All Walls Must Fall immagina un futuro dove la Guerra Fredda non è mai finita, la minaccia nucleare è presente e il Muro di Berlino è ancora in piedi. Una distopia, che però è sempre più vicina alla realtà. Ne parliamo con il designer Jan David Hassel.
19 gennaio 1989. A un convegno del comitato Thomas Müntzer il presidente della Repubblica Democratica Tedesca Erich Honecker tiene un discorso che entrerà nella storia per una specifica frase: “Finché non saranno eliminati i motivi che ne giustificano l’esistenza, tra 50 o anche 100 anni il muro sarà ancora lì”.
Nella notte tra il 9 e il 10 novembre di quello stesso anno, i motivi che l’avevano giustificato – se non altro agli occhi degli apparatcik – godevano ancora di ottima salute, eppure il muro era crollato. Meno di dodici mesi dopo, la Germania si era riunificata.
Col senno di poi è facile parlare delle proverbiali ultime parole famose, ma ricordo che all’epoca era molto più difficile essere cinici, specialmente se si era cresciuti con l’abitudine di vedere il mondo diviso in due. Noi e gli altri, naturale. Tanto naturale che spesso nemmeno ci si chiedeva più cosa s’intendesse davvero con “altri”, accontentandosi nella maggior parte dei casi di un generico “comunisti” o “capitalisti”, a seconda di dove si era nati. Ma se questo poteva bastare per chi viveva lontano dagli altri, tanto più ci si avvicinava alla linea di demarcazione fisica tra NATO e Patto di Varsavia, quanto più le distinzioni cessavano di essere astrattamente ideologiche per diventare culturali, se non addirittura antropologiche.
Questa spaccatura era evidente soprattutto nei tedeschi nati nel secondo dopoguerra, che – cresciuti in due Germanie radicalmente diverse l’una dall’altra e non comunicanti tra loro – erano abituati a chiamarsi “Ossis” e “Wessis”: termini spregiativi simili ai nostrani “terrone” e “polentone”, ma che a differenza di questi ultimi erano stati introdotti a forza nella lingua comune con la costruzione del Muro nell’estate del 1961. E laddove per i nati dopo il 1945 la divisione tra le Germanie rendeva i cugini d’oltrecortina non più vicini di austriaci e svizzeri, è significativo come gli effetti della Trennung si fossero fatti sentire anche tra coloro che avevano avuto una storia comune – spesso personale – già prima della guerra.
Era il caso di mia nonna Helene e sua sorella Käthe: nate a Berlinchen agli inizi del Novecento, vi vissero fino a quando l’offensiva dell’Armata Rossa del gennaio 1945 le separò. Sopravvissute entrambe alla guerra e ai primi anni di occupazione, la prima rimase con il marito e mia madre nella zona d’occupazione inglese, mentre la seconda fu sfollata in quella che sarebbe diventata la RDT; con l’intensificarsi della Guerra Fredda i contatti si fecero via via più difficili, fino a quando Walter Ulbricht fece erigere die Mauer, sigillando definitivamente i confini tra est e ovest. Eccetto per tre visite, la loro divisione fisica durò fino all’autunno 1989, ma quella psicologica le accompagnò fino alla morte: ancora negli anni Novanta sentivo mia nonna apostrofare talvolta la sorella – con cui pure aveva condiviso gran parte della propria vita – “Ossi”, e immagino che dall’altra parte succedesse lo stesso.
È la “Mauer im Kopf”– il muro nella testa – il prodotto peggiore della divisione. Una barriera psicologica che non è crollata assieme alla controparte in calcestruzzo e filo spinato e che ancora oggi divide la popolazione tedesca. È con in mente quelle telefonate tra nonna Helene e sua sorella che mi sono interessato a All Walls Must Fall di inbetweengames, un gioco di strategia ambientato in una distopia dove la Guerra Fredda non è mai finita e dove, in una Berlino ancora divisa dal Muro, si deve cercare di prevenire lo scoppio della guerra termonucleare. Ed è con in mente gli imbecilli che parlano di muri da erigere a difesa dei propri paesi e delle loro “culture” che rivolgo la prima domanda a Jan David Hassel, cofondatore assieme a Isaac Ashdown e Rafal Fedro della software house berlinese.
Prismo: Il muro del vostro gioco è ovviamente “il” Muro per antonomasia e i legami con la realtà berlinese sono fortissimi. Ciò detto, è possibile interpretare quel “tutti i muri devono crollare” come un riferimento alle numerose barriere che stanno venendo erette – sia fisicamente che politicamente – in Europa e America?
Jan David Hassel: È ambedue le cose. Di certo, ogni riferimento a tutti i muri con i quali si stanno cercando di posticipare cambiamenti che sono necessari o comunque inevitabili è voluto e, in generale, pensiamo che “tutti i muri devono cadere” sia una constatazione prima ancora che un augurio; illudersi altrimenti significa solo peccare di arroganza.
D’altro canto c’è però una forte dimensione “locale”: per esempio, qualche giorno fa dei turisti mi hanno chiesto indicazioni per la East Side Gallery [una sezione di muro che corre lungo la Sprea, lasciata intatta a mo’ di memoriale, ndR]. Mi sarebbe piaciuto dire loro che il Muro è ancora presente nella testa delle persone, ma ovviamente non era quello il momento né il luogo giusto; ecco perché spero invece che il nostro gioco riesca a far passare questo concetto, ed ecco anche perché l’ultima barriera che vogliamo abbattere – ed è quella su cui ci stiamo concentrando di più – è la quarta parete, quella che separa il giocatore dall’opera.
Parliamone, allora, cominciando da voi.
Prima di fondare inbetweengames, i miei soci ed io abbiamo lavorato alla Yager, dove abbiamo sviluppato Spec Ops: The Line, che è considerato il primo videogioco AAA apertamente antimilitarista. Successivamente, durante lo sviluppo del sequel di Dead Island sono però sopraggiunte “divergenze creative” (questa la versione ufficiale) che per noi hanno significato, molto prosaicamente, due anni di lavoro gettati al vento. Così ci siamo detti “mai più” e, poco tempo dopo essercene andati da Yager, in soli tre giorni abbiamo realizzato Mammoth: A Cave Painting. È un’esperienza breve – dura poco più di cinque minuti – incentrata sul concetto di ineluttabilità della perdita, ma il riscontro da parte del pubblico è stato tale che ci siamo detti che forse valeva la pena diventare una indie a tutti gli effetti, e così abbiamo fatto.
E così nasce il nuovo progetto. Come lo descriveresti?
All Walls Must Fall è un gioco strategico tra la fantascienza e il noir, ambientato nel 2089, in una Berlino dove la Guerra Fredda non è mai terminata. L’assunto di base è relativamente semplice: qualcuno – non importa dove o quando – ha inventato una tecnologia per viaggiare e comunicare nel tempo e l’ha venduta a Stati Uniti e Unione Sovietica, che così sono potuti tornare indietro per correggere gli errori del passato e preservare l’equilibrio tra potenze del dopoguerra. Il gioco inizia con l’esplosione di un ordigno nucleare che però non viene rivendicata da nessuna delle parti in causa; pertanto, per scoprire chi è stato, i due blocchi mandano degli agenti indietro nel tempo – dieci ore prima dell’esplosione, per essere precisi. Da qui parte tutto.
Di primo acchito mi sembra un titolo molto ambizioso sia dal punto di vista del game design – con ispirazioni che vanno da X-Com a Syndicate –, sia da quello narrativo, con una trama dal background tematico di grande spessore, che consentirà al giocatore di plasmare la propria storia. È corretto?
Titoli come quelli che hai citato (a cui per completezza aggiungo Rez) sono senz’altro importanti, ma la base del nostro gameplay è ispirata da titoli più contemporanei, su tutti Braid, che ci hanno portato a creare un mix tra manipolazione temporale e azione tattica sinestetica. In termini meno altisonanti, All Walls Must Fall è un gioco di strategia in prospettiva isometrica dove è possibile fermare l’azione in qualsiasi momento e in cui tutte le azioni avvengono seguendo il ritmo della musica dei club berlinesi. Al momento stiamo lavorando perlopiù sulle meccaniche di questi ultimi, sui dialoghi e, soprattutto, sulle possibili implicazioni dei viaggi temporali: ciò che abbiamo creato è infatti una struttura a loop in cui a ogni partita determinati elementi saranno ricomposti in base a princìpi procedurali, così da offrire versioni alternative delle esperienze precedenti ma pur sempre connesse tra loro.
Il che ci porta all’aspetto narrativo: diciamo che se lo si intende come la creazione di un insieme di significati coerenti che consenta al giocatore precise scelte nell’evoluzione della trama, allora è una nostra ambizione, ma non siamo ancora arrivati a quel punto. Capisco le aspettative, soprattutto visto il forte retroterra storico e culturale da noi scelto e la reputazione che ci siamo fatti lavorando per Yager, ma voglio essere onesto: non definirei All Walls Must Fall un gioco incentrato sulla trama, quanto piuttosto sull’atmosfera.
Esclusi i videogiochi, quali sono state le opere che più vi hanno influenzato visivamente e tematicamente?
Dal punto di vista della cinematografia e dell’estetica tech-noir, dobbiamo molto a Blade Runner, Terminator, Ghost in the Shell, Tron, Minority Report, The Matrix, Dark City e Mute, senza contare classici dell’espressionismo tedesco come Il gabinetto del dottor Caligari, Metropolis e M. Sul versante del thriller invece, direi la trilogia dei Bourne, Hanna, Bridge of Spies, The Americans, Le vite degli Altri o l’imminente The Coldest City, che poi è un adattamento da un fumetto. Infine, opere come La Jetée, Primer, Looper, Source Code, Déjà Vu, Edge of Tomorrow, e, ovviamente, Ritorno al Futuro – assieme a mindfuck come Memento e Lola corre – ci hanno aiutati a darci idee per la strutturazione narrativa. Drive, Jack Reacher, Sin City e John Wick sono stati utili per l’azione, invece, specialmente quest’ultimo. Per motivi di spazio evito di dilungarmi sulla letteratura e mi limito a menzionare Vurt di Jeff Noon.
Tornando alla struttura narrativa: se ho capito bene, laddove i livelli saranno strutturati proceduralmente, questa seguirà – se non proprio una struttura fissa – quanto meno un canovaccio, giusto?
Diciamo che come nella Berlino del Muro esistono zone rigidamente controllate e oasi di libertà. A restare immutata è la premessa dell’attacco nucleare, ma lo svolgimento delle sottotrame, nonché la loro stessa presenza, varierà di partita in partita. Abbiamo cercato di trovare un giusto equilibrio tra le finezze di una storia confezionata su misura, e rifinita in ogni dettaglio, e la concessione di libertà del giocatore. Lo scopo è restituire un’esperienza nuova (ma strutturata) ogni volta che comincerà una nuova partita, il che significa anche offrire diversi finali ai vari capitoli, che a loro volta influiranno sull’esito finale.
Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato nel passare da una scrittura lineare a una segmentata e ricombinabile?
Considerato che il copione prevede solo un inizio uguale per tutti, diciamo che è come se ogni volta dovessimo inscenare i diversi atti della recita con attori diversi. In una narrazione lineare, infatti, è l’autore a determinare con precisione tempi e modalità degli eventi presenti nel testo, lasciando al lettore tutt’al più la possibilità di interpretare il materiale in un certo modo anziché un altro. Per esempio, posso leggere un libro di Eco e carpire solo un decimo di ciò che scrive senza che per questo risulti indigesto. Di base, comunque, l’interazione è limitata e decisa a monte.
I videogiochi, invece, sono tanto un’esposizione di idee altrui quanto una performance fatta dagli stessi utenti, con la differenza che, se non si tiene conto dei loro possibili desideri e delle azioni che potrebbero compiere all’interno della struttura che hai creato, si finisce per inciampare in una cosiddetta “dissonanza ludonarrativa”, ovvero quando la realtà immaginata dagli autori si scontra con quella creata dai giocatori. Ecco perché bisogna sempre tenerli a mente e creare un rapporto di dialogo con loro e con le loro aspettative; nel concreto, questo può significare mantenere un alone di mistero su determinati aspetti così che possano essere ricomposti liberamente sia dal giocatore, sia dal gioco stesso.
Ecco, veniamo allora agli elementi fissi: uno è sicuramente Berlino, la città dove vivete, che durante la Guerra Fredda è stata al centro di scontri politici internazionali tanto quanto di innumerevoli movimenti culturali. Com’è rappresentata nel gioco?
La consideriamo una protagonista del gioco a pieno titolo, un po’ come la Rapture di Bioshock. Non è la prima volta che adottiamo un simile approccio: già con la Dubai di Spec Ops: The Line avevamo usato l’ambiente come un elemento caratterizzante e in questo caso, soprattutto visto il taglio noir idealmente vicino a Fritz Lang, il processo è stato naturale. Inoltre, benché lavoriamo tutti e tre a Berlino, nessuno di noi è nato qui: io provengo da Bonn, Isaac da Londra, e Rafal da un paesino polacco al confine con la Germania. In tal senso, l’eterogeneità dei punti di vista e, in un certo modo, la loro rappresentatività delle parti in causa durante l’occupazione ha reso la personificazione molto naturale.

Ciò detto, le ferite del periodo ’61-’89 sono ancora visibili, basta sapere dove guardare: documentandoci, ma soprattutto raccogliendo aneddoti sulla città divisa da parte di chi c’era, siamo riusciti a ricreare una visione plausibile di ciò che avrebbe potuto essere oggi Berlino se il Muro fosse rimasto in piedi. Una plausibilità che, per dirla tutta, è stata rafforzata dalla risacca reazionaria antiglobalista degli ultimi anni; insomma, il 2089 che ci eravamo immaginati è finito col rappresentare sempre più una visione caleidoscopica della realtà attuale.
Si può dunque parlare di All Walls Must Fall come di una metafora del presente?
Entro certi limiti, sì. Adottare uno scenario fantascientifico ci consente infatti di ignorare i vincoli che il realismo imporrebbe al gameplay, ma dall’altro canto la realtà attuale resta una forte forma d’influenza. Premesso che non è nostra intenzione fornire un manuale per la comprensione del mondo, senz’altro ci piacerebbe che il gioco ispirasse curiosità e riflessione.
Faccio un esempio pratico: accanto alla capacità di viaggiare nel tempo, abbiamo ipotizzato l’esistenza di doti divinatorie che consentono alle superpotenze di prevedere esattamente gli esiti della loro manipolazione del passato. Bene: al di là dell’aspetto narrativo, questa abilità rappresenta – nella realtà attuale – il potenziale manipolativo che risiede nei big data, che un giorno potrebbe consentire a chi ne avesse i mezzi di prevedere le esatte intenzioni di voto, trasformando definitivamente la politica in una partita tra propagandisti.
Ecco, nel gioco introduciamo simili questioni in maniera formalmente leggera, non didascalica, lasciando la volontà di interpretazione e la profondità di analisi all’utente. Di base, comunque, le nostre idee e convinzioni personali vengono comunque “dopo” il gioco come tale.
Ecco, la lavorazione del gioco: come sta procedendo e quali saranno i passi da qui alla sua uscita?
Da tempo teniamo aggiornati gli utenti sia tramite il nostro sito, con post incentrati su vari aspetti dello sviluppo, sia tramite i social, soprattutto Twitter. Al momento è in corso una pre-alpha del gioco tra amici e colleghi e di recente abbiamo invitato un po’ di persone a provarlo nei nostri uffici oltre che a fiere di settore, da A MAZE e Talk & Play a Berlino fino a Screenshake in Belgio. Il prossimo passo sarà probabilmente una beta chiusa a maggio a cui iscriversi a partire da marzo, alla quale seguirà una alpha aperta a tutti tramite l’Early Access di Steam. A parte questo, non posso darti una data di uscita principalmente perché il gioco non è finito: per citare un vostro connazionale, “l’arte non è mai finita, solo abbandonata”, e questo vale soprattutto per chi come noi vuole prima valutare la ricezione da parte del pubblico. In generale vogliamo essere quanto più aperti a opinioni esterne proprio mentre stiamo lavorando alla campagna e agli altri elementi, il che non sarà facile, ma del resto rappresenta una piacevole dipartita dall’aria di segretezza che si respira nell’ambiente dei titoli AAA.
Ecco: essendo stati da ambo i lati della barricata, e trovandovi nel mezzo della lavorazione del gioco, quali sono i vantaggi e gli svantaggi del percorso indie?
Il maggior vantaggio è di non avere a che fare con gente esterna che si occupa di produzione, marketing e pubblicità: aspetti che notoriamente finiscono sempre per influenzare il processo creativo e che in più di un’occasione – e certamente più di quanto non si sappia – portano alla cancellazione di un gioco solo perché non rientra nella loro personalissima idea di “titolo vincente”. Lo svantaggio è però che i problemi economici restano tali e che alla fine le decisioni che un tempo qualcuno prendeva al posto tuo ora ricadono sulle tue spalle.
Con una fondamentale differenza, però: che per noi il profitto è del tutto secondario rispetto alla volontà di creare un gioco in cui crediamo e che crediamo valga la pena di essere realizzato in un certo modo. A questo punto l’unica speranza è che là fuori vi saranno giocatori che, dopo averlo provato, ci daranno ragione.
Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, nei tempi morti preferisce scrivere di musica, politica o altro. Ha scritto per Il Mucchio, L'Ultimo Uomo, Rivista Studio e L'Uomo Vogue, ed è caporedattore area gaming di Prismo.