Il labile confine tra post sincero e pubblicità, oggi. Social network e hashtag usati per vendere vestiti, modi di vivere e interi quartieri di New York.
Non esiste un Ad Block per il branded content. Né un’interfaccia distinguibile e riconoscibile come quella dei banner o di un cartellone pubblicitario. Sappiamo distinguere un film da uno spot, un’affissione dalla realtà, un jingle pubblicitario da una canzone, ma sappiamo riconoscere e individuare il product placement, nelle sue forme più evolute? Se la risposta fosse “sì”, forse nessuno avrebbe sentito il bisogno di creare una rubrica su BuzzFeed dal titolo “Is this an ad”, nella quale l’autrice indaga il labile confine tra news e pubblicità.
Lo scorso marzo Tavi Gevinson ha celebrato il suo trasloco con una foto pubblicata su Instagram, come molte persone. Nella didascalia ha scritto: “Happy moving troll!!!!”.
“Ha traslocato, chissà dove si è spostata”, ho pensato io, con la consapevolezza imbarazzata di chi tempo fa ha dedicato diversi minuti a cercare di scoprire in che quartiere di New York abitasse la ventenne attrice e fondatrice di Rookie Mag.
Questa volta non sono servite decine di tentativi e parole chiave su Google, perché avevo già la risposta sotto gli occhi, riportata dalla stessa Tavi con tanto di geolocalizzazione del post: 300 Ashland.
Cosa può motivare una persona discretamente famosa, seguita da più di 550 mila persone su Instagram, a condividere informazioni dettagliate sulla propria abitazione? Si tratta di un errore?
300 Ashland non è un indirizzo qualunque: lì infatti si trova l’omonimo condominio di lusso inaugurato di recente a Fort Greene, una zona di Brooklyn che alcune figure chiave del mercato immobiliare newyorchese e della corporation no profit New York City Economic Development Corp. vorrebbero convincervi a chiamare “Brooklyn Cultural District”. Chi abita a Fort Greene? Secondo l’ultimo censimento (2010), afroamericani, ispanici e asiatici costituivano oltre l’80% della popolazione di Fort Greene; i bianchi “solo” il 14.5%. Il reddito mediano della zona era di 57.815 dollari. Secondo il sito Point 2 Homes, il reddito mediano attuale per le persone sotto ai 25 anni a Fort Greene sarebbe di 43.954 dollari.
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Tavi, per chi non la conoscesse, di anni ne ha da poco compiuti 21. Ha iniziato a farsi conoscere come fashion blogger a 12 anni e ha fondato un magazine online per ragazze adolescenti a 15. Ha recitato in diversi film e tre spettacoli a Broadway, presenta un podcast di Rookie su MTV News ed è stata uno dei volti del Calendario Pirelli 2016, quello in bianco e nero e senza nudi realizzato da Annie Leibovitz.
Chi è abituato a seguirla, a leggere i suoi editoriali su Rookie o ad ascoltarla su MTV, avrà ormai fatto l’abitudine ad un linguaggio che mescola diversi registri: ironico, intimista, molto introspettivo, colmo di citazioni di libri, film, saggi, canzoni. Se un paio di anni fa storcevo il naso o mi stupivo per alcuni look che sfoggiava, ora posso trovare una copia più o meno fedele dell’armadio di Tavi nella maggior parte delle catene di fast fashion presenti a New York, Milano e altre città occidentali.
Per questi e altri motivi 300 Ashland ha selezionato Tavi come beta tester per la sua prima campagna di influencer marketing. Gli inquilini più “influenti” dovranno pubblicare su Instagram un po’ di cosiddetto branded o sponsored content relativo a 300 Ashland, che comprenda foto scattate nel condominio o nel quartiere e l’hashtag #300AshlandPartner nella didascalia. Tavi paga dunque l’affitto del suo appartamento, ma verrebbe anche retribuita per pubblicare questi contenuti.
Se le fotografie postate su Instagram e taggate #300AshlandPartner da Tavi sono coerenti con lo stile degli altri post, le didascalie sono didascaliche, potrebbero essere state scritte da chiunque e forse è proprio così: alcune agenzie consegnano alle influencer testi già scritti, cui loro dovranno “solo” abbinare un pezzo della propria vita e giornata coerente con il contenuto ricevuto e lo scopo della campagna (Naomi Campbell lo scorso anno aveva pubblicato per sbaglio, in una didascalia di un contenuto sponsorizzato da Adidas, le istruzioni di un addetto marketing del brand: “Could you put something like…”. “[emojis]”). In questo caso, attirare giovani creativi a 300 Ashland, e convincerli che un appartamento che costa dai 2.530 ai 5.373 dollari al mese è quello di cui hanno bisogno. “Nel febbraio 2017, l’affitto medio per un appartamento con una camera da letto a Fort Greene era $2,872/mese. Un monolocale a 300 Ashland costa $2,555/mese ed un bilocale $3,258” ha scritto Jezebel.
I post “sponsorizzati” pubblicati da Tavi nelle ultime settimane hanno la sezione dei commenti bloccata, forse a causa delle critiche di Allie Jones sul New York Magazine e di Brendan O’Conner su Jezebel, ma anche di una piccola lite tra Tavi e un commentatore che su Instagram lamentava la scarsa trasparenza della parola “partner” rispetto ad hashtag più comuni e utilizzati per il branded content negli Stati Uniti, tra cui #ad e #sponsored.
Le regole dell’agenzia governativa statunitense Federal Trade Commission in merito al branded content e al native advertising non sono molto chiare né specifiche e non sono ancora disponibili liste esatte di hashtag utilizzabili per distinguere il branded content dai contenuti organici e non pagati. Anche se Tavi ha spiegato che l’hashtag #300AshlandPartner è stato approvato dalla FTC, alcuni commentatori continuano a farle notare che la parola “partner” non è immediatamente riconoscibile per molti utenti e soprattutto quelli più giovani e suscettibili potrebbero sentire l’esigenza di copiare il suo stile di vita pur non avendone i mezzi.
This neighborhood + this weather #ApartmentStories #300AshlandPartner
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Ambire ad una borsa, una crema, una bibita, un libro, è una cosa. Ambire ad un appartamento costoso in un quartiere gentrificato di Brooklyn e ad avere una vicina di casa come la fondatrice di Rookie Mag, è tutt’altra. L’oggetto del desiderio non è più un bene materiale o edibile con cui indossare almeno per un attimo i panni di una giovane attrice o modella in posa davanti ad un obiettivo. “Se compro quel paio di jeans mi sentirò un po’ più come lei”. “Se bevo quella bibita detox forse avrò la stessa pancia piatta”. L’oggetto del desiderio, qui, diventa un intero quartiere, un insieme illimitato di oggetti, consumi, strade, bar, abitudini, conoscenze, vestiti, inviti, collaborazioni, rappresentato solo simbolicamente da un edificio che fa alzare teste e sopracciglia alla middle class di Brooklyn, mentre dalla finestra o dal rooftop si guarda Manhattan.
Nell’ultima stagione di Girls, Shoshanna è a pranzo con Ray e con la sua ex capa Abigail. Quest’ultima e Ray si sono appena conosciuti e legano in modo particolare quando alla domanda “Would you rather live in an ugly building with a view of a gorgeous building or in a gorgeous building with a view of an ugly building?” danno entrambi la stessa risposta, mentre Shoshanna sostiene stizzita la posizione opposta. Preferireste vivere in un brutto edificio con la vista di un edificio magnifico o in un edificio magnifico che affaccia su un brutto edificio?
In Italia, Chiara Ferragni ci ha abituati a sponsorizzazioni spudorate che, pur non essendo accompagnate da hashtag particolari, sono sempre più riconoscibili. I brand sono in evidenza (lei e Fedez indossano vestiti e accessori Supreme da settimane). I suoi follower su Instagram sono ormai 9 milioni,la sua fama come più importante fashion blogger a livello internazionale si traduce in una maggiore immediatezza e comprensibilità dei meccanismi e dei linguaggi usati per il branded content pubblicato. Ma in altri casi il ruolo dei cosiddetti influencer e il loro rapporto con le aziende è meno scontato: l’attrice Busy Philipps, che potreste ricordare nei panni di Audrey Liddell in Dawson’s Creek o Laurie Keller in Cougar Town, ha dichiarato di recente in un’Instagram Story di aver tratto più profitto nel 2016 dal paid content pubblicato su Instagram che dal suo lavoro di attrice.
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Qualche mese fa un gruppo di modelle che includeva Hailey Baldwin, Bella Hadid e Emily Ratajkowski ha partecipato ad un video promozionale per il Fyre Festival, pubblicando anche alcuni contenuti sponsorizzati sul proprio account Instagram. Il festival musicale, organizzato da JaRule e Billy McFarland, è stato pubblicizzato nei mesi scorsi come un’alternativa lussuosa al Coachella con l’aiuto di 400 influencer e si sarebbe dovuto tenere su un’isola privata alle Bahamas (con tanto di ex proprietario “vip”, cioè Pablo Escobar, come il video promozionale ci teneva a sottolineare).
Expectation v. Reality for the biggest scamming festival in the 21st Century #FyreFestival@WNFIV @FyreFraud pic.twitter.com/75SZb6iDdm
— Alex Sanchez (@AXELSCYTHE) 28 aprile 2017
Il festival si è rivelato un flop micidiale, con tende montate a metà, disdetta dei Blink 182 all’ultimo minuto, zero organizzzione e pasti che avrebbero fatto rimpiangere il cibo offerto in economy su un volo low cost. Alcuni partecipanti sono rimasti letteralmente intrappolati all’interno del festival in attesa di poter imbarcarsi su un volo di ritorno.
The dinner that @fyrefestival promised us was catered by Steven Starr is literally bread, cheese, and salad with dressing. #fyrefestival pic.twitter.com/I8d0UlSNbd
— Trevor DeHaas (@trev4president) 28 aprile 2017
Bella Hadid si è scusata per aver prestato il volto (e il corpo) ad un evento così deludente e disastroso. Non è di certo sua responsabilità se le cose sono andate male, ma senza quei 400 influencer e quelle modelle in bikini sorridenti su uno yacht, sarebbero accorse così tante persone ad un festival in mezzo al nulla senza una storia e un nome forte alle spalle?
300 Ashland avrebbe potuto cercare potenziali acquirenti e inquilini anche senza l’aiuto di Tavi Gevinson e altri influencer, ma nessuno garantisce che avrebbe funzionato, soprattutto in un momento in cui pare che moltissimi edifici di lusso a Manhattan e Brooklyn siano mezzi vuoti, almeno per dieci mesi l’anno.
Instagram è diventata una gigantesca pubblicità, come sosteneva Hazel Sheffield su Vice News qualche mese fa? Basterà un tool per pubblicare il branded content, come quello sviluppato da Facebook, per risolvere la questione?
In attesa di metodi codificati e riconoscibili che ci permettano di separare le foto dagli amici dalla pubblicità di una tisana o di una borsa, il mix di elementi è diventato così totalizzante da trasformare tutte le persone con un account social e un livello discutibile di influenza mediatica in potenziali influencer, testimonial più o meno di valore e più o meno volontari di bar, ristoranti, vestiti, cibo, servizi, intrattenimento.
La questione si fa ancora più complicata quando in vendita non c’è un singolo prodotto tangibile ma uno stile di vita nel suo insieme. Non riguarda solo i social: i confini sempre più labili tra rappresentazione della realtà e artificiosa costruzione di un personaggio pubblico ricordano alla mente alcune serie tv recenti prodotte da Netflix.
Girlboss, la nuova serie interpretata da Britt Robertson e uscita su Netflix ad aprile, è “vagamente” basata sulla storia vera di Sophia Amoruso, ideatrice e fondatrice di Nasty Gal, uno shop online di abbigliamento popolare, ma evidentemente non abbastanza da evitare la bancarotta di qualche mese fa. La serie, creata da Kay Cannon (già autrice di Pitch Perfect), racconta le vicissitudini dell’inizio carriera di Sophia, dando vita ad una caricatura viziata, ribelle e simpatica, con un’epica che racconta gli alti e bassi dell’eroina protagonista e che si sostituisce almeno parzialmente alla narrazione giornalistica dei più recenti e reali fallimenti di Amoruso.
Altri prodotti come Abstract e Chef Table sono confezionati come un insieme di lunghissimi spot. Un genio creativo a puntata, una sfilza infinita di riferimenti a riviste, ristoranti, libri, account Instagram, eventi, trend di settore, le parole chiave giuste per far parlare di sé o per far nascere o consolidare tendenze, come accade nella puntata di Chef Table dedicata a Jeong Kwan. La monaca buddhista coreana viene usata come una tela bianca per dipingere un ritratto romantico e irresistibile dell’healthy food e della mindfulness, con l’aiuto dei dettagli della vita di Kwan e della sua presenza che buca lo schermo.
Netflix definisce questi prodotti “docuserie”, categoria che avrebbe fatto saltare dalla rabbia Josh, il documentarista spiantato e fuori moda interpretato da Ben Stiller in While We’re Young alle prese con il più artificioso, giovane e premiato Jamie (Adam Driver), che costruisce momenti e situazioni invece di rappresentarli e simula la spontaneità delle persone che intervista facendola passare per reale. In una scena molto divertente, Josh si sfoga con la moglie Cornelia (Naomi Watts), cercando di smascherare l’ipocrisia di Jamie e rivelarne l’artefatto: “È come se una volta avesse visto una persona sincera e la stesse imitando da allora”. Forse Josh esagerava, ma di sicuro Jamie sarebbe stato un ottimo influencer.
Miriam Goi, nata nel 1990, scrive di trend, tv, cultura pop, femminismo e social media, su Soft Revolution Zine, VICE e altre riviste online.