Quentin Tarantino e le donne dei suoi film, da Mia Wallace a Beatrix Kiddo, da Jackie Brown a Shosanna Dreyfus, fino ad arrivare a Daisy Domergue. Tra mansplaining, misoginia e risentimento.
Eh, Tarantino. Ah, i personaggi femminili di Tarantino. Ih, la potenza dei personaggi femminili di Tarantino. Nessuno scrive le donne come lui. È un argomento semplice e retorico, che ricorre spesso quando si parla del regista di Knoxville. È anche un argomento inevitabile, in un mondo in cui “Moglie 2, 35 anni, un bel fisico, un po’ rompicoglioni” è lo zenith narrativo a cui possono aspirare i personaggi femminili del cinema di Hollywood.
E lo è – inevitabile – per buone ragioni. Che il suo stile piaccia o meno, l’attenzione al dettaglio che Quentin Tarantino dedica a ogni singolo personaggio è rara e gloriosa. Come sceneggiatore, prima ancora che come regista. A prescindere dal sesso di appartenenza. Mia Wallace è articolata quanto lo è Vincent Vega; Hans Landa quanto lo è Shosanna Dreyfus. Non vivono in funzione di altri: si sono strappati un proprio spazio personale, che occupano a pieno titolo – magari gigioneggiando, magari meditando vendette, ogni volta in un registro diverso.
Quentin Tarantino è una specie di medium dei personaggi: attraverso di lui, parlano le voci distinte di spiriti, spiriti che spesso dicono “cazzo”. Gli si crede, perché, all’interno dell’universo inverosimile che si è costruito, i suoi personaggi sono credibili: hanno tutti una propria voce.
Alle protagoniste di Tarantino di certo non si possono imputare molti difetti di scrittura: certo, poche di loro hanno senso dell’umorismo. Sono le “straight men” della storia. Detto questo, chi, dopo essere stato picchiato a sangue, seppellito vivo, quasi ucciso da un tipo che guida troppo forte, conserverebbe il senso dell’umorismo? Nessuna donna soffre come le donne di Tarantino, ma c’è da dire che – democraticamente – nessun umano in generale soffre come gli umani di Tarantino. Perché, allora, si esce da The Hateful Eight con l’impressione che qualcosa si sia rotto?
Quentin Tarantino è una specie di medium dei personaggi: l'attenzione al dettaglio che dedica a ogni singolo personaggio è rara e gloriosa.
Mettiamo fin da subito le cose in chiaro: The Hateful Eight non è un film misogino. Dalla sua anteprima, a dicembre, spettri di misoginia avevano cominciato ad aggirarsi per le critiche del film. Tarantino si era difeso dalle accuse in maniera intelligente, spostandola sul narrativo, dicendo che a lui interessava che mettessimo in dubbio le nostre alleanze durante tutto il film.
Il suo produttore storico, Harvey Weinstein, lo giustificava dicendo “Questo tipo qui è più pro-donne di chiunque altro“. Che è un po’ come dire di uno che mangia polli “però ama molto gli animali”: una cosa non contraddice l’altra. Poi recuperava, aggiungendo “Chi grida alla misoginia dovrebbe vedere Jackie Brown”. Nelle dichiarazioni di Weinstein, c’era almeno un ragionamento logico: Jackie Brown.
Il risentimento
Jackie Brown è l’esempio più lampante di personaggio femminile ben scritto, ben diretto, ben interpretato. Non lo è soltanto per quanto riguarda il cinema di genere: questo perché molto raramente, al cinema, ci si trova di fronte alle sfaccettature di un personaggio come Jackie Brown, una hostess e contrabbandiera, assolutamente precisa nelle sue truffe e assolutamente interessata ai completi eleganti. Il film ha 19 anni: è un universitario in uscita dall’adolescenza. Oggi, Hollywood ci ha talmente male abituati a donne che non sono Jackie Brown, che buttiamo le mani al cielo e gridiamo ai “personaggi femminili forti” ogni volta che vediamo una personificazione semplificatissima del tipo “maschiaccio”.
Imperator Furiosa è stata un bel momento trionfale, ma chi non avrebbe voluto vederla fare le stesse identiche cose che fa in un completo da assistente di volo. Soprattutto, Jackie Brown mette in risalto uno degli aspetti più caratteristici delle protagoniste femminili di Tarantino, di cui si vedeva appena il germoglio con Mia Wallace, in Pulp Fiction (1994), tre anni prima. Se è vero che parte della filmografia di Tarantino fa perno sul senso di vendetta, l’autentico elemento alla base della vendetta è il risentimento.
Prendiamo, per esempio, Jackie Brown: a mezz’ora dall’inizio, Jackie viene fermata in un parcheggio da due poliziotti: un tipo ridanciano e uno tipo che vuole dimostrare al prossimo di avere il pene più grosso di tutti. I due la perquisiscono e le estorcono quattro chiacchiere alla stazione di polizia. Dissolvenza: benvenuti al minuto migliore della filmografia di Tarantino – dove, per più di 60 secondi, la conversazione è tutta ambientata sul volto di Jackie Brown, mentre cerca di accendersi una sigaretta, mentre i due uomini le rinfacciano la storia della sua vita e i suoi fallimenti. Jackie Brown è perlopiù zitta, li osserva, con un’insofferenza e un pudore che crescono di secondo in secondo.
Un minuto dopo, BOOM! il primo stacco sugli interlocutori di Jackie Brown, che è un piccolo trauma – non solo perché non ce lo aspettavamo più, dopo tutto quel tempo trascorso sulla faccia di Jackie, ma soprattutto perché i due poliziotti hanno una postura idiota e insignificante, di fronte alla statura della persona che stanno interrogando.
Jackie Brown, in quel minuto di semi-silenzio e crescente rancore, ci ha detto molto più sul suo conto di quanto ci abbiano detto i due poliziotti dettagliando i suoi precedenti. Gli sviluppi successivi a questo incontro, per la durata del film, sono ciò che mi piace pensare sia il risultato dell’estenuazione di una donna e del suo conseguente risentimento nei confronti di persone visibilmente più stupide di lei, ma con accesso a potere, armi, denaro.
In Tarantino, è una caratteristica prevalentemente femminile, quella del risentimento. Le donne scelgono attivamente di non parlare, mentre silenziosamente ordiscono un piano distruttivo (spesso anche – ma mai soltanto – autodistruttivo). Un tipo redneck, mentre aiuta Budd a seppellire viva Beatrix Kiddo in Kill Bill: Vol. 2, così, per fare conversazione, commenta il silenzio di Beatrix dicendo: “White women call this the silent treatment”. Lo chiamano tenere il muso. “E noi facciamo loro credere che non ci piaccia”.
Il mansplaining
Le donne di Tarantino scelgono di parlare poco come reazione al fatto che gli uomini parlano troppo. Qualcuno, preferibilmente non io, le chiamerebbe “eroine silenziose”. Non sono mute, ma si esprimono un terzo di quanto si esprimono le loro controparti maschili. Tuttavia, sono sullo schermo per la maggior parte del tempo.
Abbiamo già spiegato in che forme si manifesti il mansplaining: non c’è bisogno di preliminari. E quindi: se, guardandoli a posteriori, gli uomini dei film di Tarantino fossero, ok, degli assassini abili, ma soprattutto dei mansplainer? Spiegherebbe Mia Wallace, che insiste perché Vincent Vega le faccia la “Domanda che potrebbe offenderla”. Vincent Vega le risponde con le dicerie che ha sentito: il marito di Mia Wallace avrebbe buttato un tipo da una finestra perché il tipo le aveva fatto un massaggio ai piedi. “È accertato?”, gli domanda lei. Lui risponde che, no, come ha detto sono solo delle voci. Lei si fa seria, gli chiede se gli sembrino ragionevoli. Lui insiste: ma è successo? Lei dice di no. Lui insiste: davvero? Lei si scoccia e lo invita a ballare. Della conversazione ha già avuto abbastanza. “Quando voi maschiacci vi riunite siete peggio di un circolo di cucito” (con buona pace dei circoli di cucito). Spiegherebbe Jackie Brown che, insofferente verso due poliziotti, ci racconta attraverso il suo sguardo tutto quello che ha intenzione di fare nei prossimi 120 minuti di film. Spiegherebbe Shosanna Dreyfus, muta tra un arrogante corteggiatore nazista e l’ultraeccentrico aguzzino che ha sterminato la sua famiglia, risoluta nella sua intenzione di bruciarli tutti vivi.
Spiegherebbe i mentori di Beatrix Kiddo: tutti uomini, e tutti – mi si passi la definizione – dei boriosi pezzi di merda. (Tranne Hattori Hanzo. Tutti tranne Hattori Hanzo). Ed eccola, l’epitome del mansplaining in Tarantino. La storia di Kill Bill è la storia di una donna molto dotata che si innamora di un bravo assassino, più vecchio di lei. Lui, ben convinto della propria esperienza del mondo, fa sfoggio della sua pedanteria, suonando il flauto più grande del mondo, a dimostrazione della sua risibilità.
Avete presente quando Woody Allen diceva, della sua giovane sposa, “A lei piaceva venire introdotta alle tante, tante cose che io conoscevo per i miei anni di esperienza, e a me piaceva mostrarle quelle cose”? Ecco, quella sindrome lì. (Non a caso il cognome di Beatrix, e l’unico suo vero nome che conosceremo fino alla fine del film, è Kiddo – in inglese americano, una maniera affettuosa e paternalistica di approcciarsi a un ragazzino).
A un certo punto, Bill, l’assassino dal lungo flauto di cui sopra, la ritiene degna nonostante la sua giovane età, e le fa il classico regalo di fidanzamento: l’allenamento presso un venerando maestro di Kung fu. Un tipo che le dà dell’idiota e dell’incapace mentre si accarezza la barba setosa. Il mansplainer definitivo. Un tipo, però, che si convincerà delle sue abilità e le rivelerà un trucco che non aveva rivelato a nessuno, prima di lei.
Beatrix si libera dalla stretta di Bill, Bill la trova e le distrugge la vita. Lo fa per il suo bene, dice lui. Poi, aspetterà che Beatrix ritorni solo per raccontare, a lei zitta e immobile ad assorbire un siero della verità, delle convolutissime parabole con morale. Kill Bill è una via crucis degli uomini che parlano troppo, dall’infermiere stupratore al pappone messicano, per arrivare a Bill, la gelosissima figura paterna – le loro psicologie sono svariate, la loro caratteristica comune è dire sempre a Beatrix Kiddo quello che credono che lei sia. Nel caso di Kill Bill, il risentimento non lascia superstiti.
E ora, stiamo per raggiungere l’emporio di Minnie. Al suo interno ci aspettano sette uomini sospetti e un sacco di spoiler. Se non avete la più pallida idea di cosa stia dicendo, e non avete ancora visto The Hateful Eight, scendete ora dalla diligenza.
Il trucco della sparizione
The Hateful Eight: il Cluedo™ di Quentin Tarantino, in cui sette uomini e una donna poco affidabili sono rinchiusi in una stanza durante una bufera. The Hateful Eight è un film dagli evidenti pregi, e dimostra per tre quarti della sua durata la raffinatezza della maturità di Tarantino: dialoghi intricati, tensione a mille, zero ammazzamenti. D’accordo, è una versione allungata della scena di apertura di Bastardi Senza Gloria ma, se il risultato è questo, non esitate a consegnarmene una a settimana via posta. Uno dei problemi di Hateful Eight, però, è il suo personaggio femminile: Daisy Domergue.
Una premessa: bisogna capire che Daisy non parte soltanto come la solita vittima in cerca di vendetta, una sorta di fenice che risorge dalle ceneri del rancore. Come gli altri personaggi, è piuttosto pazza. Il suo mondo interiore è composto soltanto di rabbia e sangue. Tarantino l’aveva immaginata come una Susan Atkins del vecchio West. In tale veste, non le viene riservato un trattamento preferenziale – viene trattata come tutti gli altri. O meglio: come prigioniera, e come donna, viene trattata peggio di tutti gli altri. Daisy Domergue riceve pugni in faccia come se il suo naso fosse il portale per un’altra dimensione. Per queste ragioni Hateful Eight ha ricevuto accuse di misoginia.
Come Tarantino ha voluto scrivere un film programmatico sui conflitti razziali contemporanei, ha anche programmaticamente fatto prendere un sacco di pugni a Daisy. I pugni che riceve, però, sono trattati in maniera diversa da tutte le altre ferite inflitte, e sono gli unici reali di tutto il film – li soffriamo, ci rendiamo conto della loro gravità e del loro realismo (per quanto i personaggi insistano a riderle in faccia). È evidente che Tarantino voglia mostrare la misoginia nei confronti di Daisy Domergue, ma non la pratichi in quel senso.
Il suo problema è un altro: quello di avere creato un personaggio piuttosto passivo. Un personaggio che, ancora una volta, prova visibile risentimento, ma non agisce: studia gli eventi, e aspetta di venire salvata per mano di un gruppo di uomini. Ci ricordiamo di Daisy perché ringhia e sputa, perché è interpretata con intelligenza da Jennifer Jason Leigh. Attivamente, sulla storia, non fa nulla. Cova il suo rancore, seduta a osservare in un angolo, ma la sceneggiatura la obbliga a non farlo sfociare da nessuna parte.
E questo ci conduce a un interrogativo più esteso da porsi sulla filmografia di Tarantino: dai tempi di Django Unchained, la donna non è più un rancoroso agente di vendetta, ma è una merce di scambio in attesa di venire salvata. Broomhilda di Django, una protagonista scarsamente utilizzata, la “principessa” a cui Django aspira nelle sue avventure, ha molto poco da spartire con la Brunilde da cui prende il nome. A parte essere l’oggetto che Django deve raggiungere, e dare una ragione a Django per andare avanti, è quasi ininfluente nella trama del film. Allo stesso modo, Daisy sorbisce il suo sangue al naso mentre aspetta di essere salvata dalla sua gang.
Sia Daisy sia Broomhilda, pur nella loro atipicità, rispondono entrambe al personaggio tipo della damigella in pericolo.
Certo, entrambi i film sono dei western, e di conseguenza il fatto che una donna agisca in questa maniera può riflettere l’ambientazione e il contesto culturale. Ma non dimentichiamoci che Tarantino si è sempre preso delle licenze poetiche sulle sue ambientazioni: in Bastardi senza gloria, il cadavere di Hitler veniva sgonfiato dai colpi di mitraglietta di due soldati ebrei tagliascalpi. Il concetto di “piegare gli eventi alla propria narrativa” non è esattamente qualcosa che gli sia estraneo.
Il difetto principale di Daisy Domergue è che il suo personaggio prenda cazzotti per tutto il film eppure non abbia diritto a una sua vera e propria vendetta, ma che, anzi, non arrivi a fare proprio niente, se non a recitare un buon monologo.
Il difetto principale di Daisy Domergue è che il suo personaggio prenda cazzotti per tutto il film eppure non abbia diritto a una sua vera e propria vendetta, ma che, anzi, non arrivi a fare proprio niente, se non a recitare un buon monologo. Poiché, come dice Laura Bogart, il film vuole mostrare che Major Warren è il “personaggio più intelligente, più convincente, e il centro focale dell’attenzione del pubblico”, inevitabilmente il favore del pubblico tende verso di lui, non foss’altro che per l’incredibile interpretazione di Samuel L. Jackson. Siccome, in un certo senso, abbiamo già stabilito la nostra alleanza (l’ultimo capitolo, dopotutto, si intitola Uomo nero, inferno bianco), l’omicidio di Daisy Domergue è una inevitabile conseguenza narrativa, e “viene legittimato”, scrive Bogart.
Dato che sono tutti cattivi, ma c’è un cattivo scritto meglio, Daisy Domergue – a cui è stato rotto il naso a forza di pugni dal minuto 14 del film – è una pedina sacrificabile nel Grande Disegno della Vita. È a questo punto che tutta la violenza che ha ricevuto, praticamente stoica, cessa di avere una funzione, e si trasforma in banale violenza. E qual è l’ironia finale, se non quella di avere due uomini che ti berciano addosso mentre muori? Nella nuova, cupissima, fase di Quentin Tarantino, l’America è una nazione fondata sul razzismo istituzionale. E, a riempire l’ultima inquadratura del film, c’è il cadavere di una donna impiccata.
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.