Un elogio del vero protagonista di Star Wars: Darth Vader, forse il cattivo più riuscito nella storia del cinema.
1. Vicino a casa mia, a Torino, c’è un museo molto bello che si chiama Mao, Museo d’arte orientale. In una palazzina del Seicento è ospitata una splendida collezione d’arte, manufatti e documenti dall’Oriente. Ogni piano è dedicato a una civiltà o a un’area culturale: c’è quello della tradizione indiana, il piano cinese, l’ultimo – ovviamente quello più alto – riservato al Tibet e al Nepal. Il mio preferito, però, è quello giapponese. Anni fa, quando avevo più tempo libero e più momenti di malinconia, poteva capitare che in un pomeriggio troppo lungo andassi al museo unicamente per salire al piano giapponese e sedermi sulla panca davanti alla teca delle armature dei samurai. Osservavo soprattutto quella in mezzo – ce ne sono tre se non ricordo male – nera e minacciosa, di ferro e di pelle, ne scrutavo le orbite vuote e stellari, l’elmo svasato, la fissità secolare.
Ricorda Darth Vader.
2. Ralph McQuarrie è il designer originale di Darth Vader. Nel 1975 Lucas gli diede l’incarico di dipingere cinque scene dalla seconda bozza del progetto originario per convincere la Fox a finanziare Star Wars. McQuarrie – in seguito insieme allo scultore Brian Muir e al costumista John Mollo – mise insieme divise tedesche della Prima guerra mondiale, gli elmetti sempre tedeschi (i German Stahlhelme) della Seconda e copricapo delle armature samurai del Giappone feudale.
Il segreto della forza (Forza?) simbolica di Star Wars, quello che ha ne fatto la saga di tutte le saghe, l’inizio del cinema contemporaneo (diremmo del post-cinema se fossimo su una rivista di cinema fighetta), che ha reso possibile il dispiegamento globale di questo complesso militar-industrial-immaginario dell’intrattenimento, è proprio il suo maldestro sincretismo. Il suo mettere insieme samurai e nazisti, cavalieri neri e monaci medievali, Wagner e Joseph Campbell, Cristo ed Edipo, tutte influenze, rimandi, allusioni, che hanno proprio in Vader, nel suo corpo, nella sua maschera, la loro incarnazione migliore. Un frullato di suggestioni diverse, a volte contraddittorie, che a un certo punto della storia inevitabilmente confliggono, traballano come l’andatura di Vader, questa specie di ansimante mostro di Frankenstein. Ma se Star Wars come film e come mitopoiesi funziona non è nonostante il suo sincretismo, nonostante i suoi passi falsi, ma proprio grazie a essi.
Sull’elmo di Vader non tramonta mai il sole.
3. Il potere di un simbolo è dato dalla sua capacità di trasformarsi, di evolvere nel tempo e nello spazio, di assumere significati di volta in volta diversi, quando non opposti, ma non per questo smettere di essere riconosciuto e riconoscibile. È il suo mistero.
Nel 2007 Dov Kelemer e Sarah Jo Marks, proprietari di un’azienda di distribuzione di giocattoli di design, misero in piedi The Vader Project. Incaricarono cento artisti da tutto il mondo di dare la loro interpretazione dell’elmetto di Darth Vader. L’idea era usare il casco come una tela bianca, un segno allo stesso tempo vuoto e pienissimo, che si poteva sottoporre a infinite variazioni.
C’è qualcosa in Vader che invita alla permutabilità, al bricolage ludico da omino dei Lego. Sarà anche per il suo essere davvero un omino dei Lego senza braccia e gambe, sfigurato, tenuto insieme dalla tecnologia imperiale e dalla Forza. In un certo senso l’elemento bricoleur torna dentro la narrazione stessa con il motivo della mano tagliata. In ogni film della saga c’è qualcuno che perde una mano, Anakin/Vader la perde addirittura tre volte! È un elemento diventato così iconico che – benché depotenziato a livello di inside joke – è trasmigrato nei film Marvel, forse il franchise che più di ogni altro, in questi anni, ha tentato di prendere il posto di Star Wars. Entrambi i franchise (gli imperi) oggi sono di proprietà della Disney: ci sarà un copyright anche sui moncherini? O forse il potere dell’immaginario non è proprio questa capacità di manipolare senza mani, senza contatto diretto, a distanza? In fondo una delle scene più famose con Vader protagonista è quella di lui che uccide qualche scagnozzo della Flotta imperiale strangolandolo soltanto con il potere della Forza.
4. Una forza che non si vede ma che manipola la realtà è l’ideologia. E un’ideologia è tanto più forte quanto più può contenerne altre. Poche altre narrazioni contemporanee più di Star Wars sono state lette da punti di vista ideologici opposti: si passa da Reagan che definisce l’Unione Sovietica l’Impero del male, a Cheaney ritratto come imperatore Palpatine che manipola il suo pupazzesco braccio destro Bush Jr/Vader. Nel 1989 uscì una raccolta di saggi da allora diventata un classico degli studi postcoloniali intitolata The Empire Writes Back. Il titolo (geniale) viene da un articolo di Rushdie di qualche anno prima. La narrazione di Lucas veniva utilizzata per smontare “la mitologia bianca” e eurocentrica di certa critica e storia letteraria.
L’idea stessa che l’arco politico della saga sia la trasformazione della Repubblica in un Impero è, in fondo, piuttosto discutibile: è Leila (una principessa, non una sottoproletaria degli slums di Coruscant) che decide che quello in cui vive è diventato un Impero ed è giusto ribellarsi. Il Consiglio dei Jedi, a cui Anakin Skywalker mette fine, non era certo l’organo di una repubblica democratica, un simposio di raffinati costituzionalisti che glossano Bobbio nel tempo libero: quello che abbiamo lì, invece, è un ordine militare di fondamentalisti religiosi, non eletto e senza nessun contropotere, che influisce direttamente sulla vita politica della nazione. Ragazzi, Yoda non è un misto tra il Maestro Miyagi e il Dalai Lama, ma un talebano! Anakin, al contrario, è un illuminista che si batte per la fine di questi privilegi feudali – a colpi di spada laser e non di editoriali su Micromega, d’accordo, ma si sa: la rivoluzione non è un pranzo di gala, tanto meno a Hollywood.
5. Con l’uscita della controversa trilogia dei prequel diventa chiaro quello che si era già iniziato a intuire. Il vero protagonista di Star Wars non è certo lo scialbo Luke ma Anakin Skywalker. Guerre stellari è la storia di ascesa-declino-e-rinascita di Anakin Skywalker. Luke nella sua neutra innocuità è poco più di un segnaposto, una funzione narrativa. La tragedia, il conflitto, il dramma è quello vissuto dal padre. Eppure è noto che Lucas non avesse chiaro in mente tutto l’arco narrativo di Star Wars, neanche della trilogia originaria, quando girò A New Hope. Darth Vader, nel primo film (Episodio IV), ha un minutaggio sorprendentemente basso rispetto alla centralità che gli attribuiamo retrospettivamente. Inoltre non era previsto che fosse lui il padre di Luke. All’inizio era niente più che il tirapiedi dell’Imperatore, quello grosso che fa i lavori sporchi. Solo scrivendo la sceneggiatura dell’Impero colpisce ancora a Lucas venne l’idea di fondere Anakin Skywalker, il padre assente di Luke, e Darth Vader in un unico personaggio e trasformare il cavaliere nero in un eroe tragico oltre che nel protagonista assoluto della saga.
Jonathan Ive, il designer di Apple da metà degli anni Novanta, non ha mai nascosto che una delle principali ispirazioni per i suoi iMac, iPod, iPhone, interfacce varie gli venne proprio da Star Wars.
6. C’è un motivo per cui Darth Vader è diventato il vero protagonista, molto semplice. Perché il nero sfina e lui, be’, semplicemente è figo. È carismatico, incute timore e rispetto. Oltre a essere il personaggio psicologicamente più interessante e approfondito: e recita sempre dietro a una maschera! Del resto sapreste dire chi interpreta Darth Vader? Nel primo film dentro l’armatura-polmone d’acciaio c’era il corpo massiccio di David Prowse, un ex-bodybuilder. Peccato che nessuno gli avesse detto che poi sarebbe stato doppiato: lo scoprì solo a film concluso quando, al posto della sua piattissima voce, sentì quella di James Earl Jones. Si arrabbiò così tanto che per il titolo successivo si rifiutò di imparare le battute limitandosi a farfugliare e biascicare parole incomprensibili, mettendo non poco in difficoltà gli altri attori che stavano girando la scena in quel momento. Alla fine fu sostituito da Bob Anderson. Mentre il viso di Anakin adulto che viene rivelato nel Ritorno dello Jedi è dell’attore Sebastian Shaw. Insomma, come al solito i cattivi sono più interessanti.
C’è un altro supereroe della cultura pop contemporanea il cui costume è in total black: Steve Jobs. Star Wars – A New Hope uscì nel 1977, lo stesso anno in cui Jobs e Wozniak producono l’Apple II, la macchina che ha fatto entrare i computer nelle case. A far entrare le case dentro i computer, cioè a trasferire le nostre vite nella rete, ci penserà sempre Jobs con l’iPhone molti anni dopo. Jonathan Ive, il designer di Apple da metà degli anni Novanta, la persona a cui si deve l’attuale identità della casa di Cupertino, non ha mai nascosto che una delle principali ispirazioni per i suoi iMac, iPod, iPhone, interfacce varie gli venne proprio da Star Wars. Il cerchio si è chiuso quando hanno chiesto una consulenza allo stesso Ive per il design di The Force Awakening.
Pensateci: cos’è la cosa che guardate più tempo ogni giorno, che avete sempre sotto gli occhi anche quando non ve ne accorgete? Computer, cellulari: anzi meglio, interfacce grafiche. Molto probabilmente una che ha disegnato Jony Ive.
Una cosa che guardi anche senza vederla veramente. In fondo le interfacce sono questo, un dispositivo che mi serve a manipolare il mondo (in questo caso l’informazione) ma che deve annullarsi nell’uso, diventare invisibile. Mi chiedo se non valga la stessa cosa per la cultura pop.
Il nostro rapporto con la cultura pop è simile al rapporto tra Luke e suo padre: una cosa minacciosa, seducente e carismatica, metà uomo e metà macchina ma di cui non possiamo non dirci figli.
7. Io ho questa definizione minimale di cultura pop: quella cosa che sai anche se non vuoi. Mentre altre forme culturali, diciamo per capirci “alte”, le sai (cioè le conosci, le puoi gestire) solo se vuoi (cioè se le cerchi coscientemente e se hai le competenze per gestirle: competenze che a volte, non sempre, non necessariamente, sono legate a degli status economici o sociali), la cultura pop, nella sua pervasività virale, la conosci anche non volendo. Anche controvoglia. Magari anche senza consumare questo o quel prodotto direttamente: non serve aver visto Star Wars per saper citare “Luke, IO sono tuo padre!”. Fa parte del tuo bagaglio di contemporaneo.
Il nostro rapporto con la cultura pop è un po’ simile al rapporto tra Luke e suo padre: una cosa grossa e minacciosa, seducente e carismatica, metà uomo e metà macchina ma di cui non possiamo non dirci figli.
Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un vecchio video di Alberto Moravia in cui, con la sicurezza del Palpatine delle lettere italiche che all’epoca era, illustra la differenza tra mid-cult e cultura di massa. Il primo pensiero è stato che forse oggi consideriamo proprio i romanzi di Moravia degli ottimi esempi di mid-cult. Ma più che altro ho pensato come tutto quel discorso mi apparisse un dispaccio da una galassia lontana lontana, un armamentario critico e ideologico oggi totalmente inerte. Forse incomprensibile. Non solo: che quel modo di pensare – che tanto peso ha avuto nella cultura italiana – aveva avuto delle grandi responsabilità nel sottrarci proprio quegli strumenti intellettuali in grado di spiegare il mondo che stava arrivando e in cui noi avremmo vissuto.
La sera stessa sono a cena con un amico che metto a parte della profonda impressione che mi ha fatto quel video. Lui allora posa forchetta e coltello accanto al piatto e, di colpo serio, mi racconta questa storia. Pochi di voi lo ricorderanno, miei piccoli lettori, ma c’è stato un tempo in cui Topo Gigio non era più famoso di Gesù ma comunque una celebrità mondiale sì, ospite fisso dell’Ed Sullivan Show negli Usa, per non parlare dell’Italia ovviamente. Anche in Giappone c’era un culto diffuso e sostenuto del topo tricolore, tanto che Maria Perego, la creatrice e animatrice di Gigio, venne invitata in oriente. È la stessa Perego che lo ricorda nella sua autobiografia Io e Topo Gigio: Vita artistica e privata di una donna straordinaria (Marsilio). In quei giorni era ospite di Kon Ichikawa, il regista che con lo splendido e famigerato (era un classico delle proiezioni scolastiche, fino a qualche anno fa) L’arpa birmana aveva vinto la Mostra del cinema di Venezia nel 1956. Ichikawa voleva girare un film con Topo Gigio (si intitolerà Toppo Jijio no botan sensō – Topo Gigio e la guerra del missile). Anche Moravia e Dacia Maraini in quei giorni erano in Giappone e volevano intervistare il maestro Ichikawa. Questi però avrebbe acconsentito solo se fosse stata presente anche la Perego. Per Moravia era inconcepibile: non avevano nulla da dirsi con Topo Gigio, personaggio fin troppo compromesso con il mercato (aveva girato numerosi caroselli)! Il regista si impuntò e alla fine Moravia cedette. Ma per tutto il tempo Moravia dette le spalle alla Perego e non le rivolse mai la parola. Ecco, io me lo immagino Moravia che sdegnoso dà le spalle al piccolo Topo Gigio, che però proietta un’ombra immensa, minacciosa, tanto da aver spaventato lo scrittore più importante e potente dell’epoca.
Nella mia immaginazione Topo Gigio proietta l’ombra di Darth Vader.
Critico letterario ed editor, lavora alla narrativa straniera di Einaudi.