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Con un valore stimato sopra i 10 miliardi di dollari nel 2015, circa un sesto del mercato globale, l'industria giapponese dei videogiochi ha continuato a crescere nell'ultimo decennio collocandosi al terzo posto nel mondo dopo Cina e Stati Uniti. Eppure c'è chi parla di crisi…

I miei ricordi iniziano in una fredda, freddissima, giornata di marzo. Una specie di uragano sembrava essersi abbattuto su Tokyo e camminare controvento era un po’ come avanzare in una vasca di cemento a presa rapida. O indossare gli stivali di ferro di Link, che non metterei mai se non per andare a passeggio sul fondo del lago Hylia.

Quel giorno dovevo andare con i miei compagni di viaggio nella electric town più famosa del mondo: Akihabara, la mecca tecnopagana d’oriente, quel quartiere di Tokyo in cui – se sei nata negli anni ottanta e hai una passione per i videogiochi – devi fare tappa almeno una volta nella vita, anche solo per un senso di responsabilità nei confronti della tua generazione (e anche se quel giorno iniziava l’hanami e una parte di te scalpitava per essere altrove).

Il mio ricordo di Akiba, dicevo, è uno strano miscuglio di natura violenta e musichette lisergiche; piani su piani e scaffali a non finire pieni di cose; la voce di un amico che scavalca il vento impazzito gridando “Se non lo trovi alla Super Potato allora non esiste!”. Ho dimenticato cosa stessi cercando allora (forse qualche limited/collector/Japan-only/variant cover di qualche altrettanto limitato, sconosciuto e sfortunato J-RPG?), in compenso ricordo sciami di ombrelli di ogni dimensione e colore rubati ai pedoni da raffiche impietose di vento, un amico disperso nella tempesta (“Maigo ni nacchatta!”, come urlavo in faccia ai passanti spaventati) e poi, fortunatamente, recuperato la sera in hotel.
Fino a qualche anno fa, passare per Tokyo senza fare un salto ad Akihabara aveva il sapore dell’occasione sprecata; bastavano anche solo la promessa dei gashapon di Legend of Zelda (introvabili altrove) o l’impatto con i poster di Metal Gear Solid all’uscita della metro a cancellare ogni altra priorità. Quando il Giappone era ancora la patria spirituale dei videogiochi – e il binomio shooter-fotorealismo non ancora una costante nelle classifiche di vendita – Akihabara era la risposta al bisogno di novità.

Oggi, invece, alla fatidica domanda degli amici in partenza per il Giappone che mi chiedono cosa voglio che mi riportino la mia risposta è sistematicamente “Cibo”, salvo poi pentirmi al ricordo dell’ennesima versione pacchettizzata di Gyakuten Saiban che so che qui non vedrò mai. Il problema però non dipende tanto da me (e dall’ossessione per i mochi che ho sviluppato negli anni) quanto dal fatto che, a voler fare un paragone, una volta i system seller di Sony erano i nipponici Gran Turismo, Final Fantasy e Tekken, mentre oggi parliamo di GTA, Uncharted o Call of Duty. Anche il Tokyo Game Show, agli occhi di un occidentale, ha perso quell’importanza che aveva nell’immaginario collettivo ed è stato declassato al ruolo di fratellino sfigato dell’E3 di Los Angeles. Prova ne è il fatto che, se volessi convincervi che i videogiochi giapponesi hanno definitivamente perso mordente, non dovrei nemmeno fare tanti sforzi: mi basterebbe navigare a pelo d’acqua nell’arcipelago anglofono di internet per imbattermi in profezie catastrofiche zavorrate con dati più neri dei report di Wall Street nel ’29, il tutto arricchito da testimonianze sconsolate di un ipotetico disinnamoramento da parte dei giapponesi nei confronti del medium videoludico.

Ma è davvero così?

Il Super Potato, dove si trovano giochi per il PC Engine come se nulla fosse (foto presa da JapaneseTease.net)

Una percezione sfalsata
Secondo i siti di informazione nipponici la situazione è completamente diversa, e sembra quasi di sentire il suono delle bottiglie di sakè che si stappano mentre leggi di un mercato domestico che nel 2015 ha fruttato qualcosa come 1.359 miliardi di yen, suppergiù 13 miliardi di dollari (per capire le proporzioni: il valore del mercato mondiale dei videogiochi nel 2015 si aggirava intorno ai 91 miliardi di dollari). È il record più alto mai registrato nella storia dell’industria videoludica nipponica, con il segmento mobile che da solo traina il carro, avendo da circa tre anni doppiato la sua controparte console che, quella sì, è crollata ai minimi storici.

Come si spiega però questa discrepanza tra percezione e realtà? Col mobile gaming, principalmente: ecco la realtà che i siti di informazione occidentali – eccetto quelli di stampo finanziario – si rifiutano di celebrare, limitandosi a menzioni vaghe e frettolose nelle chiose di rito che la professionalità impone loro. E il motivo dietro a questa ritrosia è che tra gli appassionati c’è una certa tendenza a pensare – non del tutto a torto – che i titoli mobile siano solo un’esca ben confezionata per i videogiocatori dell’ultima ora, vuote trappole macina-soldi senz’anima. A noi, puristi indefessi del pad cresciuti a pane e Resident Evil, fa un po’ male accettare che il mercato mobile valga oggi in Giappone più di quello tradizionale ai suoi tempi d’oro, non fosse altro per la nostalgia verso quelle Playstation e Nintendo (completare a piacere) che ci hanno svezzato, e la nostra percezione della realtà indubbiamente ne risente.

Anche senza convertirli in Euro, fidatevi: sono tanti

Ma allora cosa dovrebbe dire chi quei tempi d’oro li ha vissuti, in prima persona, tra le file degli addetti ai lavori? Lo abbiamo chiesto a Satoshi Nakai, illustratore giapponese che è stato, tra le numerose altre cose, il designer dei mostri di Resident Evil – Code: Veronica e Resident Evil Zero. Un “giapponese strano”, come lui stesso si definisce alla luce della sua passione per titoli come Fallout, Skyrim e Far Cry, ai quali continua a giocare anche oggi nella spasmodica attesa dell’uscita di Battlefield 1. “Come me ce ne sono pochi”, dice, spiegandomi a mo’ di esempio quanto sia complicato trovare compagni di gioco tra i suoi compatrioti, dato che sono solo in sessantasettemila (davvero) a possedere una Xbox One. Non è una vita facile per un aficionado vecchia maniera come Nakai Sensei: “Che l’industria giapponese dei videogiochi sia cambiata è una realtà,” ammette, “che si rispecchia principalmente nel crollo del mercato console e nell’invasione degli smartphone. Probabilmente solo il Nintendo DS rappresenta un’eccezione a questa regola. Anche PlayStation 4 sembra stia andando bene, ma non si può dire che il successo sia quello di una volta.”

Tuttavia, il boom del mobile gaming in Giappone non è solo un’inevitabile conseguenza dello tsunami smartphone che negli ultimi anni ha rivoluzionato le abitudini di miliardi di persone in tutto il mondo, bensì rientra tra i sintomi di un humus di mutamenti sociali e demografici altamente specifici di quel paese: per esempio, una popolazione che invecchia costringe qualunque settore dell’economia a una revisione del proprio target di consumatori, e proprio il Giappone è da anni uno dei paesi al mondo con il più basso tasso di nascite. Come attestato da un documentario della BBC del 2015, la sua popolazione potrebbe ridursi di un terzo nei prossimi quarant’anni.

La categoria dei videogiocatori, quindi, se da una parte si è allargata a dismisura verso fasce di utenze più casual (donne, impiegati, over 50), raggiungibili appunto attraverso la penetrazione degli smartphone, dall’altra ha visto restringersi significativamente la sua fascia di utenza più giovane. Di conseguenza, a farsi portavoce di quello che consideriamo “un certo modo di giocare” rimangono i 30-40enni di oggi, ovvero persone dai gusti mutati rispetto a vent’anni fa e con decisamente meno tempo da dedicare all’home gaming. Più in generale, sembra che i giapponesi non abbiano più tempo per vivere tout court – figurarsi quindi per giocare – schiacciati come sono dalle esigenze sempre più inumane del lavoro; per dimostrarlo basta evidenziare l’aumento di casi di karōshi (neologismo che indica le morti per eccesso di lavoro) degli ultimi anni.

Girl Power?
Uno stile di vita che lascia ben poco tempo allo svago e che predilige forme di passatempo poco impegnative da una parte, dall’altra l’influenza di una cultura Otaku sempre più incisiva e autoreferenziale difficilmente esportabile all’estero: questi fattori da soli basterebbero a giustificare la frattura apparentemente insanabile tra il mercato videoludico nipponico e quello occidentale. “Uno dei cambiamenti sicuramente più evidenti negli ultimi anni è la trasformazione di tutti i personaggi dei videogiochi giapponesi in 女の子 (Onna no Ko, let. “ragazzine”) che siano, ovviamente, anche kawaii”, spiega Nakai. Un fenomeno che è il riflesso dell’involuzione Otaku di cui parlavamo prima, e che non si limita solo ai videogiochi (belle ragazze e navi da guerra ne abbiamo?), ma si estende ad anime (belle ragazze e carri armati…) e manga (belle ragazze e mostri, anzi no, belle “ragazze-mostro”, sic!), fino a sfiorare film e romanzi, esercitando un’enorme influenza sul lavoro dei creativi che operano in questi settori. “Per lungo tempo il mio lavoro è stato quello di disegnare illustrazioni e mostri, per così dire, ‘realistici’. Negli ultimi tempi perfino questi ultimi sono diventati ragazzine… i militari sono diventati ragazzine! Oggi in Giappone illustrazioni come le mie sembrano superflue, del mio stile realistico non si avverte più la necessità. Per me è un po’ triste perché sento di non avere più un posto a cui appartengo”.

Un esempio come tanti: Rewrite Harvest Festa, visual novel con tre adattamenti manga e un anime uscito nel 2016

Al netto delle perplessità che certe mode e costumi nipponici da sempre suscitano agli occhi di un occidentale, è comunque vero che, rispetto all’atmosfera generale, tra i titoli mobile più venduti in Giappone la situazione appare in qualche modo meno “Onna no Kocizzata”: puzzle-RPG e action-RPG la fanno da padrone, con alcuni titoli sul podio da anni e apparentemente impossibili da spodestare. È il caso di Puzzle & Dragons di GungHo, installato attualmente su circa 40 milioni di device (su una popolazione di 130 milioni di persone, 80 delle quali in possesso di uno smartphone); oppure c’è Monster Strike di Mixi, una sorta di Pokémon-incontra-Puzzle-Bobble che un anno fa registrava incassi pari a 4.5 milioni di dollari… al giorno.

Di fronte a numeri del genere non stupisce – ma fa comunque chiacchierare – l’ingresso nel mercato mobile di mostri sacri quali Capcom, Sega, Konami e Square Enix (il suo Mobius Final Fantasy è appena approdato anche in occidente), ma tra tutti questi è l’apertura di Nintendo verso piattaforme non proprietarie il cambiamento a cui appassionati e professionisti del settore guardano con più trepidazione (e ansia). Non è certo un caso che l’annuncio della partnership con DeNA lo scorso anno, congiuntamente al lancio di Pokémon Go a luglio, abbiano fatto schizzare le azioni della casa di Kyoto alle stelle. L’approdo di publisher così importanti in questo segmento di mercato, che proprio quest’anno sembrerebbe aver raggiunto la sua fase di consolidamento dopo una decade di crescita praticamente ininterrotta, potrebbe finalmente portare quella differenziazione necessaria nell’offerta di un settore che finora sembra solo aver replicato certe formule di successo all’infinito (il recente Pokodan è un po’ il nuovo Puzzle & Dragons, ma anche la categoria dei giochi di carte collezionabili vanta innumerevoli tentativi di imitazione: Shadowverse di Cygames o la serie Million Arthur di Square Enix, per citarne un paio, ma la lista sarebbe davvero infinita).

Pokémon Go! pensavo peggio.

È un po’ come quando Sony decise di inserirsi in un mercato dominato da Sega e Nintendo a metà degli anni novanta, mi fa notare Nakai, e per competere adottò un approccio “un gioco, un’idea”. Paragonato alla scena mobile di oggi, dove il déjà-vu sembra essere l’ingrediente principale di ogni hit che si rispetti, questa prospettiva apparirebbe remota, ma si sa che la competizione accende da sempre la scintilla della creatività, soprattutto quando la regola non scritta del gioco diventa “fare successo o sparire”. Basti solo pensare che i costi per una campagna di marketing per un titolo mobile in Giappone possono arrivare fino a 13 milioni di dollari all’anno, più altri quattro se ci aggiungete anche il passaggio in televisione (ma se i risultati sono questi, vi prego, non fatelo).

A un certo punto, sono costretta a fermarmi e ammettere che il ricordo dell’era PlayStation mi fa sentire quasi attempata alla soglia dei miei venerandi trent’anni e, forse per suggestione, mi genera una sorta di scompenso cardiaco. Non che mi piaccia l’idea di passare le giornate a sospirare sui due CD di Chrono Cross ma non posso fare a meno di chiedermi quali rimpianti si porti dietro Nakai Sensei nella sua valigia emotiva. Lui, con invidiabile aplomb orientale, mi riporta un po’ alla realtà: “Non ci sono cose che rimpiango del passato. Certo, prima le condizioni economiche erano migliori e permettevano di ottenere un certo guadagno anche dai piccoli progetti, e talvolta mi dico che sarebbe bello poter tornare a quei tempi. Poi però penso che i cambiamenti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Cartucce, CD, DVD, BluRay, Digital Download eccetera: il modo stesso di vendere i giochi cambia in continuazione e, se ci rifletto, questi cambiamenti sono iniziati proprio negli anni novanta”.

Consolemania, maggio 1992: il matrimonio tra Nintendo e Sony non s’aveva da fare.

Va bene. Posso accettarlo. Quello de “I bei vecchi tempi” è un concetto fin troppo abusato da ogni generazione. Dopotutto, se siamo riusciti ad accettare il divorzio di Kojima da Konami (ma a loro non ditelo, perché continueranno a rispondere che è in vacanza e di richiamare dopo luglio), l’acquisizione di Grasshopper da parte di GungHo (tu quoque, Suda-sama!), Mikami che diceva che The Evil Within sarebbe stato il suo ultimo gioco spezzandoci il cuore (salvo poi ripensarci), Hironobu Sakaguchi che faceva un gioco di surf per cellulari (o tempora, o mores!), ecco, se abbiamo accettato tutto questo significa che siamo quasi arrivati al punto in cui non c’è più nulla da perdere.

“Doujindie”
Al netto di facili ironie, un discorso a sé andrebbe fatto in merito al fenomeno indie, che in occidente ha cavalcato l’onda della transizione al digitale diventando senza dubbio uno dei motori più potenti dell’industria. Ma in Giappone esiste qualcosa di simile per struttura e incidenza? E, se sì, cosa stanno facendo i suoi protagonisti?

Per capirlo, bisogna fare un attimo un passo indietro fino al 2009, anno in cui Keiji Inafune, il papà di Mega Man, annunciava la fine dell’industria videoludica giapponese, a cui Phil Fish avrebbe fatto eco poco più tardi con il suo caratteristico tono distensivo e conciliante. Solo un anno dopo, lo stesso Inafune mollava Capcom per fondare il suo studio, Comcept, e lanciare una campagna Kickstarter che avrebbe raccolto più di 3 milioni di dollari per Mighty No. 9: una svolta “indie” (seppur temporanea e segnata da diverse polemiche) che gli è valsa un posto nel recente documentario Branching Paths, un quadro interessantissimo sullo stato del settore dei videogiochi indipendenti in Giappone.

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Nel film Inafune spiega come il concetto di “indie” abbia difficoltà ad attecchire nel paese e di come lo si adoperi per definire una ristrettissima fascia di sviluppatori che, in un modo o nell’altro, riescono a ottenere l’agognato successo oltreoceano. L’incomprensione è però culturale prima che linguistica e deriva dal fatto che in Giappone un certo tipo di produzione di videogiochi indipendenti c’è sempre stata, tuttavia rientra nella categoria più generica del dōjinshi, una via di mezzo tra l’hobby di nicchia e il fenomeno di costume che ogni anno, attraverso fiere ed eventi dedicati come il Comiket, richiama centinaia di migliaia di appassionati. Nonostante l’indubbio successo di pubblico, però, quello dei dōjin è un mercato i cui numeri tendono a rimanere nell’ombra e i cui prodotti, persino quelli completamente originali, non riescono a scrollarsi di dosso l’etichetta di fanmade.

Ma se un certo grado di dilettantismo rimane pur sempre la cifra stilistica fisiologica e, in un certo senso, caratterizzante di un prodotto che voglia definirsi indipendente, per noi occidentali, che abbiamo assistito alla nascita di fenomeni come Minecraft, la metamorfosi da “piccolo studio di una decina di persone” a “software house internazionale multimilionaria” non ci sembra poi fantascienza. Al contrario, in Giappone quest’idea fa più fatica a passare, benché si comincino a raccontare anche storie di successo (come quella degli sviluppatori del bellissimo Downwell) e nuovi spazi di aggregazione e di confronto stiano gradualmente emergendo (vedi la recente BitSummit convention, tutta giapponese).

D’altro canto, l’elevata soglia di sbarramento economico posta dal mercato mobile contemporaneo nipponico taglia automaticamente le gambe al piccolo studio che volesse provare oggi a sviluppare su piattaforme social. La scelta quasi obbligata, di conseguenza, rimane il PC e, nello specifico, Steam. Il che però ci riporta all’equazione iniziale: in Giappone “indie” si traduce in “successo all’estero”. In un paese dove sembra inossidabile la cultura del salaryman, e la carriera lavorativa si misura in anni di devozione all’azienda, per rendere la tua attività di sviluppatore una professione riconosciuta a tutti gli effetti rimanendo indipendente devi prima ottenere un certo riconoscimento fuori patria, altrimenti la strada è quella del dōjin, dove parlare di guadagno è visto quasi come un oltraggio e il tuo lavoro sarà sempre ritenuto solo il tuo hobby. È emblematico, in questo senso, che Sony abbia dato il via a un programma specifico di affiliazione per gli sviluppatori indipendenti nipponici chiamato, appunto, Play, Doujin!

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Vane, sviluppato da ex membri di Team Ico. Speriamo solo che da Ueda non abbiano imparato anche le tempistiche

Essere indie in Giappone oggi significa quindi puntare principalmente lo sguardo dall’altra parte dell’oceano e sviluppare per una piattaforma – il PC – che in patria ha poca o scarsa rilevanza, inseguendo così canoni estetici e modelli di business che non garantirebbero la sopravvivenza nel mercato domestico. Anche soprassedendo su eventuali gap culturali propriamente detti, se ci si volesse poi affidare al crowdfunding l’immensa barriera linguistica sarebbe l’ennesimo ostacolo da superare per inserirsi in un meccanismo in cui la comunicazione è fondamentale e la trasparenza nei confronti del cliente/finanziatore è tutto. Ciò detto, la situazione comunque sta cambiando, seppure a piccoli passi: gli sviluppatori indipendenti giapponesi hanno dalla loro delle doti creative innegabili (a proposito, qui ne trovate un esempio) e una lunga tradizione che fa invidia al mondo intero, e pertanto è difficile pensare che non ci sia spazio per loro in quel vasto e folle mondo che è il mercato dei videogiochi globale. Casomai, il pericolo è “solo” quello di arrivare troppo tardi.

Un futuro ancora da scrivere
Come si è visto, parlare in termini spregiativi di “giochini” mobile, e console che arrancano, è un approccio limitativo se non fuorviante: quello giapponese rimane tutt’oggi un mercato estremamente prolifico e di grande interesse per i competitor mondiali. Il problema è piuttosto quello di riuscire intercettare i gusti di un pubblico così poco omogeneo. Secondo Nakai “l’unico vero interlocutore con cui oggi ci si deve interfacciare sono i consumatori. Tra di loro ci sono videogiocatori di vent’anni fa e, allo stesso tempo, persone che vent’anni fa non erano nemmeno nate. Per questo motivo personalmente mi pongo sempre con un atteggiamento propositivo che, nel limite delle mie possibilità, tenga in considerazione le necessità del momento attuale”.

Il che non significa necessariamente rincorrere il nuovo a tutti i costi, ma può anche portare alla reinterpretazione di concetti classici secondo parametri più moderni. Il recupero di generi ormai considerati fuori moda o diventati appannaggio esclusivo di un pubblico di hardcore gamer incalliti in cerca di sfide impossibili, ad esempio, può essere visto sicuramente come uno dei risultati di questa visione.

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Final Fantasy XV è l’ambasciatore in occidente di questo approccio, come dimostra il connubio tra estetica J-pop e il Colorado.

“Un genere che amavo dieci anni fa, quello degli STG, oggi mi è praticamente precluso. Trovo la loro difficoltà esagerata al punto che non riesco mai ad andare avanti. Lo stesso dicasi per i beat-em-up. Sembrano pensati apposta per tagliare fuori chi si approccia al genere per la prima volta, per questo sono categorie in via di estinzione. Con questo non voglio dire che ‘facile’ sia sinonimo di buono, ma nemmeno il contrario. È una proporzione difficile da fare. La mia idea è quella di rivedere quei generi che stanno scomparendo e proporli ai videogiocatori di oggi. Credo che sia possibile e alcuni dei miei lavori al momento si muovono proprio in questa direzione”.

Trovare una soluzione universalmente popolare, continuare a definirsi hardcore ma fare gola, allo stesso tempo, al pubblico più casual, coinvolgere la casalinga senza scontentare il nerd più esigente? Sembra una sfida impossibile, e difatti alcuni hanno già chiuso baracca e burattini per emigrare verso mercati più accoglienti anziché rivedere dalle fondamenta il loro business.

Tuttavia c’è anche chi pensa, al contrario, di tentare l’approccio globale: stando ai rumor più recenti su NX, Nintendo punta infatti a una console ibrida portatile-casalinga che venga incontro alle esigenze di mobilità dei pendolari giapponesi e che possa, all’occorrenza, trasformarsi in un apparecchio domestico che faccia invidia al vicino di casa. Come se non bastasse, NX sarà anche compatibile con i giochi iOS e Android dell’azienda, come i recenti Miitomo e Pokémon Go. L’azzardo, in questo caso, è dato dall’ambizione di volere essere tutto, senonché poi si rischia di non essere niente e di trasformarsi in un fermacarte di lusso per chi ha già uno smartphone per i viaggi e una console casalinga più performante in salotto; eppure, a Nintendo va riconosciuto il merito di aver saputo vedere, quasi dieci anni fa, un immenso oceano blu di possibilità e di videogiocatori inconsapevoli che il Wii è riuscito a conquistare. In tempi più recenti Pokémon Go! ha poi dimostrato che la capacità di raggiungere fasce di utenza estremamente lontane e differenti (e di attirare critiche noiosissime da parte di chi pensa di far ricadere sui videogiochi la colpa di tutti i mali del mondo) sia ancora oggi uno dei punti di forza maggiori dell’azienda di Mario, anche se bisogna ammettere che la tentata  ibridazione tablet-console nota come Wii U è stata uno dei fallimenti più grandi della casa di Kyoto.

Ci sarebbe da aggiungere, in conclusione, che il calo demografico e la transizione verso digital e mobile sono fenomeni niente affatto circoscrivibili al solo Giappone, dove comunque se ne possono osservare le conseguenze più drastiche. Di conseguenza, saper anticipare la direzione e gli esiti di questi cambiamenti rappresenterà probabilmente la chiave per il successo nelle prossime generazioni, poiché, anche se il Giappone dei videogiochi di oggi ci appare quanto mai lontano e indecifrabile rispetto a vent’anni fa, questi potrebbe solo aver raggiunto prima di “noi” uno stadio successivo di evoluzione del settore verso il quale tutti, chi più e chi meno, ci stiamo dirigendo. L’impatto che avrà la VR nel ridisegnare gli equilibri di mercato nei prossimi anni, sarà un altro dei fattori fondamentali per valutare chi è davvero avanti e chi è invece rimasto indietro, ma non c’è dubbio che avere fondi da investire nella nuova tecnologia, magari accumulati grazie al mobile, rappresenti un po’ la pole position del caso.

Io, nel frattempo, sorseggio il mio matcha appena arrivato da Ōsaka e osservo con rammarico lo spazio vuoto tra “Gyakuten Kenji” e “Dai-Gyakuten Saiban”.
Sarà per la prossima volta, mi dico.

Arianna Buttarelli
Arianna Buttarelli è nata lo stesso anno in cui è uscito il primo Legend of Zelda, il che dovrà pur significare qualcosa. È stata deputy editor di Game Republic e Xbox Mag 360, prima di decidere che un giorno sarebbe riuscita a leggere il Genji Monogatari in lingua originale. Al momento si è fermata al titolo.

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