Più fenomeno economico che musicale in senso stretto, l'EDM è data ancora una volta al capolinea (finalmente). Ma a sopravviverle potrebbe essere il suo eroe più ingombrante e fastidioso: Steve Aoki, prototipo della nuova rockstar.
La foto di solito campeggia grandissima all’inizio dell’articolo, allargata in orizzontale per tutto lo schermo più o meno come in questo articolo, o magari in doppia pagina su una rivista patinata. È stata scattata con un grandangolare in un posto immenso, stipato di gente fin dove l’obiettivo riesce ad arrivare; la platea è illuminata dei colori variegati che è lecito aspettarsi dai set di luci che può permettersi un evento come questo. Le persone hanno visi indistinguibili e braccia alzate al cielo, immobilizzate in pose di estasi collettiva che se non fosse per i colori fluo avrebbero qualcosa di ancestrale. In primo piano la consolle brilla delle luci di un computer e qualche mixer e certe schede e tutto il gear, l’obiettivo della macchina deforma il piano del tavolo e lo fa sembrare un ferro di cavallo avvinghiato attorno a un dj. Svetta in primo piano, a volte di spalle, più spesso di fronte a guardare il fotografo con aria strafottente e un sorriso. Ha quasi sempre le braccia alzate al cielo. Ogni singolo dettaglio dell’immagine sembra messo lì a bella posta per far capire che quasi chiunque, in questo momento, si sta divertendo da pazzi.
La foto l’avete vista tutti, è la resa grafica definitiva della narrativa di un movimento culturale in cui sono confluite alcune tra le tendenze culturali più massicce di questi anni: il culto della personalità del dj, il successo da stadio della electronic dance music ovvero EDM, una certa concezione della fotografia live che spinge l’HD oltre i limiti del verosimile, più tutti i precipitati ideologici e generazionali che si possono srotolare attorno a queste tendenze. L’avete vista tutti perché la foto, in realtà, sono migliaia, milioni di foto tutte uguali: cambiano i dj, cambiano le location, cambia il pubblico, cambia l’illuminazione, cambia il fotografo. Non cambiano l’aspetto del dj, l’aspetto delle location, l’aspettodel pubblico, l’effetto generale dell’illuminazione, lo stile del fotografo.
Non è dato sapere chi abbia scattato la prima fotografia, il modello a cui tutti quanti poi si sono rifatti. L’immagine ha qualcosa di computerizzato e contemporaneo, ma ha più senso ricondurla a certi antichi rituali pagani. Al contempo può richiamare abbastanza da vicino i momenti in cui il Papa si affaccia dalla finestra in piazza San Pietro, le armate di orchi nei film del Signore degli Anelli o certe immagini di regimi anni Trenta tipo queste.
Non ha molto senso ricondurre l’iconografia di questa musica a movimenti ideologici di destra o sinistra, ma l’appeal totalitario e messianico dei grandi eventi EDM fa comunque di tutto per saltare all’occhio. Sembrano foto oneste, o comunque non sembrano mentire con intenzione: mostrano artisti e pubblico che erano effettivamente lì, contestualizzandoli al culmine di una celebrazione che – a starci in mezzo – credo dia un’idea simile a quella che la foto racconta: volumi alti, botte di adrenalina, corpi sudati. È la sua stessa onestà di facciata a fare da viatico verso altri discorsi: in fondo è una foto che parla di un fenomeno economico, un fenomeno di dimensioni talmente importanti che tocca usare un fisheye. Seguendo il filo dei pensieri che parte dall’estetica e dall’etica ai tempi di Facebook, viene abbastanza naturale pensare che le persone che saltano indistinguibili sullo sfondo della foto, per certi versi, abbiano pagato cento euro a testa al solo scopo di entrare nel quadro dell’immagine. Come a dire: il tizio in primo piano sta facendo la storia, quelli dietro mostrano la loro gratitudine.
La bolla
Bolla speculativa è un termine economico ancora abbastanza in voga, nonostante descriva oggi un fenomeno non molto diverso da quello che descriveva nel diciassettesimo secolo: l’aumento scriteriato dei prezzi di un bene, dovuto all’aumento repentino e incontrollato della domanda, in un intervallo di tempo brevissimo. La bolla crea naturali componenti di aspettativa: alcuni attori si convincono che la domanda di quel bene crescerà ancora, iniziano ad investire in quel bene, alimentando l’interesse e di conseguenza la domanda, e di conseguenza l’interesse di altri attori. Finché a un certo punto inizia a serpeggiare tra gli attori la sensazione che il prezzo del bene sia troppo alto e che l’interesse per quel bene stia scemando. La domanda inizia a scendere in breve tempo, con la stessa velocità con cui era salita, gli attori iniziano a svendere, il mercato collassa e qualcuno si butta sotto un treno. In molti casi lo scoppio di una bolla è una profezia autoavverante: se qualche attore importante scommette economicamente su una svalutazione di un certo titolo, il titolo si svaluterà generando panico e ulteriori deprezzamenti.
La cosiddetta EDM bubble è un concetto introdotto timidamente tra la fine degli anni zero e l’inizio degli anni dieci, come del resto il concetto stesso di “EDM”. A voler ripercorrere la storia della bolla e del genere musicale, si rischia di finire nel grottesco o nello sfottò aperto come è successo per questa cronologia messa insieme per Pitchfork da Philip Sherburne. Trattandosi del massimo riferimento per l’elettronica evoluta nel magazine, è una deriva inevitabile. Ma del resto si tratta di un fenomeno che ha scalato la scena musicale in modi assolutamente inediti, e per molti versi irragionevoli: si fa spazio sul mercato, in maniera anche un po’ timida, nella seconda metà degli anni duemila, per poi iniziare a produrre sempre più fuss e diventare già all’inizio degli anni dieci una delle dimensioni live più chiassose su suolo mondiale.
Definire la EDM dal punto di vista musicale è complicato come per qualsiasi altro genere, o almeno si tende a definire “EDM” una serie di suoni abbastanza facili da avvicinare in via pratica, ma molto meno in via teorica – suoni che fino a qualche anno fa, tra l’altro, si muovevano in sottoinsiemi autonomi e anzi in certi casi si guardavano abbastanza in cagnesco. Più ragionevole definire con “EDM” una concezione specifica dell’elettronica da ballo, estremamente barocca massimalista e HD, ma orientata a una struttura ritmica piuttosto basilare (nel senso che va bene parlare di HD ma dobbiamo almeno tener presente che roba tipo Rustie, Oneohtrix Point Never, videogamewave e accelerazioni varie sono comunque uno scenario lontanissimo, da cui gli sfottò di Sherburne). E poi, c’è quel postulato dialettico che si chiama drop.
Forse ha più senso definire l’EDM da un punto di vista squisitamente economico (tipo “musica da ballo concepita e suonata per intrattenere folle oceaniche”), e di conseguenza usare listini e dati di vendita per valutarla dal punto di vista artistico. Sia quel che sia, l’EDM ha avuto una storiografia abbastanza inusuale: la musica pop di solito si serve di agiografie e racconti di grandeur, mentre l’EDM si è sviluppata in un clima giornalistico relativamente ostile. E per di più, per quasi un lustro, era possibile leggere con regolarità articoli che preannunciavano la fine dell’EDM, lo scoppio della bolla.
Dovendo indicare una data sul calendario, personalmente sceglierei l’agosto del 2015. Il 24 di quel mese, su Forbes usciva Electronic Cash Kings, la consueta lista annuale dei guadagni dichiarati dai maggiori dj al mondo (quell’anno erano Calvin Harris, David Guetta, Tiesto, Skrillex, Steve Aoki, Avicii, Kaskade, Martin Garrix, Zedd, Afrojack) che descriveva una situazione quanto mai florida: il valore del fatturato globale dell’EDM era stimato intorno ai 7 miliardi di dollari, il PIL di un paese in via di sviluppo.
Curiosamente, lo stesso giorno usciva anche un altro articolo di approfondimento, sempre su Forbes, intitolato The Fall Of SFX. È un resoconto di massima delle brutte notizie in casa SFX Entertainment, il più grosso operatore nel business dell’organizzazione di eventi legati alla musica da ballo. SFX era una company creata da Robert Sillerman, un imprenditore che negli anni 90 acquisì agenzie di promoter locali, diventò leader mondiale nell’organizzazione di eventi live e vendette tutta la baracca a Clear Channel – una fusione che diede vita a Live Nation, ancora oggi leader di settore.
Nel 2012 una seconda company, con lo stesso nome e lo stesso chairman, iniziava a muoversi per diventare il nome di punta nell’organizzazione di eventi EDM. Nel settembre del 2012 Sillerman era in copertina su Billboard ad annunciare la discesa in campo, un budget di investimento allucinante (un miliardo di dollari) e gli obiettivi principali; nell’agosto 2015 le azioni SFX valevano un quindicesimo di quanto valevano due anni prima. SFX era indiscutibilmente il più grosso investitore nel settore, gestiva alcuni dei più grandi festival (compreso Tomorrowland) e aveva anche comprato la piattaforma di riferimento per lo scambio musicale nel settore (Beatport). Per farla breve, mentre i dj continuavano a incassare, chi organizzava gli eventi stava perdendo soldi.
Quattro giorni dopo gli articoli di Forbes, esce nelle sale cinematografiche americane We Are Your Friends, il film più grosso mai realizzato sulla scena EDM. Si tratta di una specie di 8 Mile dell’elettronica, protagonisti Zac Efron ed EmRata. Non esattamente un’opera milionaria o indimenticabile, ma Warner Bros ci crede molto e lo distribuisce in migliaia di sale; il film va a segnare la peggior performance in apertura di una pellicola con quella distribuzione. È uno dei tanti indizi che parlano di una sostanziale impermeabilità del mondo all’EDM. Un altro indizio è squisitamente musicale: se escludiamo exploit tutto sommato isolati come Titanium di Guetta (che lancia definitivamente Sia) o certe cose di Calvin Harris tipo We Found Love, nessun grossissimo produttore è riuscito a imporre davvero la propria visione oltre il giro dance. Anche se capita spesso, è vero, che il pop da classifica (persino in Italia) decida di mutuare qualche superficiale caratteristica estetica dall’EDM: tipo appunto il drop o le casse dritte, sovente utilizzati in modo ridicolo.
Il 2016 è passato tutto all’insegna dello smantellamento. Mentre Las Vegas iniziava a porre un freno alle residency milionarie dei dj (determinanti per il fatturato di alcuni dei campioni di Forbes), SFX Entertainment dichiarava bancarotta, festival come Ultra (a Miami) segnavano una visibile flessione nel numero di presenze e ogni piano futuro per Beatport veniva mandato a monte in favore di un onesto presente di declino e mediocrità. In altre parole, lo sfondo della foto di cui parlavamo in apertura sta andando lentamente svuotandosi, e i dollaroni dei tycoon di alto profilo sono diventati il triste ricordo di un’epoca passata o la sempre più impalpabile testimonianza di quello che sta iniziando sempre più spesso a sembrare un’illusione collettiva, un miraggio di epoche passate. Assume quindi un senso tutto particolare, in questo momento storico, che uno dei protagonisti della scena sia uscito recentissimamente con un film-documentario su di sé.
Il film si chiama I’ll Sleep When I’m Dead e parla di Steve Aoki, da diversi anni un ospite della lista di Forbes. La release statunitense del film data agosto 2016, ma da qualche settimana è disponibile anche sul Netflix Italiano. A questo punto però, vi chiedo: avete presente chi è Steve Aoki?
Aoki Story
Nella seconda metà degli anni 90 le principali tendenze dell’hardcore punk sono tre: le derivazioni melodiche del giro Epitaph/Fat Wreck/Lookout, il metal muscolare di scuola Victory (Earth Crisis/Snapcase/Integrity e derivati) e il cosiddetto emocore (una specie di hardcore evoluto che svolta verso il college rock). Già nei primi 90 però è attivo un quarto polo, molto circoscritto (è concentrato per larghissima parte in California) e ostinatamente DIY, che fa capo ad etichette tipo Gravity ed Ebullition e andrà a crescere d’importanza per tutto il decennio: si tratta di una sorta di inasprimento rumorista dell’emo, che nelle interpretazioni della seconda generazione di gruppi (tipo gli Swing Kids di San Diego) abbraccerà una certa sobrietà estetica: batterie a quattro quarti, chitarre affilate, voci sgraziate, testi emotivi e attivismo sociale.
Nel 1996 a Santa Barbara uno studente di origini giapponesi fonda un’etichetta chiamata Dim Mak, attiva in questo giro di gruppi: lui si chiama Steve Aoki, e di lì a poco figurerà anche come cantante nei discreti This Machine Kills, cioè di questi tipi qui:
In questo periodo la scena hardcore californiana sta però abbassando un po’ i toni: il processo di asciugatura della musica ha iniziato a dar vita a una sorta di indierock sui generis, palesemente debitore del primo postpunk inglese (PIL, Joy Division…), spesso a cassa dritta. Questa scena è la base di quel che diventerà poi la cultura del cosiddetto “indie”, così come verrà ripensata la definizione a metà degli anni duemila.
Steve Aoki e la Dim Mak faranno molto del loro: dopo un primo periodo di stretta osservanza hardcore, l’etichetta inizierà a mollare il punk e fare uscire ottimi dischi al confine tra noise tout-court, punk-funk, pop rock sbilenco e garage sconvolto. Dalle parti del 2002 si inizia a parlare sempre più insistentemente di “punk-funk” e “dance-punk”; gruppi come The Rapture, Liars, !!! e derivati iniziano a occupare le pagine dei giornali, spuntano contratti major e partecipazioni di prestigio ai festival estivi.
Dim Mak ha già fornito un retroterra importante a queste musiche, e nel 2005 fa uscire uno dei dischi più fortunati di quella stagione (l’esordio dei Bloc Party); Aoki nel frattempo ha iniziato a mettere dischi in giro per Los Angeles, roba in vinile che viene dal suo giro, e pian piano si sta trasformando in un punto di riferimento locale. È ancora roba abbastanza piccola e in divenire: quando aprivi il sito di Dim Mak, con le foto di Devon Aoki (la sorella di Steve, ai tempi modella/attrice di successo) immersa in una vasca piena di dischi di Battles e DDM, sembrava ancora un cortocircuito di roba casuale.
Le serate di Steve Aoki nei club mutuano quasi tutta l’estetica punk del tipo mezze risse, stage diving eccetera, ma la ricontestualizzano in un formato che ha fatto dell’opulenza la sua cifra stilistica.
L’evoluzione musicale successiva è quella in cui Steve Aoki diventa Steve Aoki. è quella in cui il dance-punk diventa dance-dance: è l’epoca in cui gruppi come Death From Above 1979 diventano gruppi come MSTRKRFT, la scena inizia a colorarsi di giubbottini fosforescenti, sneaker enormi, roba American Apparel e via di questo passo. Steve Aoki è il punto di riferimento losangelino di questa cosa: i Dim Mak Tuesday a Hollywood diventano un appuntamento importante e di supermoda, a cui si aggiungono nel 2006 i Banana Split Sundaes assieme a DJ AM.
La sua attività combinata come dj e produttore inizierà a dare frutti importanti verso la fine del decennio, in cui Aoki ha già incassato successi come Warp dei Bloody Beetroots e infilato remix per artisti di prima levatura. Quando tutti iniziano a chiamarla EDM non c’è alcun dubbio che Aoki faccia parte del giro. Pitchfork lo chiama professional scenester in occasione di una stroncatura del 2008: lui ha finito da un pezzo di far uscire musica di qualità eccelsa, e sta già facendo tour mondiali da dj in contesti sempre più importanti: le sue serate nei club mutuano quasi tutta l’estetica punk del tipo mezze risse, stage diving eccetera, ma la ricontestualizzano in un formato che ha fatto dell’opulenza la sua cifra stilistica. A un certo punto fanno la comparsa in scena bottiglie di champagne e grosse torte tirate in faccia a quelli delle prime file. Quando le cose iniziano a gonfiarsi, Steve Aoki è già diventato da tempo un vero e proprio imprenditore di se stesso: il suo nome vende cuffie da dj e capi d’abbigliamento.
Il lustro successivo a questi eventi è quello che viene raccontato nel film. Steve Aoki è un dj affermatissimo e fattura milioni di dollari l’anno, passa il tempo a lanciar torte e dorme due ore a notte. Questo almeno è quel che racconta I’ll Sleep When I’m Dead: un oceano di gente su cui Aoki surfa in catalessi da iperattività, mentre straparla di suo padre e di etica punk applicata al capitalismo di massa.
È uno strano prodotto: alterna momenti di classicismo documentaristico americano (i protagonisti e qualche amico famoso che parlano su una sedia) a scenette palesemente girate apposta per il film (l’incontro con il sindaco di LA, le conversazioni col manager, persino qualche inquadratura al funerale del padre). Tutto il discorso culturale sull’EDM e sul punk e su Aoki-discografico, che avrebbe tranquillamente potuto fare gioco al dj in termini di street cred, viene sacrificato in favore della sottotrama meno interessante della vita di Aoki (il rapporto complesso con un padre dall’ombra troppo lunga) che si porta via metà del minutaggio. Il resto va a segnare i puntini che serviranno a tracciare il ritratto umano di Steve Aoki, una sorta di macchina pensante sottoposta a ritmi di vita brutali (300 concerti all’anno, viaggi in aereo quotidiani, sponsorship, progetti faraonici, jogging peso e rutto libero) ed esposta costantemente in pubblico, con la fidanzata che si preoccupa per la sua salute e il manager che ringrazia il cielo perché Steve ha smesso di bere.
Incapace a raccontare un uomo, insomma, I’ll Sleep When I’m Dead studia un modo ragionevole di ripensare una rockstar.
Al di là dei racconti però, non è dato sapere se nella vita di Steve Aoki ci sia spazio per le cose umane: non è che lo si veda mai cucinare un piatto di pasta o cose così. Quello che si vede sono le infinite pose della sua figura lungocrinita e perennemente in bolgia, ripetuta in foto e nei video a livelli di parossismo che ricordano indifferentemente tanto Andrew WK quanto Aphex Twin. Alla fine questo lato iconico è un po’ il più interessante di Aoki. Fatta salva la non eccelsa qualità dei dischi che fa uscire e la relativa facilità di comprensione del suo live, c’è senz’altro un discorso legato alla volontà di un diventare la propria caricatura allo scopo di realizzare gli obiettivi che ci si è posti.
Questo a conti fatti è l’unico punto in cui il film ha successo. È un documentario agiografico e a tesi, un santino realizzato su commissione, allo scopo di accelerare il processo di deificazione del personaggio prima che il fuss intorno all’EDM si spenga in via definitiva. Le stesse pecche del film, l’incapacità di mostrare qualsivoglia spontaneità dell’uomo fuori dal palco, sembrano quasi spingere su una dimensione cristallizzata e superumana che – pur se relativamente aliena all’ideologia democratica del clubbing – sembra avere parecchi punti con un altro registro narrativo.
Incapace a raccontare un uomo, insomma, I’ll Sleep When I’m Dead studia un modo ragionevole di ripensare una rockstar. E se è vero che forse non serviva un documentario a rivelarlo, è comunque abbastanza evidente che mentre la EDM bubble sta scoppiando, Steve Aoki sembra l’unico superstar dj pronto ad accogliere quel che verrà dopo di essa e l’unico ufficiante che in quella foto sorride ancora come un pazzo.
Consulente editoriale di PRISMO. Ha fondato Bastonate, scrive per Rumore, Noisey e altre cose in giro. Di tanto in tanto disegna.