Nell’immaginario collettivo Nintendo è sinonimo di Super Mario, Zelda e, a essere generosi, Metroid. Ma c’è un franchise milionario che da quindici anni ne segna le fortune, senza però ottenere il riconoscimento dovuto: Super Smash Bros.
Grazie soprattutto al successo della Wii, Nintendo è oggi considerata la più inclusiva delle aziende che attualmente formano il triumvirato del home gaming. Quando nel 2006 Sony e Microsoft portarono l’alta definizione nel mercato delle console, concentrandosi su titoli pensati per adolescenti e giovani adulti, la casa di Kyoto preferì rivolgersi a una fetta di mercato che le rivali avevano lasciato scoperta: le famiglie. Questa decisione fu commercialmente azzeccata nel breve-medio termine, ma portò con sé un lascito pesante: oggi, infatti, dopo aver saturato il mercato dei cosiddetti casual gamer, che nel frattempo si sono trasferiti in larga parta sui dispositivi mobile, Nintendo si trova in una posizione dove i suoi marchi – a eccezione di Super Mario e Zelda – non riescono a fare breccia tra gli utenti tradizionali, che li reputano perlopiù materiale per bambini o profani. Inoltre, la sua più recente console casalinga, la WiiU, è stata un fallimento commerciale, e se ora le speranze sono riposte nell’imminente Nintendo Switch, la strada per ricostruirsi un’identità di software house d’eccellenza nell’immaginario collettivo è ancora lunga.
Di conseguenza, uno dei punti da cui ripartire potrebbe essere quella serie che negli ultimi dieci anni ha costituito un’eccezione nella narrazione kids-friendly dell’azienda: Super Smash Bros. Nata nel 1999 sul Nintendo 64, a oggi conta quattro titoli e più di trenta milioni di copie vendute in tutto il mondo; soprattutto – ed è questo a renderla speciale – si è insediata nella scena dei picchiaduro competitivi, superando in popolarità capisaldi del genere come Street Fighter e Tekken. Eppure, la sua è la storia di un videogioco che “non doveva”: non doveva essere un picchiaduro, non doveva essere competitivo, non doveva mischiarsi alla famiglia dei giochi “seri”, quelli in cui i protagonisti sono calciatori, soldati o campioni di arti marziali. È una storia complicata, insomma.
Gli esordi: tra schiaffi, gettoni e salotti
Partiamo dal principio. I picchiaduro 1 VS 1 – noti anche come fighting games – nascono a metà anni ’80 e, per via della loro implicita natura competitiva, fin da subito trovano un habitat ideale nelle sale giochi, soprattutto grazie a Street Fighter II (1991). Il titolo Capcom è un successo planetario, secondo solo a Pac Man e Space Invaders, che da solo porta alla fioritura di un genere che nei decenni successivi attraverserà indenne il passaggio al 3D fino a giungere essenzialmente invariato ai giorni nostri. Questo conservatorismo formale non è però un vezzo stilistico fine a sé stesso, bensì il risultato di osservazioni sul campo (leggi: esperimenti finiti male) dalle quali è emerso che l’adozione di uno spazio tridimensionale rende il gameplay troppo confusionario. Di conseguenza, mentre altrove venivano creati mondi paralleli sempre più simili al nostro, negli ultimi vent’anni i picchiaduro hanno cercato l’innovazione seguendo strade diverse: affinando in modo maniacale le meccaniche di base, aggiungendone di nuove e concentrandosi sul bilanciamento tra i singoli combattenti, diventando negli anni sempre più complessi e difficili da padroneggiare. Così, un genere che era nato per attirare quanta più gente possibile si è gradualmente trasformato in una disciplina semiagonistica, tant’è vero che durante questa fase di maturazione si è imposto come uno degli e-sport più giocati in assoluto, con decine di migliaia di appassionati sparsi per il mondo e montepremi che sempre più spesso si aggirano sui centomila dollari.

Ora: vista la loro storia, verrebbe naturale pensare che i campioni di popolarità di questa branca siano gli eredi dei primi Street Fighter, Mortal Kombat o Tekken, ma sarebbe un errore, perlomeno in parte. Lo scorso luglio, infatti, è stato reso noto che all’ultima edizione del Community Effort Orlando Super Smash Bros 4 ha superato per partecipanti l’allora recentissimo Street Fighter V. Esatto: il titolo prodotto dalla “inclusiva” Nintendo ha evidentemente trovato adepti anche tra coloro che si definiscono hardcore gamer.
Solo un caso? In un certo senso, sì.
Quando a metà anni ’90 il creatore di Kirby Masashiro Sakurai propone alla dirigenza Nintendo un prototipo di picchiaduro di nome Dragon King: The fighting game, le reazioni sono tiepide. All’epoca, di questo progetto si sa poco (nelle poche immagini che circolano in rete si vedono solo quattro personaggi combattere in livelli dotati di piattaforme dalle quali si può cadere), ma quando nel 1999 Nintendo pubblica Super Smash Bros si capisce finalmente qual era l’intuizione di Sakurai: creare un incrocio tra un party game e un picchiaduro con personaggi della Nintendo. Lo si potrebbe definire una versione a schiaffi di Mario Kart, ma sarebbe riduttivo: la genialità dell’opera consiste infatti in meccaniche innovative, semplici da imparare ma difficili da padroneggiare, che pescano dall’esperienza dei platform per generare un picchiaduro che ancora oggi è unico nel suo genere.
Qualche esempio: come nei platform – dai quali provengono molti dei personaggi – la maggior parte degli stage (e la totalità di quelli legali nel gioco competitivo) sono costituiti da una o più piattaforme sospese nel vuoto; di conseguenza, il salto, da mossa che nei picchiaduro classici è sconveniente, diventa un’azione chiave di Smash, tanto che ne esistono tre varianti. Parimenti, esistono pericoli ambientali al di fuori del controllo del giocatore (tornado, astronavi, lava e via dicendo) e potenziamenti che, apparendo all’improvviso, cambiano costantemente il ritmo di gioco e costringono il giocatore a spostare la propria attenzione dall’avversario alla minaccia – o all’opportunità – rappresentata da esse. Dal canto loro, poi, le “mosse” sono un inno alla semplicità e si riducono a un tasto per gli attacchi speciali e uno per quelli normali, da combinare con lo stick per creare mosse differenti, più l’attacco Smash, peraltro di facile esecuzione. Infine, a differenza degli altri picchiaduro, per vincere non bisogna portare la barra dell’energia degli avversari a zero bensì scagliarli fuori da quello che nei platform si chiama quadro.
Insomma: un minimalismo distante anni luce dalle famose mezze lune di Street Fighter o dalle combinazioni ancora più complesse di Tekken. Ciò nonostante, proprio l’essenzialità delle mosse, unita all’estrema mobilità dei personaggi e a quel modo così particolare di sconfiggere l’avversario, crea degli scontri spettacolari e, di fatto, così imprevedibili da far sembrare i picchiaduro tradizionali – perlomeno ad alcuni dei fan più accaniti – poco più di partite a morra cinese.
EVOluzione: Melee!
Ma il vero protagonista dell’ascesa di SSB non è il primo capitolo, tutto sommato abbastanza grezzo, bensì il sequel: Super Smash Bros Melee. Qualche dato: pubblicato nel 2001, vende più di sette milioni di copie e diventa il bestseller del Nintendo GameCube, sorpassando comodamente sia Super Mario Sunshine, sia The Legend of Zelda: Wind Waker. Perfino l’iconico Tekken 3, killer app della ben più diffusa PlayStation, si ferma a sei. Se poi dovessero servire conferme della sua longevità, basti sapere che all’Evolution Championship di quest’anno – il più importante torneo di picchiaduro del mondo – a fianco di titoli recenti come Mortal Kombat X, Pokken Tournament o l’ultima reiterazione di Smash su WiiU, figura ancora lui, Melee, ritenuto a ragione uno dei migliori giochi di sempre.
Rispetto al predecessore, Melee è superiore sotto ogni aspetto: 29 arene anziché 9, il doppio dei personaggi e, naturalmente, una grafica decisamente più pulita. Soprattutto, migliora il gameplay: l’idea fondamentale rimane invariata, ma la velocità raddoppia insieme alla precisione e al numero di azioni possibili, ed è proprio su queste basi che si avvia un’operazione “dal basso” in cui i giocatori trasformano un party game pieno di pupazzi in un picchiaduro a suo modo estremamente tecnico. Innanzitutto la community disattiva tutti quelle opzioni che rendono il gioco più confuso (per esempio, si gioca a “vite” e non a tempo e senza strumenti), decidendo inoltre di affrontarsi solo nei livelli senza pericoli ambientali; in secondo luogo, scoprono le cosiddette “advanced techniques”, una sorta di equivalente delle mosse speciali degli altri picchiaduro che però, a differenza di questi ultimi, non sarebbero previste dal gioco. Per esempio, il wavedash consente al personaggio di scivolare molto velocemente sul terreno tramite singoli gesti eseguiti in rapida successione, ma a lungo non è stato chiaro se fosse un glitch o una tecnica complessa inserita volutamente dagli sviluppatori (per inciso: nel 2008 Sakurai ha dichiarato che in fase di testing avevano effettivamente notato questa possibilità, ma non l’avevano inserita di proposito).
La scoperta e l’uso delle tecniche avanzate dimostra peraltro che nei videogiochi non ci sono regole formali, ma leggi fisiche: a calcio non prendiamo la palla con le mani così come nel pugilato usiamo solo i pugni, ma in un videogioco il vero regolamento è dato solo dall’elasticità del codice, e quello di Melee si dimostra particolarmente malleabile. Ecco perché un old school player come Wife lo ha definito il “sandbox dei picchiaduro”: ogni giocatore plasma il personaggio nel modo che più gli si confà e, assieme al resto dell’utenza, contribuisce a modellare il meta-gioco, agendo in un ambiente virtuale aperto e recettivo. Un ambiente che viene ben descritto in un agile documentario della durata di quattro ore intitolato The Smash Brothers (2013), scritto e diretto da Travis Beauchamp, in cui l’autore ripercorre in ordine cronologico la nascita della scena competitiva attorno a Smash. Una storia che inizia nei primi anni Zero e che vede ragazzini di ogni estrazione sociale – dai preadolescenti un po’ sfigati della west coast ai ventenni afroamericani del Bronx – attraversare il continente americano per partecipare a tornei underground, cioè poco più che ammucchiate di adolescenti nelle villette dei più ricchi di loro. Una scena che cresce esponenzialmente nell’arco di pochi anni, e che fa sì che a metà degli anni Zero Smash venga accettato nel giro dei “grandi” (la Major League Gaming prima e la Evolution Championship Series poi), dove dai divani dei tinelli della suburbia americana si passa a location gigantesche, con maxischermi che proiettano gli incontri più significativi e sponsor che sostengono i giocatori migliori.
La crisi d’identità di Brawl e il ritorno con Sm4sh
Un fenomeno tutt’altro che scontato, ma a cui la Nintendo reagisce con ambiguità. Quando nel 2008 esce l’attesissimo sequel di Melee, Super Smash Bros: Brawl, di primo acchito si pensa a una evoluzione del predecessore: cresce il numero di personaggi e soprattutto esalta la presenza dei primi eroi esterni alla famiglia Nintendo, tra cui Sonic, dell’ex rivale Sega, e Solid Snake della Konami (per dare la misura del successo di Smash: il protagonista di Metal Gear Solid, rimasto per dieci anni un’esclusiva della Playstation, è stato scelto dopo che il suo creatore, Hideo Kojima, ha letteralmente implorato Sakurai di inserirlo). Eppure, a uno sguardo appena più attento si nota che la velocità è stata ridotta e che le tecniche avanzate sono state eliminate, in quanto secondo gli sviluppatori “aumentavano il gap tra giocatori casual e competitivi”. Del resto, lo stesso Sakurai non fa mistero di aver sviluppato Brawl contro la scena competitiva che si era imposta negli ultimi anni e tanto aveva giovato a Melee. Come che sia, il risultato è un gioco molto più semplice e difensivo del predecessore, che finisce col dividere la comunità in due (nel 2011 nascerà un gioco indipendente, Project M, che unisce la grafica e i personaggi di Brawl: con la “fisica” e il gameplay di Melee) e che porta alla scomparsa dell’intero franchise dai radar dei grandi eventi videoludici, restando confinato in tornei specializzati come il Pound, l’Apex e il Genesis.
Questa sorta di medioevo sembra interrompersi però nel 2013: EVO indice un sondaggio su Facebook per decidere a quale gioco assegnare l’ultimo posto libero della prestigiosa rassegna e Melee stravince. Non basta ancora, però. Siccome i sondaggi sui social network contano come il due di coppe, per verificare quanto fanno sul serio i giocatori viene quindi indetta una raccolta fondi per la ricerca contro il cancro al seno a cui i giocatori di Melee contribuiscono con oltre duecentomila dollari, stracciando così ogni concorrenza e guadagnando l’ammissione del gioco al torneo. Vittoria? No: Nintendo America, seguendo strategie aziendali avulse da ogni senso della realtà, a tre giorni dall’evento proibisce la trasmissione degli incontri di Smash, tagliando così le gambe ai giocatori professionisti, che proprio grazie agli streaming su Twitch hanno costruito negli anni la loro popolarità e, con essa, quella del gioco (sarebbe come se ai mondiali la FIGC non concedesse i diritti televisivi dell’Italia). Puntualmente, l’internet esplode e nel giro di cinque ore la multinazionale torna sui suoi passi e dà il via libera allo stream: un segnale importante, che non solo porta alla riammissione dei vari Smash nella serie A, ma anche a una diversa filosofia di sviluppo del quarto episodio del franchise.
Prima dell’uscita di Super Smash Bros for Nintendo 3DS and Wii U – o Sm4sh, com’è più comunemente noto – le premesse non sembrano delle migliori: in un’intervista Sakurai si chiede infatti “perché avevo creato un gioco (Melee, NDR) così fortemente indirizzato a videogiocatori esperti? Con Brawl ho cercato un giusto mezzo, puntando a bilanciare. Ad oggi abbiamo tre capitoli di Smash, ma, semmai ce ne sarà un quarto, dubito che sarà spinto verso gli hardcore gamers. I fan di Melee […] faticheranno a capirlo, ma quel gioco era troppo difficile”. Dichiarazioni simili fanno pensare a un’ulteriore semplificazione delle meccaniche, ma quando il gioco esce nei negozi nell’autunno del 2014 ciò che si presenta ai giocatori è una sorta di mediocritas aristotelica in cui gli sviluppatori riconoscono le esigenze sia di chi voleva solo un altro party game, sia di chi lo considera un picchiaduro a tutti gli effetti. In Sm4sh, le arene che partono architettonicamente troppo complesse per essere usate in contesti competitivi possono essere adattate (con un solo comando) in livelli semplificati, senza per questo perdere l’estetica originaria. La modalità online, finalmente solida, presenta esplicitamente due opzioni: “for fun”, dedicata ai giocatori occasionali, e “for glory”, nella quale vigono le regole da torneo che i fan hanno affinato negli anni. Inoltre, dall’uscita a oggi si sono susseguite ben 13 patch mirate in larga parte a limare e ritoccare i personaggi, secondo indicazioni dirette e indirette provenienti dai giocatori. Per questi motivi, nonostante Sakurai continui nelle interviste a mancare di rispetto ai fan della competizione (in quello che è uno strano rapporto sadico, visto che sono loro l’unico target di quelle dichiarazioni), le parole dicono una cosa e i fatti un’altra: al netto dell’assenza delle tecniche avanzate, Sm4sh è a tutti gli effetti un gioco che viene ritoccato continuamente solo in funzione degli appassionati e dei loro desiderata.
Il simbolo di questa conversione “spirituale” del gioco è senz’altro dato dall’inclusione nel roster di personaggi – a fianco di altri third party come Megaman, Cloud Strife, Bayonetta e Pac Man – di Ryu di Street Fighter. Considerato uno dei personaggi più forti del gioco, è anche quello più difficile da padroneggiare, in quanto conserva il suo set di mosse classiche (eseguibili sia usando i comandi del titolo Capcom che quelli semplificati di Sm4sh) e, potenzialmente, il più forte. Senonché perfino Gonzalo “ZeRo” Barrios, il miglior giocatore del mondo, ne esalta spesso l’incredibile potenziale ma si guarda bene da iniziare a usarlo; pertanto, la considerazione di cui gode Ryu rappresenta un’efficace sintesi dell’attuale situazione degli Smash nel panorama degli e-sports. I dati sui partecipanti dell’ultimo EVO e dell’ultimo CEO ci mostrano infatti un ambiente pesantemente sbilanciato, dove da un lato abbiamo un numero di partecipanti secondo solo a Street Fighter, mentre dall’altro ci sono montepremi così bassi da aver spinto molti professionisti a lamentarsi pubblicamente del trattamento loro riservato all’EVO 2016, sia riguardo la gestione dei premi in denaro, sia per altre problematiche organizzative che li hanno relegati a fanalino di coda della rassegna.
Il gioco fatica insomma a ricevere un riconoscimento reale, sia per via della visione conservatrice degli organizzatori, poco propensi ad accettare Super Mario in arene riservate a Uomini Veri©, sia soprattutto per il tradizionale disinteresse verso gli e-sports mostrato da Nintendo, che solo in tempi recenti ha visto dei cambiamenti in positivo, dovuti perlopiù all’impegno delle singole sedi nazionali.
Profeti in patria
È questo il caso dell’Italia, paese in cui la community – attiva fin dai tempi di Melee e cresciuta esponenzialmente con l’uscita di Sm4sh – è fortemente organizzata, tanto che in tutte le regioni si tengono (se non settimanalmente, mensilmente) tornei locali, nonché un grande torneo nazionale nei pressi di Bologna, l’Icarus, giunto nel 2016 alla sua seconda edizione. Il vincitore di quest’anno si chiama Manuel Coschignano, alias Blue Link, ed è un milanese di 26 anni stabilmente al primo posto nella classifica nazionale e capace di confrontarsi con i pesi massimi internazionali. I suoi incontri con MVD, statunitense ventunesimo nel power ranking mondiale, dimostrano che se solo i giocatori italiani fossero messi in condizione di viaggiare di più, potrebbero fare bene in Europa e forse nel mondo. La sua esperienza offre uno spaccato interessante di cosa significhi essere un giocatore professionista in Italia:
Da quanto giochi a Smash?
Dai tempi di Melee, penso siano passati 10 anni o giù di lì.
Quanto tempo gli dedichi ora che sei il numero uno in Italia?
Se non ci sono altri titoli che mi interessano, il mio Wii U è in simbiosi con il disco di Sm4sh: a volte gioco anche quattro ore filate. Rispetto però a quando mi allenavo per l’Icarus e per un altro torneo in Svizzera, comunque un po’ meno.
Sei il migliore in Italia, ma usi Link, uno dei personaggi considerati meno forti. Come la vivi? Pensi che sia dovuto al contesto italiano o il valore delle tier list andrebbe ridimensionato?
Sm4sh è un gioco piuttosto bilanciato che permette più o meno a tutti i personaggi di cavarsela. Al di là di Link nello specifico, la tier list conta sì qualcosa, ma non è da prendere come la Verità: vi sono infatti personaggi di cui gran parte dei giocatori non sa valutare il potenziale, perlomeno fino a quando qualcuno non ci vince un torneo grosso e si inizia a vederlo sotto una luce nuova.
Quali sono le differenze maggiori tra Smash e i picchiaduro classici? Credi che queste differenze ne influenzino la considerazione di cui gode tra gli e-sports?
La differenza maggiore è la libertà d’azione. Smash è un picchiaduro semplice e al tempo stesso molto profondo, in cui bisogna spesso entrare nella testa dell’avversario, capirne le intenzioni, studiarlo, leggerne i pattern. Tutto questo tenendo a mente la padronanza sulla mobilità del proprio personaggio rispetto a quella dell’avversario. Ciò detto, purtroppo ci si concentra troppo sulla sua natura di party game e questo spinge molti a non vederlo come un e-sports, per quanto vi siano diversi giocatori di picchiaduro classici che lo apprezzano.
Credi che in Italia arriveranno mai gli sponsor per i professionisti? Cosa pensi di come si muove Nintendo nei confronti del gioco competitivo?
Non so nel dettaglio quanto faccia Nintendo, ma già che guardi al competitivo lo considero un mezzo miracolo. Di sicuro servirebbero degli sponsor; a me arrivò qualche richiesta, ma la rifiutai perché si trattava di semplici accordi verbali e all’epoca c’era di mezzo il mio team, per cui o andavamo tutti o non andava nessuno. Comunque sia, penso che soprattutto in Italia ci sia bisogno di una maggiore attenzione verso la community.
Nel resto d’europa è diverso?
La scena europea, presa in generale, non si discosta molto dalla nostra, se non per una migliore organizzazione nei tornei e perché qui c’è un stacco maggiore di abilità tra top player e giocatore medio. Inoltre, qualche sponsor in più c’è, ma rimane poca roba rispetto alla situazione americana.
Quali prospettive vedi per la scena italiana ed europea? potrà mai rivaleggiare con quelle degli Stati Uniti e del Giappone?
Per quanto detto prima, in Italia siamo un po’ il fanalino di coda ma non credo sia da imputare alle capacità dei singoli giocatori e, anzi, secondo me ci sono tre o quattro di loro che all’estero potrebbero arrivare molto in alto.
Pensi che il tuo diventerà mai un lavoro in Italia come lo è già per i top player d’oltreoceano?
No, sinceramente non penso di farlo diventare un lavoro. Dal mio punto di vista, lavorare è un’altra cosa.

Come dargli torto? Certo nessuno può paragonare l’esecuzione di un wavedash in Melee all’estrazione del carbone in una miniera del Sulcis, eppure quello degli e-sports è un mercato sul quale – se non altro in Italia – varrebbe la pena investire di più, quantomeno sul lato della comunicazione: soprattutto se si è, come nel caso di Nintendo, un’azienda che deve recuperare visibilità tra le fasce della popolazione che l’hanno abbandonata durante e dopo la fase di espansione tra i giocatori occasionali. Alla luce della portabilità promessa dalla nuova console di Nintendo (che, com’è ovvio, rimpiazzerà la linea di console portatili della casa di Kyoto), sarebbe dunque un peccato che fossero di nuovo solo gli ostinati fan di Super Smash Bros a portare avanti un marchio che, malgrado tutto, negli anni è riuscito a ritagliarsi uno spazio considerevole. Per ora si rincorrono voci di un port di Sm4sh per la Switch, ma questo non può che essere solo un inizio: per entrare nella nona generazione di console servirà un titolo capace di raccogliere l’eredità dei predecessori – tanto su console casalinghe che portatili – e, soprattutto, i desiderata dei giocatori, che non sono per principio contrari all’inclusività di Sakurai & C. ma che (ragionevolmente) vogliono avere le opzioni pronte fin da subito per crearsi il gioco che preferiscono senza avere un’azienda che gli si metta di traverso.
Il percorso è chiaro e l’opportunità è pronta per essere colta: come sempre, tutto sta a saper ascoltare.
Alessandro Lolli nasce a Roma nel 1989. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Polinice, Soft Revolution Zine, Crampi Sportivi e DUDE MAG. È laureato in filosofia. A tempo perso lavora in un centro scommesse sportive.