Davanti a un piatto di cacio e pepe abbiamo scambiato due chiacchiere con Matteo Corradini e Luigi Di Capua, due terzi del trio romano al suo esordio sul grande schermo. Tra Alex l'ariete e velleitarismi da trentenni, film coatti e romanocentrismo.
Odio i The Pills, li odio con tutto il cuore, eppure continuo a seguirli, continuo a guardare i loro video tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per chi non avesse colto la semicitazione dall’incipit di Open di Andre Agassi, mi spiego meglio. In realtà la mia è una dichiarazione di amore. Apprezzo molto i The Pills, i loro video e il loro umorismo, ma in me resta l’odio per un solo motivo: la semplicità dell’idea alla base del loro successo. Mi manda ai pazzi.
Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini hanno portato avanti un’idea basilare, e per questo molto esportabile come format: trasporre in video il sano cazzeggio quotidiano tra amici. Un aspetto talmente semplice che ha portato in molti a chiedersi “Perchè non lo facciamo anche noi?” oppure “Perchè non ci abbiamo pensato prima noi?”. La risposta è altrettanto semplice: perchè The Pills lo hanno fatto per primi in quel modo che ormai è diventato un marchio di fabbrica. E l’hanno fatto davvero bene. Ma soprattutto un’idea semplice non si traduce automaticamente in un prodotto facile. Citazionsimo cinematografico, cultura pop anni 90, romano-centrismo elevato ad arte, black humor, molta intelligenza e tempi comici che sono migliorati di pillola in pillola. E da qui l’odio, ma un odio buono ovviamente, di quelli formativi.
“Sempre meglio che lavorare” è la grossa punta dell’iceberg di quello che Matteo, Luca e Luigi fanno da quando erano pischelli (ormai sono alla soglia dei 30 anni, età di passaggio attorno al quale ruota il film), in un crescendo che dalle pillole su YouTube è arrivato in TV (Deejay TV, Mediaset, poi in Rai con Stracult e trasversalmente con Zio Gianni, e di recente ancora su Italia1 con il late night Non ce la faremo mai) e dal 21 gennaio anche al cinema.
A Roma c’era molta attesa nella settimana precedente l’uscita del film, con un’hype virale creata a regola d’arte grazie agli ottimi teaser che vedono in scena “king” come Gianni Morandi, il trio Pasotti-Argentero-Santamaria e Giancarlo Esposito nelle vesti di un Gus Fring alla romana. Merito sia della bravura dei The Pills sul loro campo di gioco, sia della produzione efficace e solida di Pietro Valsecchi, al quale va riconosciuto il merito di voler scommettere su una realtà nuova e non priva di rischi.
Il giorno della prima cinematografica sono andato a pranzo con Matteo e Luigi in un’osteria romana sulla Tuscolana per parlare del film che avrei visto quella sera stessa al Trianon di Furio Camillo, in una sala talmente piena che i biglietti erano finiti e un ragazzo ha dovuto vendermi il suo (sì, gli ho fatto pena). Nelle altre sale proiettavano Steve Jobs, Creed, La Grande Scommessa e quella sera “the big fat thing” era Sempre meglio che lavorare. Ma in quel momento, a pranzo, nessuno di noi tre poteva ancora immaginarlo.
Prismo: Insomma questo film com’è? Quanto c’è di Matteo, Luigi e Luca?
Luigi: Rispecchia quello che è il linguaggio dei The Pills – la serie. Ci siamo chiesti se volevamo fare un film con i The i Pills o un film dei The Pills, e la risposta è stata un prodotto che riportasse noi e il nostro linguaggio sul grande schermo, un risultato in cui riconoscerci. Non volevamo fare uno sketch lungo un’ora e mezza, ma neanche un film cinematografico al 100%.
Matteo: Non sai questa cosa quanto fa rosicare i critici cinematografici: “Cosa significa!! Chi osa non voler fare un film cinematografico al centopercento??” [ride].
Luigi: Magari chi ha un concetto di sacralità del cinema e delle sue regole può rimanere deluso o comunque sorpreso dalla cosa.
Ordiniamo una cacio e pepe e due carbonare tartufate, tre antipasti e una bottiglia di vino.
Matteo: Preferisco che venga il fantasma di Mastroianni a dirmi “Fai cacare!” piuttosto che sentirmi dire: “Il film è carino”.
Dopotutto carino si dice ai pupi, no? Ottimo o pessimo, comunque sarà difficile rimanerne indifferenti?
Luigi: Proprio quello che vorremmo. Abbiamo lavorato con un dogma molto chiaro in testa: meglio brutto che mediocre.
In ogni caso, quindi, è bene che se ne parli.
Matteo: Sì, ma non solo in termini di marketing, soprattutto come impatto verso lo spettatore. Sarebbe bello che si creasse una discussione attorno al film, anche solo per dire che fa schifo.
Luigi: Ad esempio, prendi Alex l’ariete con Alberto Tomba…
Matteo: …o Troppo belli con Costantino & Daniele…
Luigi: La gente li ricorda ancora per quanto erano brutti, sono stati efficaci a modo loro, anche se inconsapevolmente e involontariamente. Invece prendi un film come ad esempio Un boss in salotto: al botteghino aveva fatto bene, ma oggi chi ne parla?
Matteo intanto ha finito il suo antipasto e pulisce il piatto con aria soddisfatta: “Mio padre dice che magno come una spia dei nazisti”. Brindiamo ai debutti e alle prime volte.
Un conto è concepire, scrivere e sviluppare un film, un altro paio di maniche è lo sketch come forma a sè con tempi comici e linguaggi diversi. C’è una giusta miscela dei due generi?
Luigi: Non volevamo fare un film da manuale di sceneggiatura, con la struttura classica e il colpo di scena dopo venti minuti di trama. La prima parte, che per dinamiche e strutture è quella più sketchy, introduce molto bene la seconda metà che invece è più cinematografica. All’inizio del film sembra quasi non succedere niente e l’effetto è volutamente anti-drama.
Quindi niente Propp?
Matteo: Propp sì, dai. In realtà ci sono i cardini della storia intesa come fabula: la tentazione, l’innamoramento, gli eroi che vanno a salvare l’amico, ma il tutto è comunque calato nel nostro contesto, a modo nostro.
Quanto tempo avete lavorato sul film?
Luigi: Due anni.
Matteo: Un anno e otto mesi zì!
Qual è stato il cambiamento più radicale che avete riscontrato nel girare un film?
Luigi: Mantenere un respiro goliardico e sincero in un contesto del genere è stata la cosa più difficile e magari spesso non ci siamo riusciti. Sullo sketch puoi improvvisare, ci può essere un’interpretazione più svaccata o tempi comici più slabbrati, ma se nel film devo fare tre campi lunghi, poi tre primi piani e tre campi sul personaggio è normale che ne va della naturalezza dell’interpretazione.
La produzione quanto ha influito sul processo creativo?
Luigi: Pietro Valsecchi non ha messo mano in alcun modo che ci snaturasse, ci ha lasciato una totale libertà. Forse il problema è proprio quello [ride].
Matteo: Sul montaggio un po’ di più, ma in modo davvero mirato, su cose che effettivamente ne avevano bisogno. Valsecchi si è imposto in punti in cui aveva davvero senso farlo, ma ha anche passato la mano su alcune scene – come quella della webserie sugli idraulici che mio padre gira nel film, all’inizio era stata tagliata.
Luigi: La figura del produttore secondo me funziona alla grande in un sistema come quello americano, in cui oltre a mettere i soldi è incentivato soprattutto alla buona riuscita artistica del film, non solo quella economica.
Non a caso l’Oscar per miglior film va al produttore, non al regista.
Luigi: Esatto! Invece in Italia (soprattutto a Roma) fare il produttore equivale a “prendi i soldi e scappa”, con i sacchi in mano pieni di $$$ [ride]. Il regista invece diventa un concentrato di egocentrismo puro –“il film è mio e decido io” – quindi si viene a creare un cortocircuito. Pensa ad esempio quanto sarebbe stato forte anni fa un Alex Infascelli con un buon produttore alle spalle!
Pensavo avresti detto Alex l’ariete! Ma comunque sì, un film come Almost Blue è ancora oggi validissimo.
Luigi: Rimane forte questa dicotomia tra comparto creativo e quello produttivo. Non c’è troppa fiducia tra regista e produttore. Ricordiamoci sempre che il cinema è una cazzo di industria, soprattutto in questo momento deve essere data dignità al concetto di industria.
Arrivano i primi. Si chiacchera di cinema coatto, dei film d’azione anni 80 (Die Hard e Arma letale) del fatto che non esistono più i film “bori” di una volta (Fast & Furious si salva fino al terzo episodio, secondo Matteo) e della insensata lunghezza di Age of Ultron. I ragazzi mi consigliano vivamente di recuperare The Raid e The Raid 2.
A proposito di produzione: lo stesso Valsecchi ha detto che una parte degli incassi del film di Checco Zalone, ad esempio, finanzia scommesse nuove e potenzialmente rischiose per il botteghino come il vostro film o, in futuro, quello di Edoardo Ferrario. È un po’ come se anni fa il successo de Il Ciclone avesse aperto le porte a un film con – boh – Maccarini, il Nongiovane e Bossari.
[Risata fragorosa]
Matteo: Maccarini e Bossari hanno fatto un film???
No, ma ipoteticamente ti sarebbe piaciuto eh?
Matteo: In maniera totalemente malata, ma sì. È una cosa molto sick però mi piace! Grandissima stima per Maccarini, ma in quegli anni meglio Mandelli, quando era Nongiovane faceva cose fichissime.
Avete notato che su Wikipedia c’è la pagina del film, ma non quella The Pills?
Matteo: Sì, perché Medusa [che distribusice il film, nda] ha voluto creare una base d’azione per pubblicizzare il film su più livelli, mentre a noi tre non è mai fregato granché di avere la pagina Wikipedia o il profilo verificato su Facebook.
Luigi: Calcola che per il film ci hanno accusato di un sacco di cose di cui siamo particolarmente orgogliosi!
Cioè?
Luigi: Che si parla troppo romano, con un codice non accessibile, che sia troppo romano-centrico.
Matteo: Il problema è che se certe formule le esprimi dall’inizio, sul web, viene visto come un punto di forza, una caratteristica peculiare. Se invece le trasponi al cinema, le stesse formule vengono viste come una barriera.
Luigi: Se io vedessi un film ambientato a Bolzano vorrei parlasseso bolzanese! Ho questa idea del cinema!
Un po’ come L’albero degli zoccoli…
Matteo: Zì, che hai tirato fuori!
Luigi: Il film è uno spaccato quanto più autentico del nostro contesto. Capisco che percettivamente possa essere un limite verso il mercato reale, ma per essere più onesti possibile abbiamo fatto quello che ci piacerebbe vedere al cinema. A me è piaciuto molto un film come La capa gira (esordio alla regia di Alessandro Piva del 1999) girato in dialetto pugliese stretto, rende bene la trivialità, i tempi e il tono della commedia. Anche perchè un fenomeno così locale finisce per diventare globale nei messaggi e nelle tematiche.
Il problema è che se certe formule le esprimi dall'inizio, sul web, viene visto come un punto di forza, una caratteristica peculiare. Se invece le trasponi al cinema, le stesse formule vengono viste come una barriera.
Odio il termine, ma ormai credo che l’etichetta “generazionale” ve l’abbiano appicciata addosso o sbaglio?
Matteo: Preferiamo il termine “Zerocalcare” che a livello di lessico è diventato sinonimo di generazionale. Noi non avremmo mai pensato di fare un film generazionale, né che sarebbe stato riconosciuto da altri come tale.
È un termine che fino a cinque anni fa poteva essere usato per film come Tutta la vita davanti di Virzì, i primi lavori di Muccino o per Santa Maradona di Marco Ponti. In pratica cambiano i tempi ma certi temi come il lavoro, i trent’anni, la maturità, gli affetti restano gli stessi. In qualche modo li avete inquadrati in un modo diverso?
Luigi: Credo di si, ma in maniera totalmente diversa e inconsciente.
Qualche anno fa in un’intervista sul fenomeno webseries Simone Laudiero della Buoncostume mi disse: “Il web è un buon trampolino di lancio, ma senza la piscina”. Voi la piscina l’avete trovata?Matteo: L’abbiamo trovata quasi per caso, perchè ci sono state delle persone che si sono accorte di noi e potevano consentirci di dare libero sfogo alle nostre velleità cinematografiche [ride].
Luigi: Ha ragione Laudiero, perchè non c’è una piscina. Anzi, se dovessi dare un giudizio personale sui prodotti del web in Italia, sinceramente non vedo molta qualità, a parte qualche caso isolato.
E poi non è detto che un prodotto o un personaggio che funziona sul web faccia lo stesso anche al cinema, come nel caso di Game Therapy o i film con Frank Matano e Wilwoosh. È come se in questo caso la tv o il cinema abbiano voluto cavalcare un’onda senza sapere in che acque si trovassero.
Luigi: Secondo me il cinema che cerca linfa dal web è sintomo anche di una crisi di idee nel settore, senza la quale probabilmente non ci avrebbero mai considerati. Ovviamente ci sono ancora degli ottimi esempi esordienti come Smetto quando voglio di Sidney Sibilia qualche anno fa. E prossimamente Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che secondo me è uno dei migliori registi in circolazione e ha esordito tardi per il suo talento.
Sono d’accordo, anche a me piace molto Mainetti, ma vediamola così: magari ha esordito tardi, ma il fatto che lo faccia adesso significa che forse attualmente si sta muovendo qualcosa?
Luigi: Qualcosa si sta muovendo, anche un po’ per disperazione.
Matteo: Io la vedo così: il distacco culturale con la generazione precedente è stato così vasto che un mezzo come il cinema da solo sta avendo difficoltà ad unire le distanze, quindi è normale che stia cercando una continuità anche nei temi trattati, nei linguaggi del web.
Luigi: Secondo me c’è anche una scarsa attenzione da parte del pubblico e della critica su registi italiani che realizzano film molto belli, con un cast ottimo che poi hanno riscontro e respiro internazionale come Saverio Costanzo con Hungry Hearts o Luca Guadagnino con A bigger splash. Nel primo, ad esempio, c’è Adam Driver pre-Star Wars e nel secondo ci sono Tilda Swinton e Ralph Fiennes. Ma ti rendi conto?
Matteo: Io voglio che si sappia che il mio sogno è quello di essere nato 30 anni fa per scoparmi Tilda Swinton.
Ma sei nato 30 anni fa!
Matteo: [ride] Nel senso trenta anni prima!
Il cinema che cerca linfa dal web è sintomo anche di una crisi di idee nel settore. Il cinema da solo sta avendo difficoltà ad unire le distanze, quindi è normale che cerchi una continuità nei temi e nei linguaggi del web.
La colonna sonora del film è efficace, riassume bene il tono goliardico con un punta amara, e attinge molto dalla scena italiana con i The Giornalisti, Niccolò Contessa e Calcutta. Ma quanto ci sarebbe stato bene un brano dei Nofx? O di Action Bronson?
Matteo: Ma è chiaro che ci sarebbero piaciuti tantissmo! Ovviamente ci abbiamo pensato, ma per tutto il budget della colonna sonora avevamo a disposizione 20.000€ e i diritti dei Nofx li detiene Epitaph, quindi erano inavvicinabili. Però c’abbiamo Calcutta, oh!
In una vostra video-recensione, Matteo ci ha rivelato il messaggio intrinseco di Whiplash: se vuoi imparare a suonare la batteria devi accannare la pischella. Voi a chi/cosa avete dovuto rinunciare per il film?
Luigi: Eh a un sacco di cose! Abbiamo accannato l’amicizia tra noi [ride]. Anche se può non sembrare ci siamo fatti davvero un culo così, ma soprattutto c’è stato lo stress lavorativo tra un gruppo di amici, quindi bisogna saper scindere l’aspetto professionale e il rapporto personale, altrimenti è un casino!
E in termine di promozione quanto vi è costato il film? Siete stati ospiti anche da Tiki Taka, voi che non siete grandi appassionati di calcio.
Luigi: Tantissimo! Pensa che siamo andati anche ad Amici di Maria de Filippi, che è il gesto più postmoderno che potevamo fare [ride] ed è stata anche tranquillissima. Soprattutto è utile perchè un’intervista ad Amici equivale a dieci interviste “di merda”. È lavoro e devi essere pronto, quando decidi di fare promozione del film ti accolli tutto. Soprattutto devi ricordare che il film rimane quello, se è onesto e tu ne sei soddisfatto non c’è promozione che non possa essere funzionale.
Pensi che il pubblico di Amici possa essere interessato a The Pills?
Luigi: Se ci pensi Maria De Filippi ha lo stesso effetto di Fazio, ma per un altro tipo di pubblico. Non esiste promozione di sere A o serie B.
Matteo: Se vado ad Amici è perchè mi interessa portare al cinema un target giovane. Sarei contentissimo se i pischelli andassero a vadere Sempre meglio che lavorare piuttosto che i film di Paolo Ruffini o Pio&Amedeo!
Ridiamo tutti con ilarità colesterolica, mentre arriva il caffè.
Già dal titolo Sempre meglio che lavorare si capisce bene la filosofia alla base del film, ma anche dello stile The Pills. In molti lo hanno definito immobilismo post-adolescenziale, io lo vedo un po’ come il ribaltamento del sogno americano: perseguire il raggiungimento della felicità e della realizzazione attraverso il cazzeggio e l’aggiramento del tabù lavoro.
Matteo: A noi sarebbe piaciuto avere il sogno americano, la meritocrazia, eccetera, ma è evidente che non è mai stato così. Dalla distruzione di questo concetto, quindi, abbiamo pensato “Sai che c’è? Allora facciamo a modo nostro”. Ci piaceva realizzare qualcosa non sulla base del sogno americano, su cui poi si è basato anche quello italiano, ma seguendo un progetto totalmente nostro.
Luigi: Ci abbiamo provato, ma non è detto che questa cosa non possa finire entro 24 ore, visto che il film esce stasera.
Get rich or die trying!
Luigi: Esatto! C’è stato un momento nella nostra vita, qualche anno fa, in cui dovevamo decidere: non eravamo entrati al centro sperimentale di cinematografia, avevamo lasciato i nostri rispettivi lavori, non avevamo un quattrino e continuavamo a fare video. In quel momento trovare un altro impiego avrebbe davvero significato infrangere un patto che ci legava. Nonostante il nome catchy del film il lavoro è l’ultimo spauracchio che dobbiamo superare. Ho trovato molto più lucido essere velleitario a 30 anni piuttosto che prendere decisioni importanti e definitive a 25 anni e pentirmene a 50, svegliandomi un giorno per dirmi “Che cazzo ho fatto della mia vita?”. Non è un atteggiamento mammone, non è peterpanismo: vogliamo crescere, ma nel modo più giusto e corretto per noi.
Amen.
Ps: All’uscita del cinema, mi fermo a fumare una sigaretta in mezzo ai capannelli di ragazzi che erano in sala con me, per ascoltare di soppiatto qualche impressione. Il pubblico è giovane, dai 20 ai 30 anni, l’atmosfera è frizzante, i commenti divertiti, si capisce già quali scene e battute possono diventare “cult” nell’economia del film – la “pistola” di Luigi puntata su Luca, il paradosso della cicorietta, la passeggiata paranoica al Pigneto sotto lo sguardo ostile dei bangla, il discorso sull’importanza dell’essere lo zio in famiglia. Ma soprattutto: non ho sentito la parola “carino”.
Mario Luongo è nato nel 1988, collabora col quotidiano La Repubblica, e vive a Roma.