentazione estetica del mondo di Peter Parker era infatti ferma al canone fissato negli anni ’60 e ‘70 da John Romita Sr.: un Uomo Ragno che, ancora nel 1989, svolazzava per una New York da Colazione da Tiffany più che da Fai la cosa giusta.
A questo punto non posso che citare quanto scrive Andrea Fiamma, proprio a proposito dell’Uomo Ragno di McFarlane, in un bellissimo pezzo uscito a marzo su Fumettologica: “Dopo John Romita, nessuno si era mai messo lì a pensare a come disegnare un Uomo Ragno diverso, visto che quello dell’italoamericano era insuperabile. E quindi quelle erano le pose, quelli erano i calci e i pugni. Soprattutto, quelle erano le ragnatele. La disegnavano così: una rete, delle linee unite nel mezzo da fili a raggiera o incidentali, ottime per le vedute laterali, un macello se le volevi direzionare verso lo spettatore e creare visuali con del mordente. Così Todd McFarlane s’inventa una corda sfilacciata e appiccicosa (la descrive come «quattro fili di pongo tenuti insieme da un quinto filo che li avvolge»), la disegna a metri in tutte le vignette e la fa diventare elemento decorativo […] La tela, il costume, i capelli. Tutti dettagli che c’entrano poco con la storia, sono solo tanta energia e zero sofisticazioni. McFarlane riesce a sfruttare questi particolari nel loro insieme, in un atto di ingegneria fumettistica che fa la differenza tra una copia venduta e una lasciata sullo scaffale”.
C’era qualcosa nei disegni di McFarlane che catturava l'essenza di quella finestra temporale che erano i primi anni ’90, figli, asfittici e ipertrofici insieme, del decennio precedente.
Per il me stesso undicenne e per tanti altri che a quell’epoca si avvicinavano per la prima volta ai fumetti di supereroi, perdere la testa per l’Uomo Ragno di McFarlane fu un attimo (il discorso era invece molto diverso per i veterani). E poco importava che le sue anatomie fossero tutto meno che accurate o verosimili o che i suoi fondali spesso non fossero altro che delle confuse macchie di colore. C’era qualcosa nei suoi disegni, nel modo in cui i volumi dei suoi personaggi saturavano e al contempo aprivano le tavole, che catturava l’essenza di quella finestra temporale che erano i primi anni ’90, figli asfittici e insieme ipertrofici del decennio precedente.
Il segreto di McFarlane – ed è lui stesso ad ammetterlo in un documentario – in fondo era molto semplice: “Essere una persona media e come tante, che sa cosa vogliono le altre persone medie”. Una ricetta che è insieme un’ode alla mediocrità e una delle più rodate scorciatoie per il successo. McFarlane era stato il più rapido a fiutare l’aria che tirava, a capire cosa cercava una nuova classe anagrafica di lettori, ma non era l’unico.
Alle sue spalle si scorgeva una nuova generazione di autori e disegnatori, ambiziosi e pronti per uno scarto di popolarità. Tutti quanti destinati a essere amati e lautamente ricompensati nel breve termine, salvo poi, venire ridimensionati se non addirittura odiati nel lungo: una sorte abbastanza comune ai fenomeni radicati troppo a fondo e troppo esclusivamente nello spirito di un’epoca. Disegnatori come Rob Liefeld, o Jim Lee, o Erik Larsen: matite così riconoscibili e indissolubilmente legate a quel momento storico che se oggi cercate il loro nome, Google vi suggerisce correlazioni con le loro tavole più iconiche di allora. Per esempio, nel caso di Jim Lee (forse il più dotato e tecnico di tutti), questa “Jim Lee X-Men pool”.
La sovrabbondanza di linee (anche) per mascherare un tratto non impeccabile, le anatomie eccessive, la sessualizzazione dei corpi, la resa di effetti speciali quasi cinematografici su carta – laser, proto lens-flare, coloratissimi campi magnetici – l’eccesso di gadget e dettagli nei costumi dei personaggi, accomunano tutti questi autori e già all’epoca li rendono immediatamente riconoscibili come la “nuova scuola” del fumetto di supereroi americano.
Una “scuola” che, per quanto venga quasi subito criticata dai veterani, ha i numeri dalla sua e straccia un record di vendita dietro l’altro ingrassando il portafoglio della Marvel. Che infatti coccola i suoi giovani prodigi e concede anche a Jim Lee e Rob Liefeld l’onore di due collane ad hoc, in questo caso degli X-Men (con 8 milioni di copie vendute, il primo numero di X-Men della coppia Jim Lee/Chris Claremont è ancora il singolo numero di fumetto americano più venduto di sempre, anche “grazie” alle quattro diverse copertine combinabili).
La mossa di Marvel non basta però a saziare gli appetiti dei suoi autori. E così, adducendo dei dissapori creativi che in realtà celano un contenzioso sui compensi, alla fine del 1991 McFarlane lascia Spiderman per fondare Image, la propria casa di fumetti indipendente. Oltre a quello di McFarlane, il peso specifico per costituirsi come un terzo polo rispetto al binomio DC/Marvel, lo forniscono proprio i nomi di Lee, Liefeld e Larsen, tutti convinti da Todd a lasciare le major per un’inedita avventura da solisti. A differenza delle altre case, Image infatti non paga gli autori a contratto ma con laute percentuali del ricavato dei loro fumetti. Quello di Image è in sostanza un modello cooperativo: la casa madre fornisce la distribuzione (inizialmente attraverso il circuito della Malibu) ma i ritorni economici, così come il potere creativo e manageriale, restano nelle mani degli autori delle varie testate.
L’annuncio di Image è seguito da mesi di quella spasmodica attesa che soltanto la penuria d’informazioni dell’era “pre-Internet” sapeva generare. Attesa che si interrompe nella primavera del 1992, quando, nel giro di pochi mesi, fanno la loro comparsa nelle edicole Youngblood, The Savage Dragon, Spawn e Wildcats: ovvero i nuovi personaggi, rispettivamente di Liefeld, Larsen, McFarlane e Lee. La fame di “next big thing” dei lettori decreta immediatamente il sold-out di tutte e quattro le serie, al punto che, tra ’92 e ’93, il connubio Image/Malibu supera le vendite di DC Comics diventando, de facto, il secondo polo del fumetto americano alle spalle di Marvel.
Se già il suo Spiderman era l’equivalente fumettistico di un pasto ipercalorico, Spawn – personaggio che McFarlane teneva nel cassetto da un decennio – è un hamburger di trippa fritto e glassato, puro colesterolo pop-reazionario. Per intenderci, ecco la storia delle origini del protagonista: Al Simmons (nome scelto in onore di una leggenda del baseball) è un black ops afro-americano con un fisico da culturista, che, dopo essere stato ucciso in una missione in Botswana, finisce all’inferno e lì fa un patto con il demone Malebolgia, il quale lo resuscita in un essere sfigurato e dotato di superpoteri mistico-magici. Ovvero Spawn, un violento anti-eroe che indossa contemporaneamente: 1) un costume che è la versione juggalo di quelli dell’Uomo Ragno e di Deadpool, 2) borchie, teschi e spunzoni un po’ dovunque e, soprattutto, 3) un lungo mantello vivente che McFarlane utilizza copiosamente per decorare le tavole.
A questo background narrativo e a questa estetica non proprio sottile, si aggiungano poi le fluorescenze che Spawn sprigiona dalle mani e dagli occhi (enfatizzate dai colori digitali di Steve Oliff), gli assurdi nemici che affronta – come Violator, un obeso demone clown – e tutti gli altri innumerevoli elementi che ne fanno la quintessenza di ciò che rendeva “figa” la Image all’epoca della sua nascita. Una casa di fumetti che non vendeva più storie – anche perché quelle erano o volutamente incomprensibili o inconsapevolmente trascurate – ma character design. Un character design ipertrofico ovviamente, e a volte grottesco, ma anche… beh… fighissimo, specie per chi a quell’epoca non aveva ancora un filo di barba. Anzi fighisssimo proprio perché ipertrofico e grottesco, in anni in cui less is more non si “portava” certo bene come oggi. E non solo nel fumetto.
In un certo senso, più che per essere delle “dramatis personae”, i personaggi della Image paiono disegnati per diventare dei feticci. Sembra quindi logico che il successivo passo imprenditoriale, Todd lo muova verso uno dei mercati più feticisti al mondo: quello delle action figure. McFarlane intuisce infatti come, tra il semplice pupazzetto di scarsa qualità e le costosissime statuine da collezionisti, esista una potenziale fetta di mercato e decide di occuparla in prima persona. Nel 1994 nasce così McFarlane Toys. La qualità del design, la cura per i dettagli, la studiata capacità di creare mille variazioni su uno stesso character a prezzi comunque abbordabili, sanciscono il tutto esaurito delle prime linee di action figure di Spawn. Questo permette alla neonata azienda di ampliare il proprio raggio di manovra, ottenendo le licenze per stampare le action figure di storici franchise cinematografici e video-ludici, leghe sportive e molto altro, viatico alla creazione di quello che oggi è uno dei più grandi imperi indipendenti del giocattolo americano.
Nel frattempo però, intorno alla seconda metà degli anni ’90, la fortuna di Image inizia a declinare. Un po’ lo si deve al riciclo generazionale a cui è soggetto il fumetto di supereroi e moltissimo al fatto che la qualità e l’originalità della produzione è altamente incostante. Al fianco di Spawn, che ha conservato fino a oggi una sua dignità e freschezza, infatti non si contano più i copycat di personaggi altrui (Wildcats e Youngblood = non una ma due copie degli X-Men) e inoltre il pubblico comincia a rivedere alcune posizioni. Il gusto per il massimalismo, che ormai sembrava avere conquistato le masse, comincia a ritirarsi nelle retrovie delle nicchie. E così autori come Liefeld attraversano un processo di rivalutazione in negativo che li porterà a essere poi fatti oggetto di crudele scherno. Altri, come Jim Lee, progressivamente tornano sui loro passi per dedicarsi a personaggi più tradizionali. Ma è tutta la bolla del “fumetto di supereroi primi anni ’90” che esplode dalla metà del decennio in poi, portando in particolare la Marvel a un passo dalla bancarotta. Il mercato è saturo e i lettori stufi di comprare cinque copertine diverse – SPECIALI! – di uno stesso numero, della proliferazione di personaggi troppo simili tra loro, di crossover e mashup che mascherano l’inconsistenza delle storie e la mancanza di idee e/o capacità dei loro autori.
L’avventura di Image, superati i dissidi interni legati alla posizione dell’ex CEO Liefeld, comunque non si esaurisce completamente e continua fino ai nostri giorni in cui è ormai una consolidata mini-major. Soprattutto ha avuto l’indubbio merito di fare da cartina tornasole delle immobilità creative della DC e della Marvel dell’epoca. Le quali, per resistere all’arrembaggio della ciurma di McFarlane & Co., non seppero inventarsi di meglio di aborti come Amalgam Comics, una serie lanciata nel 1996 in cui i personaggi dei due universi si – da cui il nome – amalgamavano: presupposto per mashup di dubbio gusto come Dark Claw (Wolverine x Batman) e Super Soldier (Superman x Capitan America). Ovvero l’equivalente di svariate ore della mia adolescenza che nessuno mi restituirà.
Cesare Alemanni è caporedattore di Prismo e direttore creativo di Berlin Quarterly, una rivista di narrativa in lingua inglese che ha co-fondato a Berlino, dove risiede attualmente.