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The Night Of , il nuovo prodotto dell'"ufficio delle miniserie meravigliose" di HBO, è uno spettacolo pirotecnico di angoscia esistenziale dall'altro lato della macchina penale.


Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con NOW TV.

Piace immaginare che ci sia una stanza, sepolta nelle cavità più recondite del quartier generale di HBO a New York, conosciuta come “l’ufficio delle miniserie meravigliose”. Dal resto dell’edificio la separa una porta anonima, sempre chiusa, una roba da investigatore privato anni Cinquanta – mogano scuro, un pannello in vetro senza scritte sopra. Dal soffitto si sente il passo pesante dei dipartimenti ai piani superiori. Oh, no, “Tette & Draghi” sta di nuovo facendo festa fino alle sette del mattino! E non ci hanno nemmeno invitato! Oh, no, da “Poliziotti Maschi in Premestruo” stanno davvero discutendo per la trentunesima volta di Thomas Ligotti.

Quand’è che lavoreranno, questi poveri cristi dell’ufficio delle miniserie, se accanto hanno Danny McBride che spacca mobili in slow-motion t-u-t-t-o-i-l-g-i-o-r-n-o? La risposta: Lavorano sempre. Chini tra le loro pareti color muschio, le asciutte analisi statistiche, gli archi narrativi credibili, e i vestiti che puzzano di posacenere e di un paio di giorni di troppo.

Non vedono spesso la luce del giorno, ma il loro isolamento ha prodotto alcune tra le migliori creature della rete televisiva. L’abbiamo già detto, no, che in questo scenario assolutamente metaforico nel quale HBO declassa le sue miniserie a uno scantinato, l’ufficio si chiama “delle miniserie meravigliose”? Bene. Negli anni, questa branca particolare di HBO ha dato alla luce – tra le altre cose – The Corner (il prequel spirituale di The Wire), l’adattamento televisivo di Angels in America, il paradiso di Frances McDormand Olive Kitteridge e Show Me a Hero, il festival delle narrazioni asciutte sull’edilizia popolare nello stato di New York.

E The Night Of.

The Night Of, che debutta oggi in Italia, è il racconto in otto episodi della vicenda giudiziaria di Nasir Khan, uno studente newyorkese di origini pakistane che vive coi genitori e viene accusato dell’omicidio di una giovane e ricca donna bianca, con la quale aveva trascorso parte della notte, prima di risvegliarsi nella sua cucina dopo uno svenimento. Una specie di Il mattino dopo di Sidney Lumet, ma a ruoli invertiti. È la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato? Chi lo sa. Il seguente testo non contiene spoiler.

La genesi del progetto ha una storia interessante almeno quanto la sua premessa. Remake di una serie inglese andata in onda per la BBC, lo show è stato scritto da Richard Price (romanziere e sceneggiatore di The Wire) e Steven Zaillian (sceneggiatore di Schindler’s List, Moneyball, American Gangster) ed era stato originariamente pensato come veicolo ideale per James Gandolfini, che avrebbe interpretato l’avvocato difensore di Khan.

Nel 2013, alla scomparsa dell’attore, The Night Of è entrato in un momento di stallo, ma non è stato abbandonato: con John Turturro nel ruolo di Gandolfini, e con Gandolfini come “produttore esecutivo”, la serie sarebbe stata realizzata in suo onore. È così che siamo arrivati al 2016, a quasi sei anni dai primi passi che la miniserie aveva mosso nel suo ufficio polveroso in quel seminterrato.

“L’ha fatto o non l’ha fatto?”

Un commento a caldo di una spettatrice del pilota

The Night Of si apre con uno spettacolo pirotecnico di angoscia esistenziale. L’episodio pilota è lungo quanto un film – un’ora e venti – e sta alla costruzione di tensione come la notte del referendum su Brexit o delle elezioni USA 2016 sta alla nostra vita recente: mentre Nasir Khan trascorre la sua ultima serata da uomo libero, senza che lui si accorga di nulla, ci si para davanti una sequenza crescente di elementi incriminanti e catastrofici, quelli che costruiranno il suo “caso”. Sono sulle prime elementi innocui, piccole sviste che ognuno compie quotidianamente, ma la grammatica dei polizieschi ci ha insegnato a riconoscere una prova indiziaria quando ce la troviamo davanti. E, di grammatica del poliziesco, The Night Of ne sa qualcosa. Anzi, sa proprio tutto.

Con la regia essenziale dello stesso Steven Zaillian, il montaggio asciutto di Jay Cassidy, e la fotografia di Robert Elswit (capo supremo delle riprese in notturna, nonché uno dei più grandi direttori della fotografia viventi), il pilota della serie prende il concetto di “tensione” e te lo ributta in faccia a coltellate. Ci troviamo in un universo in cui non siamo la polizia, non dobbiamo ricostruire gli eventi della notte, ma siamo gli unici a conoscere veramente la loro successione, a condividere la “versione di Khan”. Eppure non possiamo fare niente per fermare ciò che succederà. Non è tutto, perché gli episodi che seguono – una volta ridimensionata la tensione – sono un cambio di rotta necessario.

Avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione: a The Night Of non interessa particolarmente fare il thrillerone fine a se stesso, ed è quando comincia a svilupparsi come una miniserie procedurale che entra in gioco tutta la sua maestria.

Innanzitutto perché ci mostra l’altro lato della macchina penale, ed è una serie che dovrebbe vedere chiunque abbia pensato anche solo per un minuto che guardare Making a Murderer significhi avere la verità in pugno sul caso Steven Avery. Perché, come dirà John Turturro nel primo episodio, “la verità se ne può andare al diavolo, perché non ti può aiutare”. È esattamente l’etica e l’estetica di Making a Murderer, riassunta in un semplice, puntualissimo motto d’arguzia. Ciò che interessa alla difesa, e ciò che interessa all’accusa, è costruire una narrativa vincente, a prescindere da quanto essa coincida con la realtà dei fatti. Fin qui, potremmo immaginarci che sia proprio questo “racconto all’interno del racconto” a dare a The Night Of quell’aura da serie “necessaria e ben realizzata”. Ma non ci siamo ancora. C’è dell’altro.

Ci troviamo nel territorio delle serie corali, che seguono le vicende personali di molti dei loro protagonisti. È una caratteristica presente prima di tutto in The Wire, che aveva potuto godere della collaborazione di Richard Price in tre stagioni, e che è la serie senza la quale The Night Of non sarebbe mai esistita. Ma The Wire è una serie incentrata sul sistema e sui suoi meccanismi interni, mentre The Night Of è prevalentemente uno studio sui caratteri delle persone, e sulle loro reazioni a scenari tragici o complicati. Più narrativo, e quindi (inevitabilmente) più piacione – dove troviamo l’asciuttezza e la precisione millimetrica di The Wire mescolata a una sua versione più accentuata, meno realistica, disegnata a tratti netti (l’avvocato divorato dall’eczema, il procuratore senza scrupoli, il detective con un principio di depressione). Ed è per questo che, a fianco del racconto che ci aspettiamo, troviamo a sorpresa dei soprendenti siparietti à la Ethan e Joel Coen, e proviamo un gusto sempre crescente ogni volta che qualcuno chiede a John Turturro “come va coi piedi?” (spoiler: succede spessissimo).

Riz Ahmed, inglese di Londra, interpreta Nasir Khan con una sottigliezza (e un accento del Queens) ammirevole, in cui i cambiamenti che attraversa il personaggio non si riflettono soltanto nei classici tormentoni da “method acting 2.0”, quello degli attori che si sottopongono a diete stravolgenti, giochetti psicologici nei confronti del cast e ferite superficiali per la gloria di un ruolo. Qui assistiamo a una metamorfosi nella postura, negli sguardi, nella posizione degli angoli della bocca. Un processo che, di minuto in minuto, traccia impercettibilmente il percorso interiore del personaggio.

Proprio Riz Ahmed ha raccontato la sua esperienza da attore non bianco in The Good Immigrant, un’antologia di saggi su cosa significa essere parte di una “minoranza” nel Regno Unito del Ventunesimo secolo. Nel suo saggio, Ahmed esprime un concetto molto semplice e altrettanto illuminante: “L’America usa le storie per esportare un proprio mito, cosa che del resto fa anche il Regno Unito. La realtà, in UK, è che il multiculturalismo è estremamente vivace, ma il mito che esportiamo è quello tutto bianco dei lord e delle lady. Al contrario, la società americana è piuttosto segregata, ma esporta un mito di melting-pot razziale, in cui gente di tutti i colori risolve i crimini e combatte gli alieni mano nella mano”. Non solo Ahmed non ha tutti i torti (a pensarci bene, la serie BBC, da cui The Night Of è stato tratto, ha un protagonista caucasicissimo), ma con questa affermazione sottolinea uno degli aspetti più interessanti dello show: la sottilissima coltre di segregazione razziale negli Stati Uniti.

Ci troviamo nel territorio delle serie corali, che seguono le vicende personali di molti dei loro protagonisti. The Night Of è prevalentemente uno studio sui caratteri delle persone, e sulle loro reazioni a scenari tragici o complicati.

Intelligentemente, la serie ne parla in maniera velata: l’appartenenza etnica di Nasir Khan non è praticamente mai utilizzata a suo sfavore nel corso del procedimento legale, e a volte non è citata proprio per niente. Eppure, quando meno ce l’aspettiamo, quando stiamo quasi per immaginarci un mondo utopico, in cui l’uguaglianza tra gli esseri umani è un concetto condiviso da tutti, un razzismo sistemico emerge dall’inferno fetido in cui è seppellito, e fa capolino nell’idea che, non importa quanti siano gli ululati meritocratici americani (“se lavori duro ce la puoi fare anche tu!”) se sei un immigrato di seconda generazione che lavora duro a New York è più probabile che tu possa aspirare a una casetta nel Queens e a pochi debiti che a una casa  in arenaria a tre piani nell’Upper West Side. E poi ci sono gli insulti, il bullismo post 11 settembre. I soprusi normalizzati che incontri nella vita quotidiana: per strada, non alla caserma di polizia; a scuola, non in prigione.

La prigione, giusto: un’altra delle intuizioni cui The Night Of accenna, senza mai farlo didascalicamente, è il sovraffollamento delle carceri. E, con dati statistici (fonte) che mettono in luce la sproporzione palese tra la popolazione bianca e non-bianca incarcerata, è inevitabile ripensare al recente documentario di Ava DuVernay, 13TH, titolo che rimanda al Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che nel 1865 aboliva la schiavitù “se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole”. La tesi di DuVernay è che questa precisazione avrebbe portato una società intrinsecamente razzista a trovare un’alternativa legale alla schiavitù, conducendo alle incarcerazioni di massa e all’attuale problema di sovraffollamento delle carceri (occupate in larga parte da cittadini afro-americani – uno su quindici). E quando un ragazzo come Khan, un figlio di immigrati con le prospettive di cui abbiamo detto sopra, nonché un “killer” anomalo a detta di tutti (troppo spaesato, troppo onesto, troppo nerd, gli occhi troppo sgranati) viene inserito in un sistema carcerario già saturo, ne potrà mai uscire indenne? La domanda da porsi, quindi, non è “L’ha fatto o non l’ha fatto?”, bensì “Che ne sarà di lui?”

Due considerazioni cafone, prima di concludere, o meglio, lasciando che i laboriosi scribacchini dell’ufficio HBO si dedichino a quello che sanno fare meglio, ovvero distruggerci i cuori e le ore di tempo libero:

– Molti degli episodi della miniserie si incentrano su Grandi Scelte Morali, in cui un personaggio deve stabilire se affidarsi al consiglio e alla guida di una persona, piuttosto che a un’altra. Dichiararsi colpevole o innocente? Affidarsi alla protezione di Detenuto X o di Detenuto Y? The Night Of avrebbe potuto essere meglio solo se fosse stato un gioco interattivo Telltale, che lascia decidere a noi come continuare la storia.

– Lo negherete pure sotto tortura, cari HBO, ma quanto vi ha finanziato l’Ordine degli Avvocati? Da quando ho terminato la visione, tutte le notti sogno le file fuori da Giurisprudenza. Ciao e a presto.

Se ti è piaciuto questo articolo guarda The Night Of su NOW TV.

Laura Spini
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.

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