Dall'ormai classico Blame! all'ultimo Knights of Sidonia, ritratto di Tsutomu Nihei, uno dei più importanti e originali mangaka degli ultimi vent'anni.
Forse non ve ne siete accorti, ma tra il dicembre scorso e il gennaio appena passato su un numero folle di schermi di tutto il mondo è stato proiettato fino alla sfinimento il settimo episodio della saga Star Wars. E ancora una volta, nonostante fossimo scottati dalla precedente sortita di Lucas e il nuovo arrivato J.J. Abrams non sia proprio un genio della settima arte, l’attesa per l’evento è stata di nuovo volta spasmodica, col fandom prevedibilmente spaccato in due: tra chi cioè aveva amato incondizionatamente questa nuova iterazione, e chi invece non gli perdonava di essere poco più che un contentino per appassionati.
Al solito, si tratta di due posizioni valide e interessanti in egual misura, ma che paiono concentrarsi unicamente sugli aspetti narrativi della pellicola. In pochissimi infatti si sono soffermati su quello che è uno dei principali problemi della fantascienza moderna: l’incapacità di costruire mondi in grado di strapparci gli occhi dalle orbite. Le città futuristiche dei Guardiani della Galassia sono identiche a quelle di Tomorrowland, che paiono quelle di Jupiter, molto simili a loro volta a quelle di Mass Effect copiate per la base S.h.i.e.l.d. nell’universo Marvel: tristi render di centri commerciali tutti arcate, ponti, superfici in vetro e macchie di verde. Con il Risveglio della Forza poi è andata anche peggio, riconfermando l’immancabile trittico “pianeta desertico – pianeta boscoso – pianeta glaciale” e abbassando il livello del creature design di parecchie tacche rispetto a quanto fatto in precedenza: poco conta millantare una presunta collaborazione con Jony Ive per le divise del Primo Ordine se poi il massimo che riesci a metterci di tuo è una sorta di Yoda arancione.
Eppure in casi del genere uno si aspetterebbe quantomeno un certosino lavoro di worldbuilding. Anzi, secondo Alan Moore le storie prenderebbero vita in maniera del tutto autonoma se prima ci si prendesse la briga di mettere in piedi un universo narrativo astruso quanto si vuole, purché coeso e dotato di una sua identità ben precisa, tanto nei meccanismi interni – le regole e le leggi del mondo che andremo a creare – quanto nell’aspetto. Il trucco del bravo narratore starà poi nel guidare il fruitore nell’esplorazione di queste nuove frontiere del suo immaginario, passando magari dagli insostenibili muri di informazioni del fantasy più oltranzista – con le sue dinastie interminabili e i suoi idiomi impronunciabili – a una quasi totale mancanza di riferimenti, come nei videogiochi di Hidetaka Miyazaki. O nei manga di Tsutomu Nihei, anche. Uno così bravo a inventarsi micro (e macro)cosmi impossibili, da diventare uno dei più grandi nomi della fantascienza mondiale senza aver mai davvero imparato a raccontare qualcosa.
Tsutomu Nihei nasce a Fukushima nel gennaio del 1971. Crescendo non sviluppa nessuna attrazione particolare per i manga, limitandosi alle letture di rito di ogni giovane nipponico (“Da bambino la mia unica connessione con i manga era leggere Shonen Jump”, afferma) e concentrandosi piuttosto sugli studi in architettura. Raggiunta un’età consona vola negli Stati Uniti, dove comincia a lavorare per una ditta di costruzioni con sede a New York, occupandosi principalmente di grossi grattacieli. Ben presto scopre di non essere tagliato per un lavoro che impone la collaborazione con un numero elevatissimo di altri professionisti. Decide quindi di tornare in patria e di dedicarsi a una carriera nota a tutti per il grado di isolamento a cui spinge chi sceglie di intraprenderla: l’autore di manga.
La faccenda non si dimostra comunque facile. Privo di un bagaglio tecnico degno di questo nome, Nihei pensa bene di farsi assumere part-time come assistente di Tsutomu Takahashi, l’autore di Jiraishin. Nel frattempo collabora ancora con qualche studio di design, prendendosi tutto il tempo per affinare il suo tratto. Nel 1997 infine, esordisce con un volume autoconclusivo intitolato Blame! il cui successo è tale da costringerlo a sviluppare un’intera serie. Così, senza neppure il tempo di aggiustare il tiro, il giovane Nihei si trova esposto con un lavoro in grado di battezzarlo fin da subito come autore inconfondibile e già dotato di un’autorialità matura, persino per quel mostro ipertrofico che è l’industria del fumetto giapponese. Non male per una storia che ancora oggi raccoglie recensioni furiose in virtù della sua incomprensibilità.
L’aspetto paradossale di Blame!, è che la serie è riassumibile in un pugno di parole appena: il misterioso Killy vaga per la Città alla ricerca di esseri umani dotati di un gene in grado di connetterli al sistema di controllo dell’enorme megastruttura, e lungo il percorso incontrerà parecchia gente – compresi mostruosi esseri di silicio e altre bizzarre forma di vita – che lo vuole morto. Fine. Forse la migliore sinossi possibile resta quella riportata dalla fascetta dei volumi da libreria, la cui dicitura “Maybe on Earth, maybe the future” lascia ben intuire quanto di poco tradizionale ci sia in quest’opera così seminale.
Il vero protagonista di Blame! è un mondo completamente artificiale in perpetua espansione, fatto di scalinate infinite, ascensori, rovine postindustriali, stanze talmente grandi da non vederne il fondo. Senza riferimenti temporali precisi, senza mai un accenno a qualcosa di riconoscibile come il sole o il terreno: solo la sua quest impossibile di un misterioso essere “vecchio di 3000 anni”, e un vertiginoso alternarsi di momenti di calma – come se si stesse passeggiando in una mastodontica cattedrale progettata da Lebbeus Woods – e terrificanti esplosioni di violenza. Tsutomu Nihei non vuole raccontarci nulla: gli basta descriverci un universo avulso dalla realtà eppure dotato della concretezza di un blocco di cemento armato.
In una recente intervista, cercando di spiegare da dove provenissero le idee per un nuovo fumetto, Nihei rispondeva: “Solitamente arrivano da una scena o una situazione che voglio disegnare. Un sacco delle mie idee nascono dallo scarabocchiare. Comincio a pensare a un ambiente e quindi ragiono partendo da lì. I personaggi e le loro reazioni vengono dopo per me, perché le trame di tutti i miei manga sono piuttosto improvvisate”. Una dichiarazione d’intenti, che andrà ad accompagnare tutta la sua carriera: ogni storia di Nihei è infatti riassumibile in un input di tipo prettamente visivo, che si tratti delle scarpinate infinite di Blame! o dei furibondi combattimenti tra mostri mutanti di Abara, quarto titolo serializzato dal nostro e massimo risultato grafico della prima parte della sua carriera.
Nihei restituisce al fumetto storie che altrimenti non sarebbero raccontabili se non, forse, attraverso l’animazione. Il tanto agognato lungometraggio tratto da Blame! pare essere in lavorazione, ma è quasi certo che il passaggio da un medium all’altro potrebbe risultare devastante per la potenza visionaria dei suoi mondi: valga da esempio la disastrosa sortita statunitense della miniserie in cinque numeri Wolverine: Snikt!, dove tra cambi di gabbia, introduzione pervasiva del colore e necessità di seguire stilemi narrativi meno ermetici, Nihei è arrivato dalle parti del videogame – per una volta inteso con accezione negativa – con tanto di mostro sempre più grosso di numero in numero, e ignorando del tutto quel sottilissimo filo di plausibilità su cui questo architetto mancato continua a progettare megalopoli impossibili.
Quelli di Nihei sono mondi dove i viaggi in ascensore attraversano undicimila piani, dove gli stacchi temporali si misurano in millenni e le macchine automatizzate portano avanti il loro lavoro di costruzione da talmente tanto tempo da aver dato forma a una sfera di Dyson capace di contenere l’orbita di Giove.
Tanto per dire, nella serie Biomega – presunto prequel dello stesso Blame! – il mondo viene artificialmente riplasmato da uno dei personaggi sotto forma di una struttura cilindrica larga un centinaio di chilometri e lunga quattro miliardi e ottocento milioni. Eppure il tecnicismo con cui viene affrontato il disegno di strutture portanti, l’avvicendarsi di misteriose organizzazioni e perfino la scelta di complessi acronimi come DRF (Data Recovery Foundation) o CEU (Compulsory Execution Unit), restituisce al tutto un’aura sinistramente realistica. Come se l’impegno a dare una forma quantificabile a misure altrimenti folli ne determinasse l’ammissibilità.
Sono mondi dove i viaggi in ascensore attraversano undicimila piani, dove gli stacchi temporali si misurano perlomeno in millenni e le macchine automatizzate portano avanti il loro lavoro di costruzione edile da talmente tanto tempo da aver dato forma a una sfera di Dyson capace di contenere l’orbita di Giove. Parrebbe tutto assurdo, eppure il risultato è ben diverso da quanto raggiunto da altri: pensiamo per esempio alla folle rincorsa al gigantismo di un enorme successo come Sfondamento dei cieli Gurren Lagann, dove – anche prima dell’iperbolica conclusione con il mecha alto 10’000’000 anni luce – il sottile velo tra epica e parodia viene squarciato senza troppe remore. In Gurren Lagann si sorride e si sbotta divertiti, pensando che alla fine si tratta sempre dei soliti giapponesi e delle loro trovate un poco sopra le righe. Con Nihei, questo non succede mai.
Nel suo bel pezzo sulle Rovine virtuali, Oliver Broggini parla della difficoltà di creare scenografie fantastiche che riescano a essere al contempo qualcosa di grandioso e suggestivo senza perdere il loro bagaglio di senso – pena, in caso si faccia il passo più lungo della gamba, lo scivolamento in territori del tutto gratuiti e privi di autentico mordente. Scriveva Broggini: “Quando però il meccanismo funziona – come in quel piccolo capolavoro che è Monument Valley o, più indietro nel tempo, in Shadow of the Colossus – il disorientamento moltiplica l’impatto emotivo della progettazione architettonica. Mentre nei paesaggi verosimili (e familiari) di GTA tendiamo spesso ad appoggiarci sulla memoria e a sorvolare su dettagli e finezze del disegno ambientale, la nostra attenzione è invece acuita dall’esperienza di un contesto completamente estraneo, con il risultato di aumentare la profondità della nostra immersione”.
È un passaggio che pare riassumere alla perfezione tutta la prima parte della carriera di Tsutomu Nihei, autentico equilibrista sempre in grado di portarci a braccetto sul filo del rasoio tra esasperazione pornografica e misurata ragionevolezza da ingegnere dell’impossibile. Un andamento virtuoso divenuto presto autentica colonna della sua autorialità, ben presente in tutti i suoi lavori prima dell’arrivo sul mercato della sua ultima fatica: Knights of Sidonia.
Il primo volume della serie si apre illustrandoci la misera vita di Nagate Tanikaze, un ragazzo sperduto in quelli che sembrano degli interstizi di qualche enorme azienda abbandonata. Le sue giornate sono consumate tra qualche sessione di allenamento in un simulatore di robot da combattimento e le cure per il padre. Parrebbero insomma gli unici due sopravvissuti all’ennesima apocalisse meccanizzata. Dopo la morte del padre però, il giovane decide di allontanarsi dal suo rifugio, alla ricerca di cibo. Con sua grande sorpresa scoprirà di avere vissuto la sua vita negli strati più bassi della Sidonia, una sorta di rigogliosa arca spaziale dove 500.000 persone continuano a condurre la loro vita dopo la presunta distruzione del sistema solare a opera dei misteriosi Gauna.
Anche sforzandosi, l’autore non avrebbe potuto mettere su carta una metafora migliore per l’avvio della seconda parte della sua carriera. Il protagonista emerge da quella che sembrava essere l’ennesima reiterazione dell’immaginario tipico di Blame! e si ritrova invece in un contesto, seppur ancora vagamente Nihemiano, molto più debitore dei cliché del manga così come del racconto d’evasione orientale in genere. Lui stesso è il classico sempliciotto venuto dall’esterno e destinato, nonostante tutte le sue ingenuità, a diventare “qualcosa di più”: un meccanismo narrativo così diffuso da poter tracciare un ipotetico trait d’union tra punti lontanissimi come il Capitan Tsubasa di Yoichi Takahashi, uno qualsiasi dei personaggi di un giovane Jackie Chan e i supereroi sudcoreani di Arahan. E sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.
Quello di Knights of Sidonia è insomma un eroe fieramente old school, che ancora necessita di cibarsi – altro cliché tipicamente nipponico, vedi il Goku di Akira Toriyama – mentre i suoi nuovi coinquilini sono figli di secoli di esperimenti e sono ora in grado di nutrirsi per fotosintesi, oltre che di rinunciare alla consueta divisione in sessi. E noi siamo proprio come il giovane Nagate Tanikaze: vediamo questo nuovo mondo tramite i suoi occhi, trovandoci ben presto alla guida di uno dei Guardiani mentre combattiamo sospesi nel vuoto siderale contro i mostruosi inseguitori alieni. Tsutomu passa con una naturalezza impressionante dalla sua fantascienza estrema, così criptica e brutale, al tradizionale manga di robot. E ci riesce senza opere di mezzo o andamenti graduali, come se lui stesso fosse uno dei suoi esseri cibernetici: dotati di interruttore da premere in caso si voglia passare da una modalità all’altra. La risposta del pubblico a questa metamorfosi (un altro chiodo fisso di Nihei) è così ragguardevole da convincere Netflix a distribuirne l’anime in tutto il mondo, aprendosi per la prima volta a questo tipo di visioni.
Gran parte di questo successo deriva, oltre dal fatto di conoscere a menadito tutte le meccaniche interne al genere, anche dallo spettacolare cambio di approccio grafico da parte dell’autore. Da un segno sporco, spesso al limite dell’intellegibile, con il nero che acquista peso dalla sovrapposizione caotica di decine di tratti, in Knights of Sidonia Nihei approda a un’asciuttezza minimale, dove a dominare sono i bianchi e il numero di righe tracciate è sempre livellato al minimo indispensabile. Alcuni richiami inequivocabili – la nomenclatura degli alieni è presa paro paro da Abara, uno dei personaggi ha le fattezze di un orso come in Biomega, l’ossessione per la mutazione del corpo è ancora uno dei pilastri centrali così come quella delle costruzioni impossibili – ne decretano senza dubbio la paternità, ma qualcosa è cambiato. Perché per la prima volta, con Tsutomu ci si annoia.
Ebbene sì: abbiamo tra le mani la sua prima sceneggiatura vagamente “comprensibile” eppure non sappiamo che farne, non abbiamo voglia di vedere cosa c’è dopo. Da Blame! in poi, con Nihei lo stupore dello sguardo era sempre stato al primo posto: al contrario, vedere lo schemino che ci illustra la struttura interna della Sidonia ne soffoca in maniera inequivocabile la potenza evocatrice. Alla stessa maniera, il mecha design solletica la fantasia perché indubbiamente più tecnico della media, ma evita accuratamente di introdurci agli squarci tecnologici di un futuro remotissimo.
A un’evidente, perlomeno nella prima parte della serie, evoluzione del disegno – che pare passato da uno stadio primordiale a una sorta di vocazione forzata al design, come a voler scimmiottare Ippei Gyoubu – non è corrisposto anche uno svecchiamento delle visioni. La ricerca di semplicità dovrebbe avere come scopo finale la distillazione di un concetto dal peso specifico dell’iridio, non l’adagiarsi sulla linearità di strade ben battute. Pensiamo al fenomeno One-Punch Man, dove il nocciolo della questione ruota attorno a un supereroe capace di battere chiunque con un solo pugno. Idea forse idiota nel suo minimalismo, ma proprio per questo capace di imporsi con una potenza del tutto inaspettata. Se volessimo pensare al cinema, sono esemplari gli esempi di The Raid e Mad Max: Fury Road, dove a un concept elementare corrisponde una messa in scena dalla foga incontenibile.
In Knights of Sidonia tutto è di livello altissimo, ma sa di già visto: il protagonista ingenuo, la missione a cui è predestinato, la spalla irragionevolmente positiva, i colpi di scena. L’autore tenta di giocare la carta delle interazioni personali tra questi piloti adolescenti, ma basta considerare che sono i primi personaggi della sua carriera ad avere più di un pugno di battute per volume per capire che forse, un motivo per tale mutismo c’era. La cosa di cui si sente maggiormente la mancanza è l’accesso a un futuro che senza Nihei non avremmo mai potuto scorgere: ora tutto scorre meglio, ben organizzato come le belle città in CGI di cui parlavamo a inizio articolo; ma a volte essere travolti dalla morsa di una megalopoli non proprio a misura d’uomo può essere faccenda ben più stimolante. Sempre che non gli preferiate una bella scampagnata rilassante su di un pianeta a scelta tra desertico, boscoso o glaciale, ovvio.
Nasce nell'anno della morte e resurrezione dei videogame, fa il designer, legge fumetti, e su Fumettologica.it cura la rubrica Powerpop firmandosi Evil Monkey.