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Atteso, annunciato, posticipato più volte. Lo aspettavamo da tre anni e finalmente ci siamo: con il quarto capitolo si chiude la saga di Nathan Drake e, grazie anche all’ombra lunga di The Last of Us, il risultato supera ogni aspettativa.

Che Uncharted 4 sarebbe stato bello, o addirittura bellissimo, era scontato. Ciò che non era affatto scontato è che, contro ogni previsione, il momento esatto in cui il titolo Naughty Dog vince tutto non è nell’ennesima scena d’azione perfettamente coreografata o quando ci mette di fronte a un panorama che ci ha fatto sbavare le retine, bensì nel prologo. (Attenzione: Spoiler!)

Nei minuti che lo precedono abbiamo già mangiato esca, piombo e tutta la lenza: prima vivendo uno scampolo dell’infanzia di Nathan Drake, poi assistendo a una sua rocambolesca fuga da una prigione sudamericana. Ci troviamo dunque nella fase in cui il nostro eroe ricalca l’archetipo di “quello che prova a fare una vita normale”, nella fattispecie recuperando relitti. Durante una di queste normali giornate, dopo aver esplorato il fondo di un canale giungiamo di fronte al nostro obiettivo, un vagone merci pieno di rame; dalla nave appoggio viene calata una gru e tocca a noi fissare il cavo di traino per tirare in secco il carico. Ora: questa sezione serve solo a farci capire come funziona la meccanica del verricello, che tornerà utile più avanti, ma nel frattempo non si spara, non si scappa, non esplode niente. Eppure al suo interno avviene un gesto di una potenza incredibile per il mondo dei videogiochi: mentre ci spostiamo per fissare il gancio Nathan se lo passa di mano in mano da dietro la schiena, in un movimento estremamente naturale che rischia di passare inosservato e che mostra la vera bellezza del gioco: l’assoluta naturalezza delle sue animazioni e l’incredibile cura riposta anche nelle cose più banali.

Uncharted 4 non ti conquista con l’ennesima rivisitazione del romanzo d’avventura, non ti affascina col suo essere il nuovo Indiana Jones. Ti fa innamorare di lui quando mostra tutto ciò che a un videogioco viene difficile: la normalità.

D’altronde, con Nathan Drake hai esplorato ogni angolo del globo, arrampicandoti nel freddo della Scozia o sotto il sole dei Caraibi, intrufolandoti tra ricchi gangster per sventare un’asta segreta ad Amalfi, scampando alla morte che si presentava sotto forma di mummie esplosive o centinaia di soldati armati; ecco, avendo fatto tutto questo, cos’altro ti resta da apprezzare se non il gusto di qualcosa di banale, qualcosa che non sembri preso di peso da un romanzo d’avventura, ma che si leghi a esperienze che anche noi, con le nostre noiose vite, possiamo vivere? È in momenti come questo che, nonostante la coscienza di avere tra le mani un action-adventure puro, avviene il miracolo dell’immedesimazione tra il giocatore e il protagonista.

Un altro momento di bellissima banalità possiamo viverlo nel decimo capitolo, quando finalmente il gioco passa dall’essere un semplice omaggio ai capitoli precedenti a qualcosa di nuovo. Una volta giunti in Madagascar i livelli si aprono e si espandono, permettendo un’esplorazione più libera e diversi approcci negli scontri a fuoco; in questa sezione del gioco dovremo quindi esplorare la zona con una jeep, guadando fiumi, usando il già citato verricello per superare i pendii più ripidi e così via. Il tutto è impreziosito dalle chiacchiere dei nostri compagni d’avventura, che ovviamente si interrompono se ci fermiamo per esplorare una vecchia torre di guardia o le rovine di un avamposto pirata. Ma quando torniamo a bordo ecco che sentiamo “Dove ero rimasto? Ah sì ti stavo raccontando di come…”: questo semplicissimo modo di riprendere una discussione è un altro esempio di come il titolo Naughty Dog cerchi di non dimenticarsi ma del proprio lato umano, laddove uso questo termine non nell’accezione di “sensibile”, bensì in quella letterale. Uncharted 4, insomma, sa separare in modo convincente gli esseri umani dagli avventurieri poligonali.

Sono dettagli come questi a rendere davvero memorabile il gioco, permettendogli di elevarsi – sia come scrittura, sia come messinscena – rispetto a tutto ciò che abbiamo visto fino ad oggi. I volti di Drake, Sully e degli altri protagonisti riescono finalmente a esprimere emozioni sincere, al punto che il titolo è l’opera che più di tutte riesce ad avventurarsi nelle ostili terre della Uncanny Valley e uscirne con le ossa intatte. Ogni sguardo terrorizzato, ogni labbro morso nella delusione, ogni sorriso tra fratelli è convincente e perfettamente nel personaggio.

Nient’altro che l’avventura
Non c’è dubbio che il merito di tutto sia da imputare al cambio di regia. Senza nulla togliere a Amy Hennig (autrice delle trame e dei copioni dei precedenti tre capitoli), il duo Druckmann & Straley, reduce dal plauso riscosso con The Last of Us, ha impresso un taglio e un ritmo alla nuova avventura di Drake che eleva l’unione tra gameplay e narrazione verso vette fino ad oggi inesplorate.

I punti di contatto tra i due giochi sono evidenti, ma laddove TLoU era sostanzialmente “Nathan Drake più serio, che occasionalmente deve combattere”, Uncharted 4 è una grande avventura che si prende dei momenti per raccontarti i suoi personaggi; per certi versi si potrebbe dire che lo stile dell’uno è l’immagine speculare dell’altro. Più nel dettaglio, ciò che gli autori hanno introdotto nel gioco sono lunghe sequenze narrative in cui l’elemento avventuroso si fa da parte per lasciare spazio alla sviluppo dei personaggi e del contesto. La già citata sequenza del verricello; il momento in cui un giovane Drake si mette sulle tracce della madre; tutta la parte – deliziosa – in cui lo vediamo sfidarsi con la moglie a un noto videogioco (evitiamo ogni spoiler): sono momenti che forse potrebbero infastidire chi vorrebbe solo passare da un’arrampicata a una sparatoria senza soluzione di continuità, ma che rappresentano la naturale evoluzione di un gioco che ha sempre voluto essere qualcosa di più di un test per riflessi.

Inoltre, un’altra fondamentale differenza che separa Uncharted 4 tanto dai predecessori quanto dai suoi padri spirituali (Tomb Raider e Indiana Jones) si ritrova nell’abbandono dell’elemento soprannaturale. Non ci sono arche che sciolgono le persone o calici che le fanno avvizzire, e men che meno statue nepalesi assassine, zombie o alieni. Gli unici nemici di Nathan Drake sono la sua voglia di avventura e l’avidità dei suoi avversari. Sia chiaro: questo non significa che talvolta non si debba sospendere l’incredulità nella nostra ricerca del tesoro piratesco di Libertalia (il gioco è ricco di grandi classici del WTF? come “meccanismi plurisecolari perfettamente funzionanti” e “nessuno muore davvero prima dello scontro finale”). Tuttavia, nel complesso Druckmann e Straley riescono a mantenere dritto il timone della trama senza farla sbattere sugli scogli delle scorciatoie narrative, evitando altresì forzature logiche implausibili e, soprattutto, senza mai staccare gli occhi dalla meta: il divertimento.

Uncharted 4 è infatti un gioco dannatamente divertente, che ha per protagonista un allegro cazzone con la battuta pronta e in cui si devono affrontare eventi incredibili in luoghi fantastici. Il trucco che gli permette di evitare tanto la prevedibilità quanto la pretenziosità è che sa riconoscere i suoi limiti e ne va fiero; per questo i suoi dialoghi, la sua trama e le situazioni presentate appaiono – e sono – del tutto naturali e convincenti. Una rarità, di questi tempi.

Sempre più spesso capita infatti di imbattersi in storie che sfruttano un archetipo per esplorarne un altro. Anzi, l’Altro, con la maiuscola: per esempio, The Walking Dead si presenta come un racconto sugli zombie, ma in verità ci parla della natura umana; Watchmen è un fumetto di supereroi, ma in verità vuole raccontarci la natura umana; Creed è un film sulla boxe, ma vuole raccontarci la natura umana. Potrei andare avanti per ore e analizzare come spesso gli esiti di quest’ambizione si rivelino disastrosi (o quantomeno insoddisfacenti), ma non è questo il punto. Ciò che m’interessa è rimarcare la consapevolezza di Uncharted 4, cioè di un videogioco d’avventura che vuole farci vivere un’avventura; e se per farlo ogni tanto inserisce un dialogo sulla famiglia, sui rapporti di coppia e su ciò che conta veramente nella vita, allora lo fa solo per darci un ottimo motivo per dondolare da una liana mentre spariamo su un tizio con un minigun in una città fantasma a picco sul mare. Se proprio ci puntassero una pistola alla testa per parlarne male, potremmo dire che i comprimari non brillano particolarmente e che il finale fornisce sì la tanto agognata “closure” ma lo fa in un modo spielberghiano, conciliante, senza spingere sul dramma. Non che la serie ci avesse abituato a lutti in stile Game of Thrones, ma The Last of Us ha dimostrato che Druckmann ha nelle sue corde certi colpi di scena. Forse si poteva avere più coraggio e dare al finale un tono ancora più epico e meno all’acqua di rose, ma qualcuno ha avuto paura di trovarsi i fan in lacrime davanti alla porta.

Una squisita minestra riscaldata
Paradossalmente, anche gli aspetti meno brillanti del gioco contribuiscono a renderlo un titolo interessante. Prendiamo per esempio il primo quarto del gioco: è ovviamente bellissimo, presentato con classe infinita, ma è sostanzialmente un more of the same, l’equivalente di un attore famoso che gigioneggia esclusivamente per compiacere un pubblico di appassionati. Di conseguenza, per chi cerca qualcosa di nuovo le prime ore del gioco sono una dolce tortura: tutto molto bello, ma davvero non c’è niente di più? Tutto qua? Una storia uguale alle precedenti in cui sostanzialmente seguiamo un corridoio di scene scriptate (benissimo, per carità)?

Per fortuna, quando arriviamo in Madagascar il ritmo del gioco cambia, e da un labirinto di salti e scontri rigidamente concertati si passa a una maggiore libertà e a una narrazione che, pur non cedendo del tutto il volante al giocatore, quantomeno gli permette di cambiare marcia e scegliere le tappe intermedie. Se la meta finale resta la stessa, dunque, i percorsi che vi portano sono diversi; anche sotto il profilo delle meccaniche si avverte un cambio di registro, e tutto ciò che abbiamo imparato fino a quel momento – nascondersi, usare il rampino e il verricello, spostarsi nell’ambiente con fluidità – sarà impiegato dal giocatore in base al suo stile, la cui espressione è facilitata da aree sandbox piuttosto grandi in cui è ambientata l’azione. All’atto pratico, si colloca un certo numero di nemici in un’area abbastanza vasta; dopodiché la si arricchisce con erba in cui nascondersi, passaggi sotterranei da sfruttare per muoversi inosservati, nonché l’occasionale appiglio per il rampino; dopodiché si lascia al giocatore la totale libertà sull’approccio.

Volete provare a eliminare tutti senza farvi vedere? Nessun problema. Preferite uccidere di nascosto il soldato col bazooka e poi aprirvi la strada sparando? Bene così. L’importante è il come, non il cosa. Se poi vi piace l’idea di vivere scontri ad alto tasso coreografico, ma vi spaventa l’idea di non essere abbastanza bravi per uscirne vivi, non c’è problema. Uncharted 4 offre un livello di sfida perfettamente calibrato, in grado di esaltare sia l’esperto che il neofita, tanto che è possibile impostare la difficoltà a ultra facile, in cui sarete sostanzialmente invulnerabili. Questo probabilmente impedirà di assaporare la soddisfazione di uscire vivi da uno scontro particolarmente difficile, ma se tutto ciò che si cerca è una bella storia in cui arrampicarsi e risolvere qualche puzzle potrete farlo e nessuno vi giudicherà per questo, forse.

Lo scatto perfetto
Un altro aspetto in cui Naughty Dog ha fatto tesoro da The Last of Us è la modalità fotografo. Potrà sembrare assurdo, ma nelle oltre 12 ore di durata del gioco (a difficoltà normale) ci sono momenti in cui l’appagamento per aver azzeccato posa, filtro e inquadratura hanno rivaleggiato con la soddisfazione per aver superato una sequenza di salti particolarmente ostica. Il Photo Mode rappresenta un gioco nel gioco, uno strumento con il quale fermare il tempo e godersi l’incredibile impatto visivo del gioco prima che il bisogno di andare avanti ci faccia perdere di vista ciò che abbiamo attorno.

L’unico difetto di questa modalità è che si finisce per guardare il gioco con l’occhio distaccato del fotografo, al punto che in ogni scena d’intermezzo e in ogni sparatoria – perfino quando state per morire malissimo – dentro di voi si leverà la vocina del voyeur che sussurra “questa sarebbe una foto favolosa!”; e spesso è vero, ma dandole retta si spezza il ritmo del gioco e si sfilano i panni di Nathan Drake per indossare quelli di André Zucca, gettando così alle ortiche l’emozione del momento per capire se il mood dell’immagine rende di più col filtro seppia o noir.

Il rovescio della medaglia è che se un gioco ci porta a fare 150 scatti (alcuni li vedete in questo articolo), ciò significa che il suo valore dal punto di vista visivo è senza dubbio importante. Da un punto di vista delle fonti d’ispirazione c’è molto di Indiana Jones, di Tomb Raider, dei Goonies, di Tin Tin, dell’Isola del Tesoro e di tutto ciò che può venirvi in mente se pensate alle parole “avventura” e “pirati”; al netto del citazionismo, però, ci voleva la cura per il dettaglio (e i fondi) di Naughty Dog per rendere tutto così bello. Ancora più che in passato infatti il gioco cerca a tutti i costi un taglio cinematografico, sia nei primi piani che nei campi lunghi, in cui il gioco ci ricorda che Nathan altro non è che una parte di un affresco più grande, che non deve illudersi di essere il protagonista, quel ruolo spetta a qualcun altro: Sua Maestà l’Avventura.

Volendo tirare le fila per i più scettici (se ce ne sono): Uncharted 4 è bello. Di quel bello che ti fa venire voglia di andare da quelli che disprezzano i videogiochi per costringerli a giocarlo in una versione moderna della cura Ludovico. Siamo di fronte a un’esperienza che appaga ogni senso, esclusi forse tatto e odorato, ma solo perché nella Collector’s Edition non hanno messo un profumo. Un gioco pensato per essere bilanciato e perfetto che forse non vi metterà alla prova, ma che rappresenta l’ideale messa in scena della pietra filosofale che unisce videogiochi e cinema, narrazione visiva e interazione. Un’esperienza estetizzante: si può non essere d’accordo con i princìpi che ne regolano il funzionamento, ma non si può negare che il modo in cui li mette in atto è semplicemente perfetto. Imperdibile.

Lorenzo Fantoni
Lorenzo Fantoni è un giornalista freelance che scrive di videogiochi su Multiplayer.it, Corriere.it, Wired e Playstation Official Magazine. Il suo blog è n3rdcore.it.

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