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Una compagnia mercenaria, un’identità fittizia e pagamenti in Bitcoin: un’avventura nell’internet selvaggio.

Dumitru Iliescu ha trentadue anni e viene dalla Romania. Scrive da un indirizzo registrato con TorMail, un provider del Deep Web chiuso nel 2013 a seguito di un raid dell’FBI.

Poche righe di testo articolate in un italiano essenziale ma comprensibile. Uso degli articoli inesistente, niente congiuntivi, ma nemmeno un utilizzo indiscriminato dei verbi all’infinito. Telegrafico.

Dumitru Iliescu usa uno pseudonimo che è anche il nome del suo account e-mail: “Suceava”. Una cittadina di 106.000 abitanti nel nord-est della Romania, a un passo dai confini con la Moldavia. Nella periferia di Suceava Dumitru ci è nato e cresciuto: campi che gelano d’inverno, odio per gli Zingari e boschi sterminati. Dietro l’asciuttezza con cui racconta se stesso, Dumitru nasconde un passato secco, duro, fatto di scazzottate alle scuole medie e un liceo abortito a metà. Non ne parla, ma si intuisce.

Dumitru Iliescu ha indossato il Képi Blanc, il cappello di chi sopravvive per almeno un mese all’addestramento della Legione Straniera. Quattro mesi a Castelnaudary, 4° Reggimento Straniero, cinque anni di ferma obbligatoria nel 2° Reggimento straniero di Fanteria a Nîmes. Non rifirma, si congeda con il grado di Sergente e si stabilisce a Marsiglia, dove lavora come buttafuori in alcuni locali, e per tre anni come guardia giurata. Poi viene a vivere in Italia, ospitato da un cugino.

Dumitru Iliescu è stato in Afghanistan, forse in Costa d’Avorio. Sa come gira il mondo, ma per qualche motivo non riesce a coglierne il ritmo. Spesso è disoccupato e ancor più spesso gli prudono le mani. Quando la notte cammina da solo, in preda all’insonnia e a braccetto con i fantasmi, spera di incontrare qualche arabo ubriaco, o meglio ancora uno zingaro. Qualcosa con cui grattarsi.

Dumitru Iliescu non esiste. Ma qualcuno, da qualche parte nel mondo, si è convinto di sì, e sta per mandargli la foto di un tizio di Milano a cui bisogna spaccare le gambe. È un primo incarico, una prova. Se tutto va come deve, Dumitru entrerà a far parte del Consorzio. E a quel punto potrà grattarsi quanto vuole.

*

Nel 2009, il Deep Web si stava avvicinando alla gogna mediatica, ma ancora non ci era arrivato. Wired non ci scriveva sopra un articolo al giorno. Le Iene non intervistava hacktivisti con la maschera di Guy Fawkes. I Bitcoin stavano nascendo e con un Pentium III si poteva accumulare l’equivalente (oggi) di qualche milione di dollari.

Insomma, l’Internet Oscuro non era ancora pop. Era hip. Era cool. Un gradino sopra i MUD come accessibilità, ma ugualmente ermetico quanto a contenuti e significati. Attraente, come tutte le cose di cui non si capisce un cazzo (tipo la fisica quantistica). E proprio come la fisica quantistica, causa di precipitazione testicolare una volta compreso: niente teletrasporto e misteri tecno-sovrannaturali, solo equazioni e pedopornografia.

Se da una parte i mezzi di informazione odierni hanno trasformato il Deep Web in un rigonfiamento tumorale dell’immaginazione collettiva, una certa fetta di utenza “colta” ha provveduto fin da subito a ridimensionarne il fascino, puntando il dito contro il cuore marcio della cosiddetta Cipolla (il traffico del Deep Web gira su cosiddetti siti .onion): droga, pedopornografia, armi, eccetera. Visto che, nel Deep Web, la merda c’è per davvero, anche il sensazionalismo mediatico ha dovuto prenderne atto e alla fine la coolness di un tempo ha lasciato spazio alla noia: il “mito del Deep Web” sopravvive come vaga eco di “cose strane e brutte dell’Internet” nel bagaglio culturale della casalinga di Voghera, ma per l’alfabetizzato digitale ha perso quasi ogni fascino.

Nel Deep Web c’era quel ché di grezzo che mi faceva pensare a come doveva essere stato Internet ai suoi albori. Ostico, lento, caotico.

Nel 2009, imberbe studente di Giurisprudenza, scoprivo il Deep Web grazie a un amico informatico e mi sentivo un pioniere. Anche perché frequentavo gente che usava Internet Explorer e per la quale “Tor” non era ancora nemmeno un eroe Marvel.

Nella più piena innocenza digitale, trascorrevo i pomeriggi vagando fra i siti indicizzati dalla Hidden Wiki (che concettualmente mi sembrava l’equivalente della Nocturn Alley di Harry Potter, figata). Ok, innocenza forse no: sapevo bene che dietro un click sbagliato si potevano celare cose molto brutte, ma io cercavo di schivarle e tutto sommato ci riuscivo senza difficoltà. Bilanciavo il rischio col fatto che stavo esplorando frontiere apparentemente inviolate.

Nel Deep Web c’era quel ché di grezzo che mi faceva pensare a come doveva essere stato Internet ai suoi albori. Ostico, lento, caotico. Il cuore comunicativo erano le bulletin boards, bacheche pubbliche dove affiggere messaggi troppo sporchi per il Web di superficie. Insiemi disparati di messaggi in inglese, francese, tedesco, arabo, che oscillavano dalle carte di credito rubate al, boh, era in arabo.

Era tutto molto confuso, e molto inafferrabile. Dopo tre settimane di esplorazione cominciava a farsi strada un sospetto: salvo essere un pedofilo, o un rivoluzionario Tunisino, il Deep Web era una vetrina piatta e semibuia dal contenuto inaccessibile. Privo di spazi di interazione, e destinato a essere noioso. Epifania banale oggi, cocente delusione ieri.

Ma il 2009 era un tempo magico, lo si è detto. A ridosso della resa, scopro su una bacheca virtuale un messaggio diverso dagli altri. Un messaggio scritto in italiano. L’unico messaggio in italiano che avessi mai visto.

“Il Consorzio”.

*

Il messaggio è breve, una decina di righe appena. Presenta Il Consorzio ai lettori e si chiude con un recapito TorMail.

Il Consorzio, detto in parole povere, è una compagnia mercenaria. Il messaggio non lo dice mai chiaramente ma usa un lessico che, fra nomi egregi inglesismi e strizzate d’occhio, non dà adito a dubbi: Blackwater, “the Circuit” (il termine usato dagli addetti ai lavori per indicare quel mondo), “sicurezza privata”, “incarichi di varia natura”. Disponibili sia in Italia sia all’estero, esperti di zone di conflitto, personale altamente qualificato. Lavoriamo senza fare domande.

Nel mondo di superficie le CMP (compagnie militari private) sono un fenomeno ben noto. La Blackwater Worldwide (oggi Academi) è una CMP a cui il governo degli Stati Uniti ha appaltato incarichi di “gestione della sicurezza” in tutto l’Iraq. Al quattordicesimo civile Iraqeno ucciso il gruppo ha cambiato nome, condannato un paio di operativi ed è andato avanti. Tutt’oggi gestisce un centro addestramento di 3.000 ettari negli USA e forma più di 35.000 operatori di sicurezza ogni anno.

Al netto delle sfumature linguistiche, sono mercenari. “Operatori di sicurezza” dove serve sfuggire alle maglie della Convenzione ONU sui Mercenari (che ne vieta l’utilizzo, ma che comunque non è stata firmata da paesi quali Cina, Francia, India, Giappone, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. +1 all’Italia). Un mondo che secondo Human Rights First è tutt’altro che esente da criticità e zone d’ombra; ma che, comunque, si presenta ammantato di legittimazione e legalità. Corporate warriors.

Nel Deep Web, in dieci righe di italiano, trovo il riflesso distorto di quel mondo.

Ora: è il 2009. Metal Gear Solid IV: Guns of the Patriots è uscito da qualche mese, infiammando l’immaginazione dei ragazzini con un futuro distopico in cui le CMP hanno sostituito gli eserciti regolari. In tanti sanno cosa sia una Compagnia Militare Privata. L’annuncio del Consorzio potrebbe anche essere la burla di un coetaneo fresco di Playstation.

Certo che però è scritto bene. Abbastanza da sembrare serio, non troppo da sembrare artefatto. Cazzo, ma sarà mica vero?

*

Il messaggio del Consorzio si rivolge principalmente alla potenziale clientela, ma invita anche gli aspiranti Expendables a scrivere all’indirizzo in calce.

Il Deep Web mi sta facendo dondolare davanti alla faccia qualcosa di accessibile, qualcosa che almeno in apparenza risponde al sogno di ogni surfista nel buio. Ignoro la voce della ragione, sviluppata nel confronto quotidiano con i troll di 4chan, e mi convinco che vale la pena abboccare. Cosa potrebbe mai succedere?

Dumitru nasce così: è il pesce dietro cui nascondermi, da lanciare sull’amo digitale. All’inizio ci credo poco, ho paura che ne venga fuori il cugino scemo di Nicolai Lilin. Per dargli tridimensionalità mi affido ai racconti del suo omonimo mio compagno di corso. Quel briciolo di verità sembra farlo stare in piedi. Sull’onda di un potente “sticazzi, è solo un gioco” tiro fuori cinque righe di presentazione e le spedisco. Non mi risponderanno mai; e anche se mi rispondessero, cosa potrebbero mai dirmi?

Mi rispondono dopo una settimana. Il tono della mail è identico a quello del messaggio originale. Punteggiatura, lessico e sintassi disegnano l’ombra di una Bestia Mitologica già nota ai quei tempi: il quarantenne che usa Internet. Solo l’ombra: c’è un seppur minimo sbattimento, l’idea che chi scrive non sia un mago della tastiera ma che comunque ci provi. Se è un diciottenne infottato con Metal Gear Solid, è bravo.

All’inizio lo scetticismo è tutto loro. “Curriculum interessante, ma come puoi capire ci contattano un sacco di cazzari”. Certo, capisco. Insisto con gli aneddoti, rispondo alle domande. Non mi chiedono mai dettagli personali, anzi: il Consorzio si basa su uno stretto anonimato e gli incontri di persona fra operativi sono molto rari. Tutta la comunicazione avviene online, su canali criptati come quello. E i pagamenti? Dollari, euro o Bitcoin. A preferenza.

Mi spiegano le regole di impiego: un primo incarico è di prova, per verificare che io non sia un cazzone. Da lì, assegnano le missioni ai vari operativi in base a esperienza e capacità.

Ci scambiamo informazioni e curiosità in una decina di mail a qualche giorno di distanza l’una dall’altra. Mi spiegano le regole di impiego: un primo incarico è di prova, per verificare che io non sia un cazzone. Da lì, assegnano le missioni ai vari operativi in base a esperienza e capacità. Nel tempo si parla anche di lavori all’estero e grosse cifre.

Sono cauti. Ogni mail è un invito a proseguire, tutto potrebbe fermarsi se io non rispondessi. Insisto nel gioco cercando di farmi un’idea su chi stia dall’altra parte, ma non ci riesco. Fino a questo momento sono solo chiacchiere: un passettino in direzione della vetrina, ma la vetrina è sempre chiusa.

Poi la bolla scoppia.

Bene, grazie per la disponibilità che hai mostrato in questi giorni. Ti confesso che non sei il primo a contattarci e che questo è il momento in cui la maggior parte di quelli che ci scrivono si tirano indietro. Se riceveremo una tua conferma definitiva, provvederemo a inviarti i dettagli per il primo incarico di prova.

L’incarico riguarda un soggetto residente nel Nord Italia che dovrà essere disarticolato a livello fisico (in maniera non letale). Ti invieremo gli estremi identificativi e una foto. L’incarico non è retribuito ma confermerà la tua serietà. Una volta che ne avremo verificato lo svolgimento effettivo, procederemo con gli step successivi”.

Disarticolato a livello fisico. Vabbè.

Vi confermo mia disponibilità a primo incarico”, dice Dumitru.

Non mi risponderanno mai. Ne sono convinto: abbiamo spinto entrambi fino al rispettivo limite estremo, e ora siamo fermi nell’impasse di una reciproca presa per i fondelli.

Dopo una settimana riapro TorMail.

C’è un messaggio non letto nella posta in arrivo. “Dettagli primo incarico”. Ha almeno un allegato.

*

È a questo punto, a un passo dalla Tana del Bianconiglio, che mi caco sotto. Cancello la mail senza leggerla. Cancello il mio indirizzo TorMail. Cancello Tor.

Suppongo che nel mio cervello siano veleggiate idee tipo “se la apri sei complice”, o qualcosa del genere. Di sicuro chiunque ci fosse dall’altra parte mi aveva convinto. Certo, le possibilità erano infinite: magari il diciottenne aveva uno zio che sperava venisse picchiato da un rumeno disoccupato e sprovveduto. Magari l’allegato era una pernacchia con cui lo scherzo si sarebbe svelato come tale. Magari la verità era una tacca sotto le aspettative: non una compagnia mercenaria, quanto piuttosto reclutamento di bassa manovalanza criminale. Boh. La verità è che non lo scoprirò mai.

Oggi TorMail non esiste più, e la bacheca su cui avevo trovato il messaggio del Consorzio è irrintracciabile. L’ennesima storia vera dal Deep Web offre una morale deprimente: la vetrina resta chiusa, e di aperto c’è solo il dubbio eterno sui confini della verità in uno spazio (quello digitale) che si nutre di cazzate auto-alimentanti.

Il Consorzio ha guadagnato un posto d’onore per alcuni inquietanti riferimenti reperibili tutt’oggi nel Web di superficie. E, così, si aggiunge alle tante leggende della rete oscura: Holy3, la chat che ti predice il futuro; The Human Experiment; la Red Room. Tutte cose a tema orrorifico, atte a solleticare l’immaginazione dei nativi digitali che, nonostante tutto lo scibile umano a portata di click, si annoiano. Nello specchio del Deep Web si riflette un Internet che è proprio uguale alla realtà: complicato, stratificato e palloso. Ma l’immagine riflessa non offre altro che fantasmi, illusioni di un mondo di terrori che in ultima analisi non esiste.

Forse.

O forse c’è qualcuno, da qualche parte a Milano, che ogni sera guarda il tramonto da un tavolino sui navigli. Lo immagino quarantenne e indebitato. Mentre il sole scompare oltre l’orizzonte, sorseggia uno spritz e pensa: e anche oggi me l’avete sucata. Nativi digitali del cazzo.

Luca Pappalardo
Classe 1989, in realtà si chiama Luca Marco. Tra la laurea e il dottorato scrive di Diritto con il suo nome esteso e di altre cose con quello ridotto. Ogni tanto si improvvisa attore. Inoltre, vive a Pisa.

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