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Esattamente cinquant’anni fa, veniva pubblicato un singolo destinato a inscriversi tra i più leggendari momenti dell'intera storia del pop. Festeggiamo assieme mezzo secolo di Strawberry Fields Forever / Penny Lane, il doppio lato A che cambiò per sempre i Beatles.

Alla fine del 1966 i Beatles erano in una situazione paradossale. Avevano dato alle stampe Revolver, capolavoro frutto di tre mesi di registrazioni di cui nemmeno un secondo era riproducibile da vivo con i mezzi dell’epoca. I loro concerti erano assordanti a causa delle grida del pubblico e contenevano canzoni datate, lontane dalle ambizioni della band. Ciò nonostante erano stati in tour in tutto il mondo, finendo per essere maltrattati dal regime filippino e venire scambiati per l’Anticristo negli Usa. Anche per questo motivo, Lennon passò i concerti a insultare il pubblico e alla fine del tour George Harrison annunciò al manager Brian Espstein di voler uscire dal gruppo. Paul McCartney racconterà quei giorni al suo biografo Barry Miles: “Non ne potevamo più di essere Beatles. Era tutto finito, tutta quelle stronzate da ragazzini, quelle grida: non ne potevamo più”.

I Beatles affrontarono quel momento di crisi ricorrendo a due attività piuttosto umane: distrarsi e rifugiarsi nel passato. Il risultato finale fu un singolo considerato dalla critica “il miglior 45 giri della storia”, il tipo di 45 giri beatlesiano con due lati A ma anche il primo singolo della band a non finire dritto in cima alle classifiche dai tempi di From Me To You. Strawberry Fields Forever / Penny Lane, uscito cinquant’anni fa esatti (per la precisione, il 17 febbraio 1967; negli Stati Uniti però, era già stato pubblicato quattro giorni prima), segnò inoltre l’inizio delle registrazioni del nuovo album del gruppo, un progetto all’epoca ancora da definire ma che noi posteri chiamiamo Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band. Capirete che, a mezzo secolo da quegli eventi, è necessario fermarsi per calcolare la portata di quel singolo.

La copertina originale del singolo, 1967.

Dopo il tour di Revolver, John decise di distrarsi dandosi al cinema con una parte in un film di guerra, How I Won The War, le cui riprese si svolsero in Spagna e per cui trovò anche un nuovo look, quello con gli occhiali tondi da vecchia zia di campagna. Paul McCartney a sua volta, passò il suo tempo ad ascoltare Stockhausen, frequentare l’underground londinese, finanziare riviste come IT – International Times, elogiare Pet Sounds dei Beach Boys e infine cercare una nuova via per il gruppo, di cui di fatto diventerà il nuovo “direttore musicale” (e leader, diciamo pure). Ringo intanto andava in vacanza per staccare da quei compagni diventati ormai insopportabili. Harrison invece ci ripensò, decidendo di rimanere nella band; probabilmente si comprò un altro po’ di strumenti musicali indiani.

Quando il 24 novembre 1966 i quattro tornarono agli studi di Abbey Road per parlare del nuovo album, cominciarono con una sognante ballata di John scritta in Spagna: nata come un giro d’accordi a sostegno di un testo nostalgico e personale, Strawberry Fields Forever è la prima canzone-mostro dei Beatles. La sua genesi fu travagliata, con Lennon che chiese diversi arrangiamenti a George Martin, per poi minacciare di ricominciare da capo e infine accontentarsi di costringere i tecnici di studio a cucire assieme due versioni diverse. Cambiandone la velocità, i due brani finivano miracolosamente per avere la stessa tonalità, rendendo il desiderio di Lennon realizzabile.

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La nascita del mostro.

Nella sua prima versione, Strawberry Fields Forever si presenta come un brano fragile e personale con un inizio di poco diverso da quello che conosciamo. Si apre infatti con il verso  “No one, I think, is in my tree…”, preferendo la seconda strofa al ritornello e dando al pezzo un taglio personale, auto-analitico, quasi (fatemelo dire) emo: “Nessuno è sul mio stesso ramo (ovvero alla mia altezza), ciò vuol dire che devo stare molto in alto o molto in basso”. In questa take la regressione all’infanzia è dichiarata dal verso-chiave, che diventerà l’incipit del brano: qui John canta “Let me take you back”, non “Let me take you down”. A vincere in questa take è la componente temporale e nostalgica, l’impossibilità di un ritorno a un passato perduto per sempre, in cui, per l’appunto, “nothing is real and nothing to get hung about”.

Lennon si sente solo, intrappolato in un matrimonio senza amore con Cynthia, alle porte di quel periodo buio che durerà fino a metà 1968, fino all’incontro con Yoko Ono. In quel momento John era, particolare forse non scioccante, pieno di droghe varie, una vecchia conoscenza del gruppo dai tempi di Amburgo, quando per reggere lo stage per tutta la notte i quattro si riempivano di pillole di tutti i tipi. Ora le cose erano cambiate: le droghe erano tutto per John, almeno in termini di ispirazione. Prendiamo i suoi brani di Revolver. Di questi, quattro su cinque parlavano apertamente di LSD – I’m Only Sleeping, Tomorrow Never Knows, Doctor Robert, She Said She Said. (L’unica eccezione era And Your Bird Can Sing, scritta in collaborazione con Paul in un momento sicuramente poco sobrio, a giudicare dal risultato.) Nello stesso album Paul aveva sì cantato le lodi della marijuana in Got to Get You Into My Life ma era anche riuscito a firmare pezzi “maturi” come For No One ed Eleanor Rigby. Oltre alla droga, nella vita di Lennon non sembrava esserci molto altro; ecco quindi il ritorno all’infanzia, una parziale regressione al fanciullo che fu contemporaneamente un’esigenza psicologica e un effetto collaterale degli acidi.

Strawberry Fields era, com’è noto, un luogo dell’infanzia di John, a Liverpool: un giardino di una scuola gestita dall’Esercito della Salvezza, una fortezza in cui i bambini giocavano, facevano a botte, crescevano. Il genere di posticino che, brutto o bello, finisce per essere idealizzato nella mente di qualunque persona: John era orfano di padre, sua madre Julia lo aveva lasciato alle cure di zia Mimi, Strawberry Fields era un posto tranquillo e felice, semplicemente. Ma nel bel mezzo della grande crisi del ‘66 diventò anche l’aula di tribunale in cui l’allora ventiseienne pensava a sé, al suo passato e al suo futuro. Fu forse la prima crepa nella figura da bulletto infrangibile di Liverpool – una fase di difficoltà post-adolescenziale che il compagno Paul aveva già declinato due anni prima con Yesterday.

Labirintico, indeciso e col vago sospetto di essere un fallito, Lennon scrisse il pezzo e lo portò in studio, optando prima per una versione sobria (chitarra, basso, batteria e Mellotron suonato da Paul), solo scalfita da una chitarra slide. Il giorno dopo, tornato in studio, pretese da Martin una versione più veloce e con un’orchestra quasi completa: è a questo punto che Harrison aggiunse il swarmandal, uno strumento a corde indiano che divide le sezioni del brano. Infine, come detto, in un momento di grande concordanza e compromesso, avvenne l’unione: le differenti versioni di Strawberry Fields Forever vengono tagliate e cucite assieme, il Mellotron ad aprire e il swarmandal a fare da collante, mentre alle percussioni di Ringo veniva lasciata la chiusa tribal-psichedelica, impreziosita da un torrente di voci al contrario.

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I buried Paul...

Una di queste voci divenne piuttosto famosa, o meglio famigerata. Secondo alcuni ascoltatori dell’epoca particolarmente sballati, conteneva un messaggio segreto: “I buried Paul”, “Ho sepolto Paul”. Era la confessione di John, anzi del gruppo. Perché Paul era morto durante la lavorazione del 45 giri ed era stato sostituito da un sosia (il sosia più talentuoso della storia, come tutti sanno). Una teoria cospiratoria nata in ambiente lisergico, certo, ma un punto importante nella storia di questo singolo. Torniamo quindi alla storia di questo incidente automobilistico.

Nel gennaio del 1967 Paul McCartney rischiò di morire uscendo fuori di strada mentre faceva quello che sarebbe diventato il giretto in Aston Martin più famoso nella storia del pop. Le registrazione del proto-Sgt Pepper’s erano iniziate da poche settimane e Paul se la cavò con poco, giusto un grosso taglio sul labbro superiore, che cercò di coprire facendosi crescere i baffi. Fu un momento molto particolare nella storia dei Beatles: non tanto perché Paul spinse gli altri tre a farsi crescere i baffoni, arrivando nel giro di pochi mesi a influenzare al ribasso le vendite di lamette da barba nel Regno Unito. No: fu un momento importante perché dimostrò quanto Paul e John e i Beatles in generale fossero sostanzialmente dei copioni.

Paul dopo l’incidente.

Dai capelli a caschetto alle giacche di pelle, dal baffo all’LSD, i quattro si influenzavano a vicenda da tempo, ma a conti fatti Paul risulta essere stato il principale trend-setter (per quanto alcune paturnie esotiche del gruppo fossero arrivate senza dubbio da Harrison, e Lennon, almeno agli inizi, avesse funto da capo-banda indiscusso). Coerentemente con ciò, alla fine del 1966, Paul aveva sentito Strawberry Fields Forever capendo subito il da farsi: doveva scrivere anche lui una canzone su Liverpool.

Penny Lane era il nome di una strada della loro città. Ian McDonald, il profeta Abramo dei fab four, racconta nel suo The Beatles – L’opera completa che “Lennon e McCartney si trastullavano con questo titolo da un anno e mezzo, dopo che avevano messo insieme un elenco di nomi di luoghi di Liverpool mentre, nel corso del 1965, scrivevano le canzoni per Rubber Soul”. Su Rubber Soul in effetti compariva già un brano come In My Life: non solo una delle più belle collaborazioni della coppia Lennon-McCartney, ma anche anche un primo omaggio ai tempi dell’infanzia.

Adesso però non fatevi confondere: Penny Lane è 100% McCartney. Lo è eccome: dal testo descrittivo e giocoso che racconta la quotidianità di una città che qui sembra un piccolo borgo, al piano in staccato già diventato il copyright di Paul negli ultimi anni, Penny Lane da una parte è la quintessenza del “Paul Raffinato”, autore in grado di macinare mid-ballad con una facilità disarmante e una frequenza unica; ma è anche un altro brano dall’atmosfera molto drogata, sebbene in maniera parecchio diversa da quella che contraddistingue l’altro lato del 45 giri. Resta comunque un classico di quel “pop psichedelico” che a cinquant’anni di distanza continua a influenzare e affascinare infinite schiere di epigoni, specie (al giorno d’oggi) di area cosiddetta “indie”.

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Le prove di Penny Lane.

A cinquant’anni dalla sua uscita, il singolo Strawberry Fields Forever / Penny Lane, rimane leggendario: doppio lato A, due canzoni rappresentative del duo Lennon-McCartney, prove tangibili dell’alchimia tra i due, e allo stesso tempo così diverse e lontane. La prima è un groviglio, un brano contorto su se stesso; mentre la seconda esplora i luoghi dell’infanzia rivendicando il suo essere naïf – tutti i ricordi d’infanzia, se felici, lo sono. Entrambe richiesero molte giornate di lavoro, un’eccezione per i tempi ma una nuova regolarità per i Beatles, con le varie versioni di Strawberry e le tre linee di pianoforte registrate da Paul per rendere la sua Penny Lane così… saltellante. E poi il solo di corno inglese, la campana del pompiere. Anche per questo il singolo si meritò il doppio lato A (i Beatles lo avevano già fatto con We Can Work It Out / Day Tripper e lo avrebbero ripetuto con Hey Jude / Revolution): non è possibile classificare o gerarchizzare due brani agli antipodi. Si possono solo lasciarli lì, senza ordine.

Come andò a finire forse lo sapete. Il manager Brian Epstein decise che il gruppo aveva bisogno di un singolo forte per rispondere alle voci che volevano i Beatles morti, in crisi, passati. Chiese a Martin se aveva qualche pezzo nuovo all’altezza e il produttore disse: “Ho i due migliori pezzi che abbiano mai fatto”. Fedeli alla linea per cui il materiale dei singoli non poteva finire nell’LP, i Beatles sacrificarono i due brani. E cominciarono da capo. Due giorni dopo la chiusura di Penny Lane tornarono ad Abbey Road con una nuova canzone, dal titolo provvisorio A Day In the Life Of: un altro pezzo personale e sognante che sarebbe stato bene nel loro album “personale”, non è vero?

I Beatles non ci pensarono troppo. Per consolarsi, si misero a lavorare su un nuovo progetto inventato dall’ormai irrefrenabile Paul: tempo qualche mese, e nei negozi sarebbe arrivato non un 45 giri ma un intero nuovo album, e il suo titolo sarebbe stato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Pietro Minto
Caporedattore di Prismo, collabora con "La Lettura" del Corriere della Sera e Rolling Stone. Ha una newsletter che si chiama Link Molto Belli.

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