Come e quando nascono i meme? E qual è la situazione della comunità memer in Italia e all'estero? Storia di un nuovo capitolo dell'eterna lotta tra mainstream e underground.
Tutti sappiamo cos’è un meme. Oppure no? Se chiedi, i più non azzardano nemmeno una definizione; piuttosto portano degli esempi, spesso datati: “Quelle immagini con una scritta sopra e una sotto” (le macro alla vecchia maniera), “quei fumettini disegnati storti con le facce che urlano” (i rage comics) e così via.
Anche la Wikipedia italiana apre la pagina “Fenomeno di internet” (che traduce impropriamente quella inglese di “internet meme”), chiedendoci se per caso cercavamo “Rage Comics”. È un po’ come se alla voce “Filosofia” ci fosse una disambigua tipo “Forse cercavi Immanuel Kant”: l’approccio etimologico, cioè ripercorrere la storia della parola, è un metodo spesso fuorviante perché può non dirci nulla sul modo specifico in cui la usiamo oggi, ma in questo caso è obbligatorio passarci visto che “meme” è una delle poche parole di cui conosciamo autore e data di nascita, dato che è stata letteralmente inventata.
Nel 1976 Richard Dawkins scrive il suo libro più noto: Il gene egoista. Il saggio propone un cambio di punto di vista nella teoria evoluzionista il cui soggetto non sarebbe più l’individuo o la specie, ma il gene. A latere, in uno dei capitoli finali, Dawkins suggerisce che anche la cultura, analogamente alla biologia, potrebbe seguire dinamiche simili e chiama “meme” la controparte culturale del gene, accorciando la parola greca “mīmēma”. I singoli fatti culturali, a guisa di gene, si comporterebbero come dei replicatori in cerca di supporti per continuare a vivere: libri, computer, compact disc e ovviamente la memoria umana. “Esempi di meme sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi” dice Dawkins. Una categoria evidentemente ampissima, anzi, totalizzante: tutto ciò che non è biologico, cioè spiegabile in ultima analisi attraverso il gene, è un meme o un complesso di memi.
Il meme, e il filone di studi chiamato memetica che ha preso le mosse dall’intuizione di Dawkins, si propone come cornice interpretativa di ogni manifestazione culturale dell’uomo. L’ipotesi di lavoro, bisogna dire, ha ricevuto molte critiche da parte degli studiosi di scienze umane che l’hanno presa come un’invasione di campo di un riduzionista incallito che, dal canto suo, non risparmia entrate a gamba tesa nel mondo delle scienze non dure, come testimoniano i suoi tweet pazzerelli:
“Continental Philosophy”. What kind of a Search for Truth is region-specific? Continental Chemistry? Continental Algebra? What nonsense!
— Richard Dawkins (@RichardDawkins) May 15, 2013
Ma a un certo punto, poco più di una decina di anni fa, la parola “meme” ha preso a indicare un oggetto specifico che aveva i tratti salienti di quella categoria un po’ troppo ambiziosa: le battute su internet. Patrick Davison, uno studioso di meme, propone questa definizione minima: “An Internet meme is a piece of culture, typically a joke, which gains influence through online transmission”. Studioso di meme? Sì, perché negli ultimi anni, parte di una generazione di laureati in filosofia, semiotica, antropologia e nuovi media ha preso a occuparsi molto seriamente delle immagini buffe su internet, cercando spazio nell’accademia.
Seong-Young Her è laureato in filosofia e bioetica e sta proseguendo i suoi studi universitari lavorando sulla internet culture e sui meme in particolare. Ha fondato il sito Philosopher’s Meme che ha anche un gruppo Facebook con più di tremila iscritti, e quest’inverno ha tenuto un seminario alla Humboldt University di Berlino assieme alla collega Masha Zharova. Seong ha raccontato a Prismo come ha iniziato a prendere sul serio i meme di internet: “Mentre facevo una battuta sul fatto che gli ironic memes sono il nuovo Dada e i successori spirituali del situazionismo, mi sono accorto che non scherzavo affatto”.
Ho preferito non tradurre “ironic memes” perché in realtà è un termine tecnico, sia per gli studiosi, sia per la community dei meme geek. Gli ironic memes si contrappongono ai pre-ironic memes e sono a loro volta sovvertiti dai meta-ironic memes e dai post-ironic memes. Questi due tentativi di sistemazione semiotica dei vari tipi di meme, entrambi del Philosopher’s Meme Group, dimostrano quanto fanno sul serio i nostri ragazzi:
Ma facciamo un passo indietro. Dicevamo che una possibile definizione di internet meme è “un pezzo di cultura, di solito una battuta, la cui influenza cresce tramite la trasmissione online”. Quando ho sfidato Seong a darmi la definizione più breve e completa di cui era capace mi ha detto: “An Internet meme is a genetic lineage of online media that share meaning”, allacciandosi alla prospettiva biologica di cui abbiamo parlato sopra. Linda K. Börzsei, una dottoranda olandese che nel 2013 ha scritto un paper sulla storia dei meme, la prende al rovescio provando a individuare l’origine del fenomeno, il primo pezzo di cultura internettiana che possiamo chiamare meme. Linda segnala almeno tre momenti zero.
Il più recente è “All your base are belong to us”, una traduzione ridicola di un vecchio gioco del Sega mega drive che si è diffusa tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, comparendo in numerosi fotomontaggi. Qualche anno prima, un sito nato nel 1997 chiamato Bert is Evil si guadagnò una discreta fama incollando il personaggio dei muppets in foto compromettenti: accanto a Bin Laden, a Che Guevara o al posto di Al Pacino nella locandina de L’avvocato del diavolo. Una dinamica reiterativa che oggi ben riconosciamo come “memetica” e che all’epoca, in un internet senza social, trovò terreno fertile tra i fan del sito che misero online i propri fotomontaggi. Ma l’intuizione più ardita di Linda è individuare nelle smiles la preistoria dei meme. Oggi fioccano studi antropologici su come le emojii di WhatsApp stiano modificando il nostro modo di relazionarci; ma anche nell’antico internet, in cui le faccine si costruivano con la punteggiatura, c’era una discreta consapevolezza nell’uso, creativo e autoironico, cui erano soggette.
Cosa hanno in comune questi tre fenomeni che si contendono il titolo di primo meme della storia di internet? Credo che la domanda corretta sia: cosa hanno di diverso da tutto il resto? In questo ci aiuta la pagina Wikipedia italiana che parla genericamente di “Fenomeno di internet”; un errore che, come talvolta accade, è molto fecondo.
Per capire cosa è un meme dobbiamo avvicinarlo a un oggetto simile con cui viene spesso confuso, anche questo nominato col vocabolario della biologia: il contenuto virale. Proprio come i meme, i contenuti virali sono “fenomeni di internet” che si diffondono velocemente e si impongono alla tua attenzione, che tu lo voglia o meno. Ma, a differenza dei meme, questo è tutto quello che fanno. Pietro Minto ci ha raccontato su queste pagine l’inquietante macchinazione di Zardulu che invade l’internet con i suoi topolini virali sapientemente architettati per sembrare genuini. I video di Zardulu sono strani, talvolta divertenti, e la gente li ricondivide tali e quali, proprio perché sono strani e divertenti e questo è ciò che li rende virali. Il meme invece vive della creatività di chi lo prende in mano, di chi lo lavora e lo inserisce in contesti di volta in volta differenti. Per dirla hegelianamente, i viral hanno il senso in sé, i meme per sé. Oggetto cavo, forma da riempire, segno da declinare, il meme è essenzialmente linguistico.
Può succedere, chiaramente, che un viral diventi meme. Prendiamo un esempio italiano: Andreotti che si blocca in diretta tv. Nel novembre del 2008, Giulio Andreotti, ospite di Paola Perego, passa degli interminabili secondi immobile, in silenzio, al seguito di una domanda della conduttrice sul futuro dei nostri figli, prima che venga mandata la pubblicità. Il video ha guadagnato popolarità per motivi interni all’evento stesso: il grande vecchio della politica italiana, con (all’epoca) la fama di essere immortale, che si spegne come fosse un robot durante un’innocua cerimonia televisiva per famiglie. Ma poi la faccia imbambolata di Andreotti è stata estratta dal video e reinventata: col simbolo “Buffering” in sovrimpressione, con varie didascalie tipo “Subito dopo essere venuti” o semplicemente usata come una “reaction”, ermetica e sibillina. E così, il fermo immagine di Andreotti che si sente male in tv è diventato un meme.
I modi in cui la dialettica, cui tutti i meme sono soggetti, si declina di volta in volta è ciò che studiano gruppi come Philosopher meme’s e cui fanno riferimento i quadrati semiotici prima riportati. La base sono i pre-ironic memes, i meme mainstream, fondati su un linguaggio intuitivamente noto a tutti gli utenti di internet al di sotto dell’età pensionabile tanto da essere diventati strumenti di marketing per brand e magliette. Funzionano come cornici per battute: un elemento è fisso e l’altro varia. Se vediamo Willie Wonka che ci guarda sornione con la testa appoggiata sulla mano, sappiamo già che sta per sfidarci a parlargli meglio di un abbaglio che abbiamo preso; così come è risaputo che Boromir è lì per avvertirci che non possiamo “semplicemente” fare qualcosa e ciascuna faccia dei Rage Comics già ci racconta il tono emotivo della vignetta.
Da questi esempi emerge chiaramente l’aspetto linguistico dei meme: Willie Wonka, Boromir e Forever Alone non ci fanno ridere in quanto tali, ma in quanto segni: sono delle frasi lasciate a metà, delle battute da completare.
Seong sottolinea però anche l’aspetto prescrittivo di questi meme che limitano il campo degli usi possibili e finiscono per diventare ripetitivi e prevedibili. Qui intervengono i meta/post/ironic memes che aggiungono livelli di ironia a ogni passaggio e hanno il compito di decostruire il già detto e rilanciare continuamente il piattello della creatività. Meme che predano altri meme come “found objects”, meme che si combinano tra loro a coppie o terzetti, meme che parlano del meme stesso o della prassi di memizzare o, ancora, meme il cui significato è oscuro ma continuano a comportarsi come oggetti semiotici, a inserirsi nelle pieghe del linguaggio.
Questo viaggio al termine dell’ironia, questa corsa agli armamenti dell’umorismo, non è pienamente comprensibile se, oltre al lato semiologico, non teniamo conto anche di quello antropologico: chi fa i meme, chi combatte questa guerra contro la banalità e chi sono i suoi nemici. La comunità dei memer instaura una dicotomia netta: loro da una parte, il resto del mondo dall’altra; loro si chiamano autists (autistici), gli altri sono i normie (normali, comuni, banali). Autistici, ci spiega Seong, “non è un termine che si limita a usare la malattia come metafora, pratica contro cui già si scagliò Susan Sontag, ma la descrizione accurata di una sottocultura fondata su conoscenze ossessivamente catalogate e multipli riferimenti alla loro storia”.
I normie invece sono le persone comuni, quelle che hanno una vita e non hanno tempo o energie da dedicare allo stratificato gioco dei meme. Si manifestano in quanto normie quando però li usano e, dicono gli autistici, li abusano: ripetono la stessa battuta con variazioni minime fino a degradarla. In questo senso la dicotomia autist/normie è il vero motore del quadrato semiotico: ogni meme è sottoposto all’azione “normificante” degli utenti mainstream che lo consuma, rendendolo nauseante in primo luogo a chi lo aveva creato o visto nascere. La scena autistica vive una continua frustrazione nel vedere le proprie creazioni più argute rapite da influencer di varia stazza e rese più stupide, meglio fruibili dall’utente medio di internet. Alcuni meme raccontano bene la dinamica, specialmente quelli più oscuri e versatili che ben si prestano a diventare simboli dell’attitudine autistica.
È il caso di Pepe the Frog, una rana dall’espressione disturbante e disegnata dal fumettista underground Matt Furie nel tipico stile Picturebox/Kramers Ergot, che per un periodo regnò come simbolo stesso dei meme da autistici, e che all’epoca sembrava troppo brutto e incomprensibile per essere cooptato dai normie. Chiaramente non andò così. La sua reputazione, benché cattiva, lo trascinò fin sulle bacheche delle popstar e gli autistici hanno levato grida disperate nel constatarne la morte per normificazione:
Dat boi, presunto erede al trono, ha subito la stessa sorte nella metà del tempo; e ancora più rapidamente sembra si stia realizzando la rise and fall di Caveman Spongebob, esploso a fine maggio e già rapito dalla pagina Facebook ufficiale del cartone animato.
La riduzione dell’aspettativa di vita autentica per ogni meme può essere ricondotta all’accorciamento della filiera memetica. Prima c’era un percorso standard: nascevano su 4Chan (che pochi mesi fa è stato presentato agli italiani da Dailybest come best kept secret di internet…), venivano ripostati su aggregatori come 9gag e da lì si avviavano alla normificazione sui social network. Oggi, con la crescita del Weird Facebook, ci sono “rispettabili” pagine per autistici che producono nuovi meme in loco, lì dove è più facile essere invasi dal pubblico generalista, come racconta questa case analysis di un meme che ha resistito una manciata di giorni prima di essere rinnegato dal suo creatore.
Nell’internet anglofono la meme culture è viva al limite della frenesia e soggetti sempre più improbabili, come vip e brand, partecipano al sofisticato gioco umoristico creato da quattro nerd una ventina di anni fa, col rischio di rovinarglielo. In Italia com’è la situazione? Bisogna prenderla larga e riconoscere che la tradizione umoristica del nostro internet è per lo più verbale e satirica. Ci sono delle ragioni storiche che personalmente schematizzerei così: Editto bulgaro-> Caso Luttazzi-> Apertura della palestra di satira-> spinoza.it.
Quello che era solo un sito, nell’internet dei prosumer che usano Twitter e Facebook, è diventato un modello egemone di umorismo: spinoza sive internet. Santiago Greco ha già ben spiegato quanta tristezza mettono la maggior parte di coloro che, con pochissima autoironia, si chiamano “battutisti di internet”; nel loro rincorrere ogni fatterello di attualità per farne un gioco di parole, un’arguzia, un violento schiaffo al potere il cui senso è sempre: Gasparri è cretino.
Si staccano dal rumore bianco di questi cattivissimi glossatori dell’Ansa, almeno due personaggi: Alessandro Gori aka Lo Sgargabonzi (sdoganato su Internazionale da un dantista) e Alessandro Longo aka Bispensiero. Entrambi hanno un umorismo estremamente legato al media internet, senza rimanere vittime dei contenuti d’attualità che vi imperversano. Non sono però veramente dei memer: molte delle loro battute sono dei paradossali meme privati, impossibili come il linguaggio privato per Wittgenstein; un universo personale di figure e temi, veramente autistico, che ritorna ossessivo in configurazioni sempre diverse.
Poi ci sono le vere e proprie pagine di meme. Le più antiche svolgevano un semplice lavoro di traduzione dagli aggregatori come 9gag: tutti avrete visto immagini con la firma “Demotivational italiani by frullo” o “Tradotto da Umorismo sottile come un baobab”. Roba che, manco a dirlo, la piccola comunità di autistici italiani considera veleno per normie. Cultura Internet ha individuato, polemicamente, dei veri e propri imperi di pagine dell’internet italiano che predano a vari livelli di normificazione, come quello di La fabbrica del degrado (in cui figurano proposte squallidissime come Boom. Friendzoned ed esperimenti più sofisticati come Nicole Sossi che è una Martina dell’Ombra darker and edgier). Le pagine di meme italiane per autistici fanno numeri di gran lunga inferiori, con qualche eccezione e possiamo citare: Karbopapero, Hai già scelto che gif mettere sulla tua lapide?, VHS mafia e Irriverent Italian Memes.
La contaminazione di mainstream e underground, variante della proverbiale fusione tra alto e basso, è una cifra stilistica comune alla nostra meme wave che ama moltissimo, ad esempio, maneggiare le icone delle tv commerciale ed esportarle in contesti a loro alieni come videogiochi e musica indie. Questo è anche un tratto generazionale che ci racconta di ragazzi cresciuti in un mondo in cui la tv era ancora centrale ma stavano emergendo le nuove tecnologie: il nostro autist era un bambino che giocava a Pokemon sul GameBoy mentre i genitori guardavano Striscia la notizia; crescendo si è appassionato alla musica e ha trovato sempre più divertente lo scarto che si apriva tra i suoi miti e quei presentatori imbolsiti che tenevano incollati al divano gli adulti.
Proprio da una pagina meme sulla musica indie italiana, Indiesagio, è partita un’esemplare controversia normie/autist, una delle poche in Italia. I ragazzi di Indiesagio sono attivi da un paio d’anni e hanno sempre dimostrato una certa sensibilità nella produzione di meme: partono dai piccoli idoli dell’indie italiano, il cui statuto a metà tra megalomania e celebrità già strappa una risata, e li dirottano verso i contesti dissonanti che abbiamo citato prima come la televisione trash, gli anime o i videogiochi. Il tutto con un occhio ai trend meme internazionali che offrono cornici meno scontate della solita immagine macro. Per esempio, prendete questo meme:
Per capirlo bisogna conoscere: la cornice originale, la faccia di Faso (bassista di Elio e le Storie Tese) e sapere che è considerato uno dei più talentuosi musicisti pop italiani. Il processo di decodificazione stesso è ciò che genera il riso, e questo è il meccanismo umoristico fondamentale di tutti i meme complessi. Di recente hanno anche imposto dei meme propri che, come si dice, sono “colati fuori da internet”: agli ultimi concerti dei Cani, di Calcutta e di PopX, si sentivano i cori “Scena romana” o “Er bassista de carcutta”, tormentoni proprio made in Indiesagio.
Ma la calata dei normie non si è fatta attendere. Qualche mese fa, sia il profilo privato di Calcutta, sia la pagina ufficiale, sono stati “invasi dai meme”, per dirla con l’articolo di Rockit che ha ritenuto di notiziare l’evento. Il problema? Non facevano ridere. Ma proprio per niente. La stessa battuta ripetuta decine di volte: il linguaggio figurato di un verso di Calcutta si trasformava nella descrizione letterale di un’immagine. Mussolini fa una svastica a Bologna, a Schettino gli mancano le barche, l’Andreotti virale ha un sorriso paresi e così via, ad libitum. Indiesagio ha reagito sconfessando la mania.
Davide Pisa, uno degli admin della pagina, ha spiegato a Prismo: “Il motivo principale era la forma obsoleta. Il celebre layout formato da una o più frasi in font Impact – o peggio, quell’infernale Comic Sans – sul lato superiore e inferiore di un’immagine ha ormai fatto il suo tempo. Poi i soggetti: Salvini, i Marò, Gianni Morandi, Magalli…Venivano sovrapposti elementi ormai banalizzati dall’eccessiva popolarità a ciò che ci piaceva davvero, ossia le canzoni del disco nuovo. L’effetto era quello di una neutralizzazione: né ironia, né analogie sagaci. Insomma, normificazione”. Davide non ha problemi ad ammettere che “Il mondo dei meme è indiscutibilmente elitario. È richiesta una sensibilità dinamica, una revisione degli stilemi in continuo divenire. È una proiezione dell’imperfezione dei gusti”.
Ricordava Claudio Giunta nel già citato articolo di Internazionale sullo Sgargabonzi che il senso dell’umorismo è solo un altro nome dell’intelligenza. È evidente che sia così anche per Davide e per la comunità di ironic memer italiana e internazionale. Ma è così anche per i normie intenti a fare l’ennesima battuta sui marò che deridono il cosiddetto “facebook per quarantenni”, l’ultima ruota del carro, l’ambiente ultranormie fondato su un cattivo gusto irrecuperabile. La dicotomia è mobile e relativa, ognuno può essere l’autistico o il normie di qualcun altro.
Ciò che distingue i memer da altre sottoculture parimenti snob ed elitarie, o almeno i più avveduti tra loro, è una profonda consapevolezza di questa relatività, del “continuo divenire”, dell’impermanenza del loro oggetto artistico che, per sua natura, è destinato a essergli sottratto. La creatività non sta in questo o quel meme, non esistono capolavori: c’è solo una semiosi continua che si sfida ogni volta a superarsi, a trovare la controlettura giusta al momento giusto. Quando ho domandato a Seong-Young quali differenze vedeva tra la ormai storicizzata lotta delle controculture musicali contro il mainstream, e quella degli autistici contro i normie, mi ha risposto: “We know better this time around; the revolution will be reposted”.
Alessandro Lolli nasce a Roma nel 1989. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Polinice, Soft Revolution Zine, Crampi Sportivi e DUDE MAG. È laureato in filosofia. A tempo perso lavora in un centro scommesse sportive.