Fine del sonno e jet lag sociale: dove ci sta portando il mantra del "24 ore su 24, 7 giorni su 7"?
Da qualche mese a Tor Pignattara, periferia est di Roma, affaccia sulla via Casilina una fila di vetrine illuminate sulle quali non scende mai la serranda. Sono gli spazi occupati dal supermercato Carrefour, che la scorsa primavera ha annunciato l’apertura permanente.
Quando operava sotto altre insegne e vendeva carrellate di modernità in offerta speciale, questo stesso grande magazzino è stato set di rapine violente per pellicole poliziottesche, nelle quali la mala agiva indisturbata e gli sbirri non potevano sparare. All’epoca tiravano giù le serrande al risuonar delle sirene del telegiornale del primo canale. Oggi qui è aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Fino a mezzanotte l’astronave parcheggiata sulla Casilina della multinazionale francese contende la fetta di mercato che negli anni si sono ritagliati i cornershop gestiti da asiatici, quelli che familiarmente vengono chiamati bangla e che hanno costruito la loro identità commerciale attorno a due fattori: la rivendita di birre da tre quarti fredde a prezzi concorrenziali e lo sforamento degli orari. Negozi per aperitivi a basso costo e ritardatari della cena.
Va detto che dopo la mezza, diciamo tra le 2 e le 6 del mattino, al supermercato che non chiude mai non c’è quasi nessuno. Restano in attesa i tre lavoratori, per di più interinali, che garantiscono l’apertura tra uno sbadiglio e un’imprecazione: uno alla cassa, l’altro tra gli scaffali e il terzo, quello con la divisa da guardia giurata, alla porta. “Sto qua per impedire le rapine, non per controllare i taccheggi”, dice per mettere in chiaro le sue mansioni, come a mettere le mani avanti.
L’esperimento di Tor Pignattara deve essere andato a buon fine, visto che poco dopo a Roma e in giro per l’Italia altri supermercati della stessa catena hanno scelto di non chiudere mai.
Qualche settimana fa, poi, si viene a sapere che il ristorante Fratelli di Cuore di Firenze, città che ha tante attrazioni e molti meriti ma che di certo non brilla per la sua vita notturna, ha annunciato che resterà aperto h24: tutti i giorni, ogni ora. Il ristorante si trova all’interno della stazione ferroviaria Santa Maria Novella, ha preso il posto della vecchia biglietteria. La scelta viene salutata dalle cronache locali con entusiasmo: la somministrazione permanente dell’“immancabile ribollita” e del dessert sette veli “che si scioglie in bocca” torneranno utili a “combattere il degrado”.
Si dorme poco e male, meno che all'inizio della rivoluzione industriale: quella delle workhouse e delle miserie del nascente proletariato.
Si dirà che questi sono tutti segnali dell’era postindustriale: è finita l’era scandita dalle sirene della fabbrica, quella che discendeva dalla libertà notturna in cambio della prestazione lavorativa quotidiana. Lo schiavo americano dal tramonto all’alba recitava il titolo (tarantiniano ante-litteram) di un noto saggio firmato da George P. Rawick. “8 ore per lavorare, 8 per dormire e 8 per svagarsi”, urlavano i lavoratori alla fine dell’Ottocento per reclamare la riduzione della fatica quotidiana. Quello slogan è poi divenuto, per la strana storia del lavoro e delle sue ambivalenze, il motto dei padroni del vapore dell’industria fordista.
Avete 8 ore per dormire e altre 8 per sollazzarvi a spese nostre, parevano dire gli Agnelli di turno, dunque per le 8 ore in fabbrica dovete essere a nostra totale disposizione. It’s Not My Place in the 9 to 5 World, cantavano i Ramones delineando la linea di confine tra la gente normale e i freak come loro. Eppure, anche le 8 ore di sonno, il lasso di tempo che va dal tramonto all’alba, sono entrate a pieno titolo dentro le cattedrali residue della produzione di fabbrica. Accadde alla Fiat di Melfi, dove i venti turni settimanali richiedono lavoro notturno e disponibilità oltre il tramonto, come non era mai successo.
Stiamo conoscendo patologie inedite. Si dorme poco e male, meno che all’inizio della rivoluzione industriale: quella delle workhouse e delle miserie del nascente proletariato. “Lasciateci almeno la notte per sognare”, disse ormai più di venti anni fa un disarmato Pietro Ingrao agli industriali arrembanti, percependo l’andazzo. “Noi vogliamo sognare anche di giorno”, alzò la posta un militante di base, affezionato all’odio per il lavoro del ciclo di lotte precedenti. Il lavoro creativo e quello tradizionale, la condizione precaria e quella garantita, la fatica mentale e quella manuale: in ognuno di questi settori si assiste alla tendenziale colonizzazione del sonno.
Non si dorme più, dice Jonathan Crary nel suo saggio “24/7”, e ciò rappresenta l’ultimo attacco del mercato alla vita quotidiana. La suggestione viene dal mondo che ci circonda ma anche da alcuni inquietanti esperimenti che arrivano da condizioni estreme, come i comparti militari industriali. Condizioni atipiche, certo, ma che sappiamo per esperienza essere prototipi tecnologici pronti a sbarcare nelle nostre vite, al di fuori delle caserme: dalla Rete alle droghe anfetaminiche, fino ai sobborghi residenziali, sono tante le invenzioni nate nei laboratori militari ed esportate tra i non combattenti, al di fuori delle trincee.
Così, dice Crary, l’esercito statunitense sta testando la formula del soldato che non dorme (e che può essere vigile fino a tre giorni di seguito) e i russi stanno cercando il modo di deviare la luce del sole su determinate porzioni di territorio affinché non arrivino mai le tenebre, ufficialmente per facilitare le estrazioni minerarie.
La retorica dello stare all’erta – del non farsi fregare tenendo gli occhi aperti: non dormire! – in molti casi ha riguardato la necessità di essere coscienti e vigili. Non tutti casi memorabili: “Sveglia, Germania!”, gridavano i manifesti nazisti. “Sveglia!” urlano i complottardi da clickbaiting. Ma ecco la novità: l’assenza di sonno non corrisponde allo stato di attenzione permanente. Al contrario, argomenta Crary, serve a proiettarci in un tempo storico indefinito, nel quale non esistono il giorno e la notte.
La luce perpetua delle vetrine del supermercato, dei fari puntati, del sole indirizzato ad hoc o del flusso ininterrotto delle notifiche da social network non implica chiarezza ma al contrario produce un bagliore quasi accecante. È il faro che smarmella tutto delle fiction dozzinali. Sono gli esperimenti di deprivazione sensoriale sulle cavie umane di Guantanamo, tenute costantemente sotto l’occhio di bue dei controllori.
In Sorvegliare e punire Michel Foucault utilizzava il panopticon di Jeremy Bentham per spiegare la società del controllo: se puoi essere visto potenzialmente, è come se fossi sempre sotto osservazione. Dal punto di vista della fine del sonno, il controllo acquista una nuova sfumatura: nel panopticon del 24/7 non esistono zone oscure, c’è sempre luce, è sempre giorno, non si dorme mai. Non esiste lo spazio, privato e al tempo stesso sociale in quanto garantito dalla comunità, del riposo e della notte. È l’assalto alla “inerzia ristoratrice del sonno”, ultimo episodio della commercializzazione della vita quotidiana.
Chi dorme muore, non può davvero sognare perché il suo inconscio si arrende agli incubi, invaso com’è da stimoli e paranoie: così preannunciava Nightmare di Wes Craven nel 1984, l’anno orwelliano che vide in Italia l’abolizione della scala mobile (basta lasciarsi cullare dalle garanzie!), mentre in India migliaia di uomini e donne venivano uccisi dalle esalazioni industriali di Bophal mentre dormivano.
Intanto, sempre nel 1984 negli Stati Uniti veniva presentato il primo Macintosh Apple, la macchina domestica che ci avrebbe inserito dentro i flussi globali, che ci avrebbe proiettato col cervello e la tastiera nella parte di pianeta dove batte ancora il sole: se ti lasci andare al sonno sei fottuto.
Analizzando la relazione tra i tempi lisci e permanenti della Rete e quelli striati e intermittenti delle nostre vite biologiche, l’analista Douglas Rushkoff ha tirato in ballo la condizione del jet-lag. Secondo Rushkoff, il cortocircuito tra la finitezza delle nostre risorse e la sterminata prateria del digitale ci proietta di continuo in diversi fusi orari, come se stessimo su jet istantanei.
Nell’esperienza quotidiana, dunque, saltellando tra una gita al parco e un flame sullo smartphone, passando in un attimo da un messaggio d’amore e una riunione di lavoro, possiamo riconoscere decine di piccoli malesseri da jet lag, che compaiono con frequenza inedita nelle ore passate a inseguire il presente: brividi, colpi di sonno, vertigini, vista annebbiata. Reagiamo cercando botte da adrenalina, strisce di like e dosi di retweet da inalare per tirare avanti fino al prossimo capogiro. “Attraverso lo spettacolo la società non esprime altro che il proprio desiderio di dormire”, diceva Debord. La sua sentenza, nel tempo che Crary definisce “presente allucinato” e Rushkoff “presente continuo”, assume nuovi significati: per non addormentarci ci piazziamo davanti ai riflettori, cerchiamo pizzicotti virtuali.
Nell'esperienza quotidiana possiamo riconoscere decine di piccoli malesseri da jet lag: brividi, colpi di sonno, vertigini, vista annebbiata.
È la fine del sonno? Non esattamente. Smettere di ronfare non equivale alla veglia permanente, come il razzismo contemporaneo non si pone veramente l’obiettivo di una soluzione finale o i sostenitori del decoro non si illudono sul serio di trasformare sul serio le nostre città in giardini fioriti. Senza dormire moriremmo in una decina di giorni. Dopo quarantott’ore di veglia cominciano le allucinazioni. La conquista del sonno serve a disciplinare la veglia, a trasformarci in una specie di sonnambuli. Svegli per certi versi, assopiti e stonati per altri.
Il guru belloccio e quarantenne Tim Ferriss ha fatto proseliti con The 4-Hour Workweek, un testo col quale ambisce a educare i suoi lettori a lavorare poco mantenendo l’efficienza e selezionando gli stimoli. Ma Ferriss non è un nemico della produttività e neppure una specie di luddista per casalinghe depresse e travet scoppiati. Al contrario, è molto amato dai manager della Silicon Valley perché quello che sostiene, in realtà, si concretizza nel suo secondo volume, che si intitola The 4-Hour Body e che contiene la ricetta per “aggredire il sonno”.
Il suo approccio è stato testato su alcuni amministratori delegati del settore hi-tech. Tutto ruota attorno al concetto di sonno polifasico: per Ferriss non bisogna perdere delle ore per dormire ogni notte, mentre i mercati macinano capitali e la rete pulsa informazioni essenziali. È sufficiente tirare avanti con un power-nap, schiacciare un pisolino di venti minuti ogni quattro ore di attività.
24/7, “4 hour body”, power naps. Tutto perfetto, ma a queste condizioni si smette di sognare. E a quel punto, come faremo a dar briglia sciolta a desideri profondi e paure inconfessabili, quando al posto del sonno ci ritroveremo tuttalpiù un’episodica pennichella?
Giornalista, il suo ultimo libro è "Al palo della morte – Storia di un omicidio in una periferia meticcia" (Alegre)