Dagli spot a De Palma, dai TG alla golden age di Hollywood: un’analisi dello split screen come tesi e antitesi dello sguardo cinematografico.
Il potere della sintesi
Estate 2016: mare, spensieratezza, una diffusa sensazione di libertà. Questi sono gli ingredienti della nuova pubblicità del biscotto gelato Maxibon Motta, in onda da giugno sulle principali emittenti televisive e sui canali digitali. La scelta se mordere prima il lato con la granella o quello con il biscotto diventa nello spot pubblicitario il pretesto per mettere a confronto due modi differenti di godersi la perfetta giornata in spiaggia. Lo schermo è diviso verticalmente in due parti: a sinistra vediamo chi preferisce la granella, si tratta del belloccio nerboruto della spiaggia che si tuffa da uno yacht e a destra chi invece ha optato per il biscotto, il ragazzo acqua e sapone che si accontenta del pedalò e di spiare le ragazze sotto la doccia, invece che cercare di conquistarle. La tecnica visiva utilizzata nello spot è quella dello split screen, la divisione cioè dello schermo in due o più parti, utilizzata in questo caso a stimolare lo spettatore a stabilire analogie e differenze. Alla fine dello spot le due immagini si fondono in una sola: “Enjoy the perfect mix!”, conclude lo speaker in sottofondo, riferendosi in maniera ambigua tanto alla sintesi perfetta di granella di nocciola e morbido biscotto del gelato Maxibon, quanto a quella tra i due look da spiaggia. Alla fine un party in spiaggia sulle note del tormentone dance “Gotta Go home” di Boney M. mette d’accordo un po’ tutti: ragazzo Alpha e ragazzo sapore di mare, di fatto interpretati dallo stesso attore fin dall’inizio, scompaiono ora nella folla danzante. Alla luce di questo finale conciliante la domanda dell’inizio se cominciare dalla granella o dalla nocciola è in fondo una “falsa” scelta, perché chi mai comincerebbe a mangiare un Maxibon, soprattutto in spiaggia sotto il sole cocente, partendo dal biscotto, tenendolo quindi dalla parte della sottile couverture di cioccolato? Anche le differenze tra i due stili di vita proposti nello split screen, se sorridere o fare una duck face mentre ci si fa un selfie, se portare la collanina o la bandana, sono in fondo irrilevanti. Sappiamo ora che le due estetiche alla fine convergeranno in una sola: infatti l’ ultima immagine dello spot sarà una sovraimpressione di un gigantesco Maxibon elevato a una sorta di feticcio della sintesi e del superamento dei due opposti.
Il nuovo spot Maxibon è un esperimento visivo quantomeno emblematico per il modo in cui in esso estetica della merce ed estetica dell’ immagine si innestano l’una sull’ altra. La dualità del Maxibon converge a livello visivo nella tecnica dello split screen, in quanto tecnica visiva dello sdoppiamento dell’immagine. In entrambi i casi si tratta di una divisione “debole”, di una separazione che in realtà accomuna e mette in relazione. Infatti, come si è già fatto notare, lo spot in fin dei conti insiste sulla sintesi da un lato tra granella e biscotto, di cui il Maxibon sarebbe la rappresentazione e tra ragazzo Alpha e ragazzo acqua e sapone. Proprio per questa sua capacità di creare un’opposizione tra due immagini e allo stesso tempo di attenuarla la tecnica dello split screen è stata utilizzata non solo nella pubblicità del Maxibon, ma anche in altre, ad esempio in quello della banca online Widiba, andata in onda nel 2015. Anche qui lo split screen ostentando la separazione mette in realtà in relazione le due metà dello schermo: a sinistra un giovane con barba si muove sorridente in un ambiente domestico molto luminoso, circondato da un caos che si potrebbe definire “creativo”; a destra lo stesso giovane, questa volta senza barba e in completo nero, si aggira in un interno asettico, enfaticamente professionale. Il primo acquista sorridente vinili in un negozio dalle atmosfere anacronistiche e ovattate, il secondo si lascia trasportare su scale mobili deserte. Lo sguardo dello spettatore tergiversa tra parte sinistra e parte destra dello schermo mentre una voce fuoricampo dichiara rassicurante: “anche se siamo tutti diversi in fondo da una banca vogliamo le stesse cose”. Ancora una volta le differenze in fin dei conti non contano, la differenza di stili di vita tra i due soggetti viene livellata in favore di un’ astratta idea di “bene comune”. Infine, come nella pubblicità del Maxibon, anche qui lo split screen si fonderà in una sola immagine con i due protagonisti sorridenti e soddisfatti per aver scelto la stessa banca.
Logica della separazione
Non necessariamente però una sequenza di split screen si conclude con la fusione delle due immagini in una, privilegiando di conseguenza l’aspetto della continuità, rispetto a quello della separazione. Talvolta infatti l’accento risiede piuttosto sulla cesura: nel cinema è il caso degli split screen utilizzati nel genere romantico sentimentale. In Conversations with Other women, una commedia agrodolce sugli strumenti della seduzione, lo schermo è diviso in due dall’inizio alla fine del film, da quando cioè i due protagonisti – un uomo (Aaron Eckhart) e una donna (Helena Bonham Carter), dei quali non scopriremo mai i nomi – si incontrano e si innamorano fino a quando si separeranno. La linea che taglia verticalmente lo schermo sembra qui marcare, in un modo piuttosto didascalico, la differenza di genere: uomo e donna, parte destra e parte sinistra dello schermo, vengono svelati allo spettatore – l’escluso o meglio, il terzo escluso – tramite un classico montaggio di campo-controcampo. Anche in The Rules of Attraction, la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis, la dualità tra maschile e femminile converge sul piano visivo nella struttura dello schermo sdoppiato. L’unica sequenza di split screen del film ci mostra da un lato Sean (James Van der Beek) e dall’altro Lauren (Shannyn Sossamon) mentre si dirigono verso il college. Lo split screen termina solo quando i due si incontrano-scontrano nel corridoio, parlandosi per la prima volta.
Sia in Conversations with Other Women che in The Rules of Attraction la tecnica dello split screen rinvia alla definizione che Christian Metz, teorico del cinema francese, diede del cinema nel 1977 come arte esibizionista che implica necessariamente un rapporto schermo/spettatore di impianto voyeuristico. Il piacere di guardare a distanza che secondo Metz (e in generale secondo un approccio psicoanalitico) caratterizzerebbe la visione cinematografica, viene soddisfatto e allo stesso tempo intensificato dallo schermo diviso: non essendoci in una sequenza di split screen lo stacco del montaggio tra le due inquadrature, i personaggi si guardano e corteggiano letteralmente sotto i nostri occhi. Nello split screen difatti, il cut è interno all’immagine e la linea che separa le due parti di schermo non permette allo sguardo dello spettatore, così come nel caso di un classico montaggio campo/controcampo, di inserirsi tra le inquadrature e di suturare i punti di vista.
Voyeurismo e paranoia
Non solo però nell’ambito del genere della commedia romantica la tecnica dello split screen è posta al servizio della soddisfazione della pulsione scopica del soggetto-spettatore. Pensiamo infatti all’utilizzo che questa tecnica ha avuto nel thriller politico/paranoico a partire dalla New Hollywood degli anni Sessanta, associando un’ estetica dello split screen ad una critica sulla manipolazione mediatica e sul tema della sorveglianza.
In The Thomas Crown Affaire, Steve Mc Queen (nei panni del miliardario Thomas Crown), mosso da accidia esistenziale, orchestra il crimine perfetto: una rapina alla banca di Boston. Le numerose scene di split screen che punteggiano la narrazione hanno la funzione di mettere in scena la contemporaneità dell’azione mentre accade in spazi diversi sfruttando l’espediente della telefonata. Qui osserviamo i quattro complici mentre si accordano sul da farsi e ci troviamo a rivestire il ruolo di super partes, di osservatori distaccati ai quali è concesso il privilegio di aver il quadro generale degli eventi.
Inoltre, nelle sue venature più cospirazioniste, la New Hollywood si servì degli split screen per stratificare l’immagine moltiplicando i punti di vista che non si lasciano ricondurre in modo univoco allo sguardo di uno dei personaggi o al nostro. Tale utilizzo presuppone a sua volta un assunto più generale che va a toccare il problema della conoscenza: la verità storiografica e filmica si rivela essere in realtà un costrutto sottile e ‘mediato’. L’assassinio del presidente americano Kennedy a Dallas nel 1963 e le divergenti teorie, alcune delle quali complottistische che ne risultarono, così come il filmato rivelatore, ripreso da una piccola cinepresa portatile dal sarto Abraham Zarpruder, rimane l’ episodio chiave nell’ evoluzione del linguaggio del cinema verso la “postmodernità”, verso cioè una crescente riflessione meta-discorsiva. L’evoluzione della tecnica degli split screen s’inserisce proprio in questo processo autoriflessivo del cinema. Pensiamo per esempio agli split screen del cinema di Brian De Palma, da Blow Out a Sisters, che proprio riprendono, esasperandolo, quest’utilizzo epistemologico dello split screen tipico del cinema del complotto, elevandolo allo stesso tempo a virtuosismo insistito ed evidente. Alla base rimane la destrutturazione della dialettica di campo/controcampo attraverso la quale l’attenzione viene spostata sul fuoricampo. Gli split screen del cinema di De Palma sono momenti meta-discorsivi, con cui risolvere l’accumulo di suspense, riordinare i frammenti del mosaico narrativo e ridistribuire e consolidare i saperi in campo. In Snake Eyes per esempio, opera tarda di De Palma e meraviglioso tributo al postmoderno, le sequenze di split screen devono servire a risolvere l’intrigo. Tuttavia, alcuni frammenti di visione rinchiusi negli split screen non si lasceranno integrare nella narrazione: sono inquadrature impossibili, schegge impazzite che decostruiscono lo spazio filmico.
L’evoluzione della tecnica degli split screen s’inserisce proprio in un processo autoriflessivo del cinema.
Infine, ritornando a riflettere sulla televisione, anche il comune utilizzo degli split screen durante le trasmissione sportive non fa che confermare la vicinanza di questa tecnica con la possibilità di implementare lo sguardo, di intensificare la visione. Per evitare che lo spettatore si perda momenti cruciali in alcuni casi le interruzioni pubblicitarie o il collegamento in diretta con altri eventi appaiono tramite la funzione split screen solo su una parte dello schermo, mentre sull’altra continua la diretta dell’ evento sportivo. Inoltre Sky Sports offre ai suoi utenti la possibilità di vedere contemporaneamente due partite, sia in TV che su iPad: l’ idea della televisione come “finestra sul mondo” che ha accompagnato la storia del mezzo fin dalle sue origini viene così confermata.
A partire dagli anni Novanta si può parlare di una proliferazione e allo stesso tempo di una banalizzazione della tecnica degli split screen. La serie televisiva 24 rappresenta un momento fondamentale in questo processo. La narrazione in tempo reale e la frammentazione costante dello schermo rinviano a quella che Zizek ha definito “etica dell’urgenza”, un misto cioè di macchiavellico cinismo e Realpolitik. La serie è una corsa contro il tempo per sventare attacchi terroristici o portare alla luce cospirazioni: in una situazione di crisi tutti i mezzi, anche i più meschini, sono giustificabili.
Si pensi inoltre all’estetica televisiva dei Tg, dove il montaggio interno all’immagine è quasi scontato e verte a sottolineare l’ impellenza dell’ attualità e della realtà che alle spalle del giornalista squarcia lo sfondo e appare in un riquadro-finestra catalizzando la nostra attenzione. Nel formato forse più televisivo di tutti – nel telegiornale – ecco dunque che lo split screen si carica di quel senso di urgenza e necessità che ha del resto caratterizzato questa tecnica fin dalla sua prima apparizione nel cinema.
In Suspense, un cortometraggio americano del 1913, troviamo il primo split screen della storia del cinema. Come sovente nel cinema delle origini una donna è in pericolo e chiederà (via telefono) aiuto al marito che, prontamente, accorrerà a salvarla. In Suspense l’immagine si frammenta nella scena della telefonata, nel momento cioè di massima tensione. Da questo punto in poi il connubio telefono/split screen diventerà una costante che si andrà a consolidare negli anni Sessanta. Con Bye bye Birdie per esempio, una commedia musicale americana del 1963 in tinte pastello e in formato cinema scope, dove la sinergia tra telefono (voce) e split screen (immagine) è messa al servizio di una forma di comunicazione che, per definizione, si nutre dell’urgenza della trasmissione: il gossip. Qui gli split screen sono veramente bellissimi e lo schermo appare come un mosaico coloratissimo, uno spazio attraversato da energie e movimento, riempito da adolescenti concitati incollati al telefono:
In Pillow Talk, un’altra brillante commedia romantica americana con la coppia per eccellenza del cinema americano degli anni sessanta Rock Hudson e Doris Day, tutta la situazione di equivoci si snoda a partire da delle conversazioni telefoniche filmate in split screen. In questo caso non si tratta però di gossip, bensì di quelle confidenze dai toni soffusi, che due amanti si sussurrano al telefono (dei “pillow talk” del titolo per l’appunto). Fin dall’inizio lo split screen ci svelerà il trucco: Ancora una volta questa tecnica, che nasce col cinema, ci permette di vedere di più, di spiare e origliare… in questo caso anche ciò che “il letto racconta”, citando la maliziosa traduzione del film in italiano.
In conclusione l’estetica tecnologica a cui rinvia la tecnica split screen sembra dunque nei suoi svariati utilizzi nel cinema, nella televisione o nel web, da un lato esaltare la funzione del mezzo, andando a potenziare la sensorialità: gli split screen difatti, ci fanno vedere “di più”. Allo stesso tempo però lo schermo frazionato delle volte sembra remare contro tale massima: il dubbio di “non aver visto abbastanza” o “di esserci persi qualcosa” ci accompagna per tutta la durata di Timecode di Mike Figgis, in cui quattro storie parallele girate da quattro camere digitali in tempo reale a Los Angeles vengono proiettate ognuna su un quadrante dello schermo. Qui lo split screen non ha la funzione di allargare lo spazio visibile, ma al contrario di riflettere su come la proliferazione degli schermi all’inizio del nuovo millennio ha portato a un generale cambiamento del loro statuto, che li ha resi punti di transito delle immagini che circolano costantemente nel nostro spazio sociale.
Cecilia Valenti vive e lavora a Berlino, ma è originaria di Busto Arsizio. Ricercatrice in media studies e filosofia all’università di Düsseldorf e di Berlino, è parte del collettivo di cinema The Canine Condition con il quale ha curato rassegne tematiche a Berlino, Vienna, Londra, Stati Uniti.